La diversità è una ricchezza / Immagini dell'altro nella letteratura latina

13 Maggio 2019

“La diversità culturale, religiosa e sociale è una ricchezza e non una minaccia”.

Chi l’ha detto? 

Il Papa, nell’udienza alle Guardie svizzere il giorno quattro maggio 2019.

Ma come si poneva il mondo romano antico, di cui, anche secondo Dante, la Chiesa Cattolica è erede naturale, di fronte alla questione del diverso, dello straniero, in una parola: dell’Altro.

Ecco qualche esempio, tratto da una vicenda secolare.

 

Ythalonim valon uth sicorathisyma comsyth

Chym lachunythmumys thyal mycthi varuimy sehi…

Se un copista medievale si fosse trovato davanti a un testo siffatto avrebbe gettato la spugna, anzi la penna d’oca ma prima avrebbe almeno scritto Graecum est non legitur: è greco non si legge. In tal caso si sarebbe sbagliato di grosso, il copista. Perché non di greco si tratta, bensì di punico.

Così inizia infatti il quinto atto di una commedia di Plauto non per niente intitolata Poenulus, ossia il Cartaginesuzzo, come traduce Ettore Paratore, il quale a ragione nel suo commento definisce questo attacco dell’atto quinto come la “singolarità più clamorosa del teatro plautino”. Sono venti versi in punico. I primi dieci riportati dai codici Palatini, i secondi dal palinsesto Ambrosiano, nuova redazione dei precedenti senza differenze sostanziali. 

Plauto stesso si affretta a tradurli, dal verso 949 in poi Deos deasque veneror qui hanc urbem colunt: rendo le dovute orazioni agli dei e alle dee di questa città…

Chi parla in questo modo, cioè in punico e poi subito dopo in latino, è un personaggio che si chiama Hanno (Annone), ed è naturalmente un Poenus, ossia un Punico, un Punico di Cartagine.

A questo Hanno o Annone sono state rapite in tenera età due figlie, e per soprammercato anche un nipote. Egli le ricerca di città in città, finché, a Calidone, in Etolia, le ritrova, prigioniere di un turpe lenone che sta per prostituirle. Fa appena in tempo a salvarle. Una delle due sposerà proprio il nipote, anche lui, guarda caso, residente a Calidone. 

 

Nel prologo è detto che Hanno, in qualunque nuovo posto arrivi, va di filato al bordello, interroga tutte le puttane che trova, fa loro cento domande: da dove vengano, se siano state rapite, da quale famiglia siano nate, e in questo modo omnis linguas scit: ha ormai imparato tutte le lingue, che è, mi pare, davvero un bel metodo per l’apprendimento delle lingue straniere.

In realtà alcuni studiosi hanno ipotizzato che non sia Hanno il cartaginesuzzo del titolo, bensì Agorastocles, il nipote, dato che è lui il protagonista dei primi quattro atti della commedia. Ma i problemi non finiscono qui, dato che, sempre nel prologo, è menzionato un altro titolo riferibile alla commedia, ossia Patruos Pultiphagonides, cioè Lo zio mangiatore di polenta, dato che i cartaginesi erano noti per essere dei polentoni. Non solo: la commedia esibisce due finali, uno dopo l’altro, con sensibili differenze.

Ma questi, e anche altri connessi a quest’opera singolare, sono problemi per specialisti.

A me preme sottolineare un fatto. Un fatto incontrovertibile.

In un testo scritto probabilmente intorno all’anno 197 avanti Cristo (datazione proposta da Paratore sulla base di vari indizi) Plauto fa di un cartaginese (si tratti dello zio, si tratti del nipote) l’eroe eponimo di una sua commedia. E lo fa parlare in punico. La lingua del nemico.

Nessun romano si era dimenticato di Annibale. Che aveva fatto a pezzi il loro esercito a Canne, nel 216 avanti Cristo, dove era perito anche un console, Emilio Paolo. L’esistenza stessa della città di Roma, della Repubblica nella sua interezza era finita sotto schiaffo.

 

Livio, un paio di secoli più tardi, si sentì in dovere di aggiungere un altro prologo alla sua narrazione, quando scrisse dei fatti legati alla seconda guerra punica, perché mai altre città o genti lottarono tra loro che fossero più possenti (Nam neque validiores opibus ullae inter se civitates gentesque contulerunt arma).

Il Punico era il Nemico per eccellenza. Nemico sconfitto, certo, a Zama, nel 202, da Scipione, ma pur sempre il Nemico numero uno.

Eppure il Cartaginese di Plauto, benché con un diminutivo che ha una valenza di spregio, così come i Graeculi, i grecuzzi di Catone, non fa una cattiva figura sulla scena. È pio, invoca gli dei, risolve la situazione con il riconoscimento delle figlie (anagnorisis), mantiene le promesse. Sarà magari anche ravvisabile in lui, come sostiene la professoressa Rosario Lopez Gregoris, la fusione di tre topoi teatrali, cioè delle tipiche figure del pater pius, del  senex amator e  del servus callidus (padre timorato degli dei, vecchio innamorato, servo astuto), però, ripeto, Plauto non si accanisce contro di lui, tutt’altro. Si limita, in effetti, a affibbiargli uno di quei nomignoli gergali che non mancano mai, nemmeno oggi o nel passato più recente, quando si parla dell’altro, del diverso da noi. Si tratti dei baggiani, ossia i milanesi per i bergamaschi, di manzoniana memoria. Oppure siano i crucchi o i boches o i walsch o i rital e raton o i terroni e polentoni e spaghetti-boys e macaronì e chi più ne ha più ne metta.

Nella fattispecie Hanno si prende, ma non si sa esattamente da quale personaggio perché la lezione è discussa, si prende comunque del gugga. Guggast homo vien detto di lui. Che non si sa cosa significhi precisamente (c’è chi ha accostato il termine al greco gyghes, ossia airone rosa) ma sicuramente è un modo per deridere l’etnia cartaginese, forse la sua, presunta o reale, effemminatezza. 

Le platee romane del secondo dopo-guerra punico dovevano provare un sentimento simile a quello di quell’albergatore veronese che, quando vide, nel 1920, il primo ospite austriaco presentarsi alla reception dopo parecchi anni che non ne vedeva uno, se ne uscì con un entusiastico: era ora! (episodio ricordato da Stefan Zweig nel suo Mondo di ieri).

 

Non ne potevano probabilmente più della perenne contrapposizione del noi e loro; volevano solo dimenticare la guerra, il pericolo, la minaccia sempre incombente e farsi quattro risate in pace, sfottendo blandamente un bonario esemplare dell’eterno avversario cartaginese.

Un altro nemico storico di Roma, anch’egli di quelle parti, è Giugurta, il numida Giugurta, contro cui venne condotta la celebre guerra giugurtina, dal 111 al 105 avanti Cristo, celebre perché oggetto di specifica narrazione da parte di Sallustio, la cui opera pare risalire all’anno 40 a.C.

Giugurta discende da Massinissa, fedele alleato di Roma, proprio in chiave anti-cartaginese. Ma l’erede, come spesso accade, traligna. Giugurta combatte i Romani. Anche perché ha capito una cosa fondamentale. Un concetto che trama un po’ tutto il Bellum iugurthinum sallustiano fino a trovare la sua piena e conclamata espressione alla fine del capitolo trentacinquesimo. Giugurta, uscendo da Roma e volgendosi indietro a guardarla, più e più volte, pare che alla fine abbia esclamato Urbem venalem et mature perituram si emptorem invenerit! Città dove di tutto si fa mercato e che ben presto perirà, purché trovi chi la compra!

Giugurta ha appena fatto assassinare tramite un fidato sicario (Bomilcare), a Roma, un suo parente scomodo (Massiva). Scoperto, deve lasciare l’Urbe, eppure, proprio a questo personaggio così squalificato Sallustio affida una lapidaria sententia, che non potrebbe meglio riassumere ciò che lui stesso pensa della corruzione della capitale. È l’Altro, per quanto infido e compromesso, che dà il giudizio più penetrante su noi stessi. È lui che può dire di noi quello che a noi stessi è vietato.

Non solo. Quando, e siamo vicini allo snodo finale dell’opera, Giugurta cerca di stipulare un’alleanza con Bocco, suo suocero, re dei Mauri, queste sono le parole che usa per convincerlo: i Romani sono ingiusti, di avidità insaziabile, sono nemici dell’intero genere umano (Romanos iniustos, profunda avaritia, communis omnium hostis esse). Essi, aggiunge Giugurta, combattono contro di lui, Giugurta, e contro Bocco e contro ogni altro popolo, per un solo motivo la lubido imperitandi, la libidine del potere. Davvero Giugurta è, come scrive Antonio La Penna, il “primo accusatore” antiromano.

Analoghe sono, in Sallustio sempre, nell’ultima sua opera, le frammentarie Historiae, le argomentazioni della celebre lettera di Mitridate ad Arsace, re dei Parti.

 

Anche qui, nel libro quarto di questo testo di rovine, è a un arcinemico di Roma, al temutissimo Mitridate, che Sallustio attribuisce un’analisi rivelatrice della potenza romana. Siamo nel pieno della campagna mitridatica di Lucullo, che ha appena sconfitto l’armeno Tigrane, e Mitridate, che di Tigrane è alleato, si rivolge al re dei Parti, altri nemici storici dei Romani, e gli offre di stringere un patto. Cerca di illuminarlo su chi siano realmente i discendenti di Enea.

Le espressioni di Mitridate rimodulano quelle usate da Giugurta un quarantennio prima: Uno solo e antichissimo è il motivo per cui i Romani fanno guerra a tutti, nazioni e popoli e re, ed è l’insaziabile cupidigia di dominio e di ricchezze (Romanis cum nationibus, populis, regibus cunctis una et ea vetus causa bellandi est, cupido profunda imperii et divitiarum).

I Romani, prosegue Mitridate, si stanno rivolgendo verso l’Oriente, semplicemente perché arrestati dall’Oceano nella loro marcia verso Occidente. Sono eredi di profughi, senza patria e senza parenti. Si sono costituiti in Stato solo per la distruzione del mondo. Non conoscono leggi né umane né divine. Chi non è loro schiavo è loro nemico. Del resto soltanto pochi preferiscono la libertà: i più vogliono solo padroni equi (Namque pauci libertatem, pars magna iustos dominos volunt).

Essi frodano, ingannano, distruggono, questa è la loro grandezza. Chi sono i Romani, dunque? In una parola: i briganti del mondo intero (latrones gentium).

Un campione dell’anti-romanesimo, esaltato da molte profezie mistiche come il salvatore dell’Oriente, l’Uomo del Riscatto, nato in un castello in riva al mare, svela al mondo il vero volto dell’onnipotenza imperiale, ma la sua lettera, indirizzata a un Parto, è scritta da un Romano, benché di provenienza sabina, come Sallustio.

 

 

Infatti i Romani non erano orgogliosi. Prendevano il loro bene dove lo trovavano. Chi dice questo? Sempre Sallustio. O meglio: Sallustio riporta le parole del suo grande mentore e protettore, ossia Cesare.

Infatti l’unico discorso di Cesare che ci sia stato tramandato nella sua interezza, per quanto rielaborato, costituisce il capitolo cinquantunesimo del De coniuratione Catilinae. Qui, ai paragrafi 37 e 38, Cesare, secondo Sallustio, afferma, tra l’altro: I nostri antenati, o senatori, non mancarono né di audacia né di saggezza; né la superbia impediva loro di imitare istituzioni straniere, purché fossero buone. Le armi di difesa e d’offesa le presero dai Sanniti, le insegne dei magistrati dagli Etruschi… preferivano imitare piuttosto che invidiare (Maiores nostri, patres conscripti, neque consili neque audaciae unquam eguere; neque illis superbia obstabat quo minus aliena instituta, si proba erant, imitarentur. Arma atque tela militaria ab Samnitibus, insignia magistratuum ab Tuscis pleraque sumpserunt… imitari quam invidere bonis malebant).

 

Quale differenza rispetto all’altro grande discorso di un leader! Pericle, nel secondo di Tucidide, nel suo famoso logos epitaphios per i morti di Atene, è fiero proprio del contrario: La nostra costituzione non emula le leggi dei vicini. Noi siamo più un modello per gli altri che imitatori degli altri.

Ecco una significativa differenza di mentalità, fra Greci e Romani, su cui riflettere, e vi rifletté, qualche tempo più tardi, come vedremo, l’imperatore Claudio.

Cesare, del resto, nel settimo libro del De bello gallico, si era immedesimato addirittura in un Capo Celta, nell’arverno Critognato. Gli aveva dato voce. In uno dei pochissimi casi di oratio recta dei Commentari.

Siamo nell’anno cinquantadue avanti Cristo. La Gallia è in rivolta. Si è ribellata all’invasore. Cesare è già stato sconfitto a Gergovia. Tra i più determinati ci sono gli Arverni, guidati da Vercingetorige. Ora sono asserragliati ad Alesia, capitale dei Mandubi. C’è chi sostiene la necessità di arrendersi, chi invece di fare una sortita, per quanto disperata.

Critognato sostiene che il nome resa è in realtà un semplice sinonimo di vegognosa schiavitù. Combattere bisogna. Fino all’ultimo. Propone addirittura di cibarsi dei corpi di tutti quelli che non sono adatti alla guerra. Già lo fecero gli antenati nella guerra contro i Cimbri e i Teutoni, terribili Germani. Ma quei nemici feroci erano tuttavia meglio dei Romani, perché, una volta devastate le loro terre, poi se ne andarono, tornarono da dove erano venuti. Ma i Romani no. I Romani che altro cercano e vogliono, continua Critognato, se non, spinti dall’invidia, insediarsi definitivamente nei nostri campi e nelle nostre città? Non hanno mai combattuto che per quel solo motivo: imporre la schiavitù definitiva ai popoli sottomessi (his aeternam iniungere servitutem). Guardate infatti la Gallia Narbonense, la Provincia su cui Roma ha già messo le mani, aggiunge Critognato, mutato il diritto e la legge, soggetta alle scuri è semplicemente oppressa da perpetua schiavitù (iure et legibus commutatis, securibus subiecta perpetua premitur servitute).

 

Cesare ha adottato il punto di vista di un Celta antropofago o aspirante tale, fa le viste d’esser inorridito, ma gli mette in bocca parole di verità.

Probabilmente, anche se non ne abbiamo la certezza, Cesare e Sallustio avranno avuto modo di conversare sul modo di conquistare e amministrare una provincia, a tal punto i loro testi paiono combaciare e Critognato, Mitridate, e Giugurta sembrano formare un coro unanime nella condanna di quello che viene definito con significativo anacronismo l’imperialismo romano.

Anche Tacito si rifà a Sallustio. Lo omaggia con una definizione che ha il sapore di una dichiarazione d’appartenenza rerum romanarum florentissimus auctor, eccellente scrittore di storia romana.

In quella che probabilmente è la sua prima opera, ossia l’Agricola, biografia del suocero, che vale anche come lungo e articolato elogio funebre, Tacito descrive le tappe della conquista della Britannia. 

Gneo Giulio Agricola, all’inizio dell’estate dell’84 dopo Cristo, si sta apprestando a invadere la Caledonia. La battaglia decisiva si svolgerà intorno al monte Graupio, dove si sono già installati i nemici. La situazione pare riprendere per certi aspetti quella di Cesare davanti alle alture di Alesia. Un nobile Caledone, emulo di Critognato, si produce in un discorso, forse meno macabro, ma la cui funzione è ugualmente smascherante. Il suo nome è Calgaco. Fino ad oggi, avverte i suoi il caledone Calgaco, siamo stati protetti dalla favolosa lontananza in cui ci troviamo e dall’oscurità del nostro nome. Ma ora noi, abitatori del mondo estremo, abbiamo finito per accendere le cupidigie dei Romani. Noi siamo per loro l’ignoto. E l’ignoto irradia fascino (atque omne ignotum pro magnifico est). Ma chi sono i Romani? Sono i predatori del mondo (raptores orbis). La definizione pare esemplata su quella che Mitridate diede ad Arsace. Hanno conquistato tutte le terre. Adesso vanno a setacciare il mare. Né l’Occidente né l’Oriente li possono saziare. Rubare, massacrare, rapinare è ciò che, con nome falso, chiamano impero. Creano il deserto e lo dicono pace (Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant).

 

La terra intera non è che un vecchio covo di schiavi (in hoc orbis terrarum vetere famulatu), se non vogliamo essere gli ultimi arrivati, degni dello scherno dei più anziani, dovremo combattere alla morte. Qui c’è un capitano e qui un esercito (hic dux, hic exercitus).

Questi Britanni, anche se abitano il mondo estremo, o forse proprio per questo, posseggono una loro rispettabilissima fierezza e volontà d’indipendenza.

Anche nella coeva Germania (a rigore: De origine et situ Germanorum), questo libro maledetto, per l’uso distorto che ne fecero i nazisti, i cosiddetti barbari Germani assurgono, per vari comportamenti, al rango di Anti-Romani, vivono nel modo che i Romani hanno dimenticato: non speculano prestando il denaro a interessi usurari; non praticano l’adulterio; non allestiscono funerali spettacolari; smettono presto i lamenti, tardi dolore e tristezza; conoscono un solo tipo di divertimento; e, in una parola, non chiamano moda il corrompere e il lasciarsi corrompere (nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur). L’Altro è qui lo specchio che riflette uno stadio antico della propria civiltà, superato in nome di un falso progresso che in realtà è decadenza.

Tornando all’Agricola purtroppo, o per fortuna, dipende dai punti di vista, i Britanni perderanno. Ma la calzante serie di infiniti, sinonimi di impero, secondo Calgaco, passerà alla storia.

Anche la decisione presa dall’imperatore Claudio, nell’anno 48 dopo Cristo, sotto i consoli Aulo Vitellio e Lucio Vipstano, era passata alla storia, così come la sua orazione al senato. È sempre Tacito che ce ne riferisce, nel libro undicesimo degli Annales.

 

La questione riguardava i Galli, ancora loro! Quelli Transalpini, che, siccome portavano i capelli lunghi, formavano la Gallia comata. Avevano già la cittadinanza romana ma ora rivendicavano il diritto di ricoprire cariche pubbliche, di diventare, magari, anche senatori.

Era uno scandalo! Non bastava avere tra i senatori dei Veneti e degli Insubri? Bisognava proprio inserire a forza i pronipoti dei resistenti di Alesia o, peggio, delle orde di Brenno che avevano invaso l’Urbe incendiandola? Che godessero della qualifica di cittadini romani, questo poteva pure andare, ma che non si azzardassero a bruttare nome e dignità senatoria (fruerentur sane vocabulo civitatis: insignia patrum, decora magistratuum ne vulgarent).

Claudio si espresse al proposito in tutta calma. Lui stesso, disse, era di origine sabina, come il suo antenato Clauso. Del resto i Giulii vennero chiamati in senato da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porci da Tuscolo. E c’era forse da pentirsi che i Balbi fossero venuti dalla Spagna e altri uomini non meno insigni dalla Narbonense?

I discendenti di tutti questi stranieri, aggiunse Claudio, non erano attualmente secondi a nessuno nell’amor di patria.

Noi Romani includiamo, insistette Claudio, noi non commettiamo l’errore di Spartani e Ateniesi, che, benché valorosi, si rovinarono perché respingevano i vinti come stranieri (quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant?).

O senatori, concluse l’imperatore, ricordatevi che tutto ciò che crediamo vecchissimo è stato nuovo un tempo (omnia, patres conscripti, quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere).

I magistrati furono prima solo patrizi. Poi anche plebei. Poi anche latini. E, dopo i latini, degli altri popoli d’Italia.

 

Claudio in questo suo discorso finisce per dire: io, o anch’io, sono l’Altro, e forse, noi Romani, azzarda, lo siamo tutti.

E pensare che era ritenuto più o meno un babbeo, dai suoi di casa. Nessuno si sarebbe aspettato che proprio lui, nell’anno 41, sarebbe diventato imperatore. E, a maggior ragione, nessuno si sarebbe aspettato che questo tranquillo erudito balbuziente, avesse la vista così lunga, in tema di questioni tanto spinose.

Quando Tacito (Annales, III, 18) ricorda questo fatto, aggiunge che lui, più pensa alle vicende umane, siano vicine o lontane, e più ha conferma che noi tutti siamo solo zimbelli del caso (mihi, quanto plura recentium seu veterum revolvo, tanto magis ludibria rerum mortalium cunctis in negotiis obversantur).

Non è un caso invece che i versi che esprimono nel modo più perfetto l’essenza della civiltà romana, nei quali oltretutto l’identificazione dell’Altro e del Medesimo, del Noi e Loro conosce la sua reciprocità più compiuta, non è un caso, dico, che questi versi appartengano a un poema della fine di quella stessa civiltà.

La nottola di Minerva si leva al tramonto.

All’alba del quinto secolo dopo Cristo, quando Roma è ormai invasa e devastata dalle truppe di Alarico, quando le strade, le celebrate strade romane, sono ormai impraticabili e di molti luoghi famosi non rimangono che macerie, rovine, tetti crollati sepolti tra vasti ruderi, proprio allora un Gallo, di nome Rutilio Namaziano, abbandonando, forse per sempre, Roma per mare le rivolge un addio commosso ch’è una preghiera. Le sue parole (che costituiscono i vv. 63-66 del De reditu suo) così suonano: Di genti diverse hai fatto un’unica patria. Fu utile esser governato da te per chi viveva senza leggi. Hai offerto ai vinti l’unione del tuo diritto. Hai reso il mondo una città (Fecisti patriam diversis gentibus unam,/ profuit iniustis te dominante capi;/ dumque offers victis proprii consortia iuris,/urbem fecisti quod prius orbis erat).

L’Orbe è diventato Urbe. Non c’è più differenza tra Roma e tutte le altre città dell’impero. Peccato che Roma sia finita. Forse, al cumulo di rovine materiali, sopravvive l’idea.

Può darsi che, oltre a Lacan e a Byung-Chul Han, anche queste pagine di antichi autori offrano qualche spunto per pensare l’annosa questione dell’Altro.

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