Come sarà la Ladyfest

5 Giugno 2014

In occasione della prossima Ladyfest milanese, festival queer e femminista di cultura indipendente che si terrà il 6, 7 e 8 giugno, abbiamo pensato di dar vita a un percorso di approfondimento su temi e questioni centrali negli studi di genere e nello sviluppo delle pratiche di vita LGBT.

Per prima cosa siamo quindi andati a intervistare il gruppo di organizzatrici della tre giorni per farci raccontare come sarà la Ladyfest e quale sia la loro visione di quello snodo concettuale compreso tra politica, queer, postporno, sperimentazione e immaginario.

 

 

Vi propongo di impostare l'intervista iniziando da alcune domande sull'iniziativa che state organizzando per poi calarci progressivamente nelle questioni che solleveremo via via. Partiamo quindi dall'abbiccì, cosa si intende per Ladyfest? Da che tipo di esperienze prende avvio?

 

Sono festival femministi dedicati all'arte, l'attivismo e la cultura indipendente, organizzati in modo autonomo e fuori da logiche commerciali. Danno spazio alle autoproduzioni e alla creatività e sono espressione della cultura del “do it yourself” (DIY) e di quel tipo di femminismo che, per intenderci, si chiama “della terza ondata”. Un femminismo, cioè, particolarmente aperto alla contaminazione con altri movimenti (il movimento queer, il movimento punk, antirazzista, anticoloniale, ambientalista, hacker eccetera).

 

La ladyfest è un contenitore, uno spazio che apre delle possibilità e che offre dei palcoscenici e delle esperienze.

Il festival è organizzato solitamente da ladies ma data la sua continua trasformazione e contaminazione, è aperto alla collaborazione di tutt* (femmine, maschi, trangender, trans, agender...)

 

 

Potete dirci qualcosa in più su come sono nate le prime, per rispondere a quali desideri, e soprattutto come sono organizzate?

 

L'idea è nata nel 2000 negli Stati Uniti (secondo le nostre fonti, la prima Ladyfest è stata organizzata a Olympia, Washington, nell'anno 2000), da allora molte Ladyfest sono state organizzate in diverse città del mondo e d'Europa (Manchester, Birmingham, Madrid, Leeds, Tijuana, Berlino, Londra, Roma, Tolosa, Granada…). In Italia ci sono state Ladyfest a Torino, Roma, L'Aquila e a Pavia, ma mai a Milano. Questa è la prima volta che viene proposto questo festival autorganizzato nella città. Le prime Ladyfest partivano dal desiderio di dare alle artiste e attiviste donne la visibilità che spesso manca loro nel mondo dell'arte e della cultura mainstream, dalla voglia di creare spazi dove diffondere (e godersi) l'arte, la musica e la cultura fatta dalle donne: in particolare quella non sostenuta da logiche commerciali e istituzionali ma prodotta in modo indipendente, sia da artiste singole che da collettivi.

 

Questa idea che si è mantenuta nel tempo, anche se con varie modulazioni. Ma è importante spiegare che la Ladyfest è un'idea aperta: ogni gruppo organizza la Ladyfest in modo autonomo, attorno a questa idea e ad una serie di principi chiave (la logica della rete, dell'autorganizzazione e del DIY, la condivisione e creazione collettiva di saperi, l'unione di arte e attivismo, una modalità di fare politica che passa attraverso l'incontro, la condivisione e anche la festa...) che funzionano da motore, ma vengono interpretati in modo diverso ogni volta. Cioè non si tratta di una formula con copyright (ovviamente!) o di un movimento strutturato (One Billion Raising o cose simili), ma di una pratica attivista che circola a livello globale – ciascun collettivo se ne appropria e lo interpreta in modo diverso. Noi ad esempio ci siamo ispirate a queste idee generali, alle Ladyfest a cui avevano partecipato come pubblico (come quella del 2011 a Roma) e... a mille altre cose, perché siamo un gruppo abbastanza composito di persone con percorsi politici diversi.

 

 

 

La dimensione politica è molto presente nel vostro modo di operare, ne parleremo meglio più avanti; al momento mi interessa sapere, vista la vocazione e i trascorsi militanti, quali obiettivi vi ponete di raggiungere con il festival?

 

Proporre alla città tre giorni su temi legati alla sessualità, che intendiamo come questione insieme personale e politica; una questione che è possibile affrontare anche in chiave giocosa, festosa, e non solo attraverso le lotte – importantissime, necessarie – per la difesa e l’allargamento dei diritti (come le lotte attorno all'aborto, alle scelte riproduttive, contro la violenza, eccetera). Il punto è allargare le nostre possibilità di autodeterminazione e di piacere: lo si fa, anche, riaprendo la sperimentazione e il ragionamento collettivo su questi temi.

 

La Ladyfest vuole contaminare Milano, risvegliare la città su temi che a noi sembrano centrali e che invece sono spesso relegati in secondo piano, oppure affrontati solo seguendo logiche di mercato e in termini di “mode”: il sesso, il corpo, il piacere. Vuole coinvolgere persone e collettivi che guardano con diffidenza o sufficienza a questi temi, oltre ad essere un momento di incontro e scambio per quante da tempo producono cultura e fanno politica in questo campo.

 

Dal nostro punto di vista, saremo contente se le persone che la attraverseranno ne usciranno con un’idea meno cupa o distorta del femminismo, un’idea meno vaga di cosa significano parole come “queer” e “transfemminismo” e di cosa questi movimenti possono fare per loro/portare nelle loro vite. Non perché hanno ascoltato delle lezioni, ma perché hanno vissuto delle esperienze interessanti, incontrato varie attivist*, conosciuto il lavoro di vari artist* e collettivi, e si sono divertite.

 

 

Mi capita spesso di leggere articoli e blog dove trovo affiancate parole come femminismo, punk e post-porno. E mi chiedo: non si rischia di banalizzare eccessivamente la questione usando certe formule? Non c'è questo rischio?

 

Le etichette sono sempre difficili da scegliere e ancora più difficili da spiegare... Rispetto a queste cui fai riferimento, possiamo dire che l'anima punk è sicuramente importante in molte Ladyfest nel mondo, molto concentrate per esempio sulla scena punk-rock femminile e sulla cultura annessa, ma la Ladyfest di giugno non sarà così. Ci saranno concerti e, probabilmente, alcuni collettivi e singole persone che si ritrovano nella cultura punk, ma non sarà quella l'anima del festival, perché non è questa l'identità o il tipo di riferimento culturale che più ci accomuna, che accomuna le persone che la stanno organizzando. Magari siamo molto punk dentro ma... non era questa l'urgenza di questa prima Ladyfest milanese.

 

Il post-porno ci interessa sicuramente di più ed è molto presente nel festival che stiamo organizzando. Il post-porno, dopo ci torniamo sopra meglio, è un movimento culturale molto legato al movimento queer e anche ad un certo tipo di femminismo: chiamiamolo il femminismo pro-sex, anche se non siamo sicure che questo riferimento si capisca dappertutto. In sintesi, una corrente del femminismo che nasce negli Stati Uniti negli anni 80-90, contrapponendosi alla corrente femminista che aveva maggiore visibilità e credito e che era su posizioni fortemente proibizioniste, antiprostituzione e antipornografia.

 

Per tornare a noi e capire l’attualità di questo posizionamento: un femminismo che ha una visione positiva del sesso e della sessualità, che non si concentra solo sulle dinamiche di dominio che si manifestano in questo campo e, in particolare, sui rischi per le donne (rischio di violenza, di oggettivazione, di sfruttamento) ma anche sulle possibilità di liberazione, affermazione, e trasformazione individuale e collettiva che possono scaturire da un investimento politico in questo campo. Si capisce perché ad un certo punto compare il trattino, tra “femminista” e “queer”: quando arriviamo in questo spazio discorsivo e di pratiche, la liberazione non è solo per le donne ma per molti soggetti, non tutti desiderosi di definirsi in termini uomo/donna.

 

         

 

Questi temi legati alla sessualità hanno una valenza politica molto rilevante, mi sembra che soprattutto intorno all'espressione post-porno ci sia la necessità di fare chiarezza, penso sarebbe meglio vagliare ulteriormente la questione...

 

Il post-porno è un movimento culturale e allo stesso tempo politico, fatto da artiste/attiviste che producono un porno (e più in generale un discorso su sessualità e pornografia) alternativo, diverso dalla maggior parte dei porno che ci sono in giro, cioè diverso dal porno commerciale e spesso anche dal porno fai-da-te che circola in rete. La differenza sta sia nei linguaggi usati sia negli obiettivi. Nel porno-e-basta, pur nella varietà di generi e nicchie, c’è una logica commerciale: è un’industria culturale come un’altra, che guadagna sui desideri della gente, e nel mentre produce immaginario e cultura (per quanto pop, sempre di cultura si tratta).

 

La post-pornografia fa leva sui desideri delle persone non per guadagnarci, ma per indagarli, renderli evidenti, esplorarne o suggerirne di nuovi. Oltre che per il gusto di fare porno o vederlo. L’idea di base è rispondere al porno di pessima o cattiva qualità (perché sessista e normativo) con un porno migliore, invece che con il disinteresse o la censura morale. Il post-porno è un’impresa politica: si fa porno perché piace, ma anche per trasformare l’immaginario sessuale. Che non significa banalmente aggiungere nuove categorie al catalogo di youporn (pratiche “strane”, corpi “non belli” e non conformi) ma fare uscire le varie espressioni della sessualità dal catalogo. Anzi bruciarlo! Chi pensava che ci si saremmo fermate ai reggiseni mancava di immaginazione!

 

Rappresentare la molteplicità di corpi, pratiche sessuali, fantasie, ambientazioni, gusti, senza organizzarli in modo gerarchico. Eccitarsi senza distinguere tra porno normale e bizzarro, desiderio normale o strano, fantasia legittima o segreto inconfessabile, tra orgasmi di serie a e serie b, tra modi giusti o vergognosi di provare e dare piacere, tra sessualità legittima e perversione. Riteniamo sia un obiettivo politico importante, urgente, vista la cultura sessuale in cui siamo immerse (non diciamo che “ci circonda” perché non ne siamo fuori) e che determina ancora molto gli incontri e le scoperte che possiamo fare, le nostre possibilità di libertà e piacere.

In sintesi, il post-porno è un movimento che ci interessa – perché a qualcuna o molte di noi piace il porno e ha voglia di vedere cose eccitanti sotto diversi punti di vista, ma soprattutto perché è un bello spazio di sperimentazione, attorno a cui si muovono artiste interessanti. È l’occasione per riaprire un ragionamento sulla sessualità e non farlo per forza da sole o in ristrettissima compagnia.

 

La prima ricerca del post-porno è una ricerca estetica, uno spostamento di sguardo che segna uno spostamento di attenzione: ad essere al centro sono i desideri, nella loro unicità ed irripetibilità, fuori dalle mille categorie che dominano il porno tradizionale. La sfida è quella di poter rappresentare e mostrare la molteplicità del desiderio umano, consapevoli che non si tratta di una pura esposizione, ma di un’esperienza: la pornografia fa, costruisce immaginari e non si limita a dire e raccontare. Il post-porno porta fuori dalla camera da letto le pratiche sessuali più diverse per dire che non c’è nulla di normale e nulla di prevedibile.

 

Il post-porno fa propria la massima femminista del partire da sé e la prende sul serio, partendo da quella parte del sé che è la sessualità e che troppo spesso viene esclusa dal discorso politico o investita da discorsi normativi, che dividono le pratiche e i desideri “giusti” da quelli “sbagliati”, quelli “sani” da quelli “malati”. Infine il post-porno ci rende consapevoli che un discorso politico che escluda il desiderio erotico e lo limiti al privato è un discorso parziale e limitante: “ci viene insegnato a separare la richiesta erotica dalle aree più vitali delle nostre esistenze, tranne che dal sesso. […] Siamo state allevate ad aver paura dei “sì” dentro noi stesse, delle nostre voglie più profonde. Ma, una volta che le abbiamo riconosciute, quelle che non danno intensità al nostro futuro perdono il loro potere e possono essere modificate. […] se cominciamo a vivere da dentro a fuori, in contatto con il potere dell'erotico in noi stesse, permettendo a questo potere di ispirare e di illuminare le nostre azioni nel mondo intorno a noi, allora cominciamo ad essere responsabili di noi stesse nel senso più profondo” (Audre Lorde 1984). Ecco, queste parole di Audre Lorde, che pure non pensava al post-porno, ci sembrano offrano una chiave per leggere il senso di mettere al centro del discorso politico, qui e ora, l’erotico in ogni sua forma e i desideri e le nostre voglie in ogni loro aspetto.

    

         

Secondo voi quale relazione intercorre oggi tra sessualità, politica, desiderio e norma?

 

Apri un campo molto contraddittorio. Provo a risponderti a partire da ciò che vedo attorno a me, a rischio di generalizzare. Da una parte, nel senso comune (condiviso anche nei movimenti) c’è la tendenza a sottostimare la rilevanza politica dei temi legati al corpo, alla sessualità, ai generi, ai modi di stare insieme nelle relazioni. Sono considerati temi minori, di nicchia, qualcosa che interessa solo “le donne”, “le femministe”, “i gay” (il senso comune di solito si ferma qui, fatica a pensare altre categorie). Ci sono sempre delle questioni più urgenti, più serie, più importanti. Insomma, la sempreverde questione delle priorità e di chi le stabilisce. A rafforzare questa idea c’è la convinzione diffusa che “il grosso” dei diritti e delle libertà in campo sessuale sia ormai acquisito, che si tratti di cosa fatta e che le persone possano scegliere liberamente come vivere e con chi vivere la sessualità. Una retorica della libertà sessuale che vale... fino a quando resti dentro la norma: quindi è chiaro che si tratta di un’illusione, ma è molto tenace e diffusa, e fa sì che sembri inutile o “vetero” mobilitarsi su questi temi. Così, a molte persone la sessualità sembra una cosa di cui si può parlare solo a letto o in vari tipi di confessionale (dal lettino dell’analista al talk show alla tele), un ambito di esperienza relegato nella parte privata e intima – quando invece è un ambito di esperienza sottoposto a forti meccanismi di controllo e di regolazione politica.

 

 

Pensando al “queer”: non c'è il pericolo di dare vita a nuove forme identitarie, per quanto costitutivamente sfumate e ambigue e quindi mutevoli? L'identità queer non è a sua volta una costruzione ideologica? ...O siamo tutti queer?

 

Judith Butler, intervistata da Anna Simone nel 2008, dice che “Solo con ironia, penso, si può dire: “Sono queer”. E comunque io preferisco intendere “queer” come verbo, una certa pratica di pensiero critico su come il genere e la sessualità siano in relazione. Inoltre “queer” indica anche una certa apertura alla possibilità che il genere e la sessualità siano accostati in modi non completamente prevedibili e per i quali non abbiamo un linguaggio, né una pratica pronta”. Se intendiamo queer come questa apertura, questo sguardo critico sul mondo e sulle differenze allora sì, forse possiamo dirci queer, ma forse dovremmo dire che abbiamo uno sguardo queer, un’attitudine queer, un modo di vedere il mondo queer.

 

Certamente c’è il rischio di una deriva identitaria, ma che viene costantemente decostruita, messa in discussione e interrogata, senza diventare mai rigida o stereotipata – questo almeno dovrebbe essere l’obiettivo e qui sta la pratica di libertà del queer. La stessa teoria queer si ripensa di continuo, differenziandosi e producendo nuovi pensieri e nuove forme del pensare. Anche per questo è quasi impossibile dire sono queer: a quale queer ci si riferisce? A quello relazionale di Butler o a quello nichilista di Edelman?

Forse, semplicemente, dirsi queer significa dirsi critiche e aperte alla differenza, consapevoli del continuo intreccio tra potere e desiderio, tra identità e differenza.

 

Non siamo tutt* queer, ma chi lo dice sa di esserlo. Non è un’identità che possiamo attribuire ad altre persone, né una precisa qualità che quindi posso misurare (capire quanto è queer una cosa, una persona). Siamo d’accordo che ogni tanto questo aggettivo si usa così, ma questa è una cosa che succede con tutte le idee e le pratiche nuove che emergono dai movimenti, dalle (come chiamarle?) avanguardie culturali (brutta parola ma ci siamo capiti): le idee e soprattutto i termini che nuovi soggetti si inventano per definirsi vengono ripresi e semplificati dalla cultura più allargata e iniziano a circolare. Queer in certi ambienti è diventato un termine di moda, suona più cool, per esempio, di gay e lesbica e transessuale eccetera. Siamo d’accordo, se è a questo rischio che ti riferisci. Per quello che vediamo intorno, non ci sembra una tendenza così forte e diffusa da rendere “queer” una nuova etichetta ingabbiante, una nuova identità rigida. La maggior parte delle persone non anglofone non ha mai sentito questa parola.

Più in generale possiamo dire: il queer è una costruzione ideologica così come il maschio, la donna, l’omosessuale, l’eterosessuale, l’asessuale, eccetera. Non si sfugge alle costruzioni ideologiche, culturali, in questo campo.

 

 

Il controllo biopolitico sui nostri corpi e sui nostri organi è agito da una pluralità di poteri forti (capitale, politica, religione). Il lavoro sull’immaginario sessuale, fatto di pratiche di sperimentazione e di autogestione, forme non omologate di desidero e riflessione teorica, come può portare a superare il discorso “normativizzato” di ruoli, generi e identità ed essere così emancipatorio?

 

Quali sono le forme di resistenza possibili e praticabili, quali quelle che scegliamo, di fronte a forze sempre più grandi di noi? Un primo passaggio è vedere che queste forze o poteri forti non agiscono dall’esterno e basta, si tratta piuttosto di una forma di potere pervasiva e incorporata, per cui cambiando le nostre relazioni, il modo in cui viviamo e viviamo il corpo, eccetera, stiamo già facendo qualcosa di politico. Non è un’apologia del ripiegamento nel privato, nel piccolo: è una strategia che può essere combinata con altre forme di azione, magari collettiva, per rispondere o arginare le politiche che si fanno sui nostri corpi e restringono la nostra capacità di autodeterminazione, per cambiare la cultura dominante eccetera... Ma mentre si lotta, ci si oppone a mille poteri forti e si dice di no, è importante che si costruisca anche un’alternativa, uno spazio abitabile, una vita vivibile… in parte questo è il senso di forme di azione come la Ladyfest, non solo perché è una festa ma perché dentro si troveranno molti spunti, è questa la nostra speranza, per nutrire i percorsi di crescita e trasformazione – individuali e collettivi – attorno a questi temi.

 

La sfera della sessualità è quella dove il controllo biopolitico trova il suo terreno più fertile. È il luogo dove il richiamo al biologico, tipico del controllo biopolitico, può farsi sentire in maniera più forte e con gli intrecci più interessanti: la sessualità assume una posizione di privilegio proprio perché è il luogo della connessione tra sapere scientifico e identità personale, tra tecnologia e psiche. Questa centralità del biologico e dei suoi imperativi fa affiorare fin nelle sue più terribili conseguenze il dispositivo di inclusione ed esclusione che sottende la politica: il vantaggio biologico diventa il criterio per escludere chi non corrisponde alle norme, nascondendo la scelta sotto l’inevitabilità della natura e delle sue leggi implacabili.

 

Questo incastro di corpo e mente, di biologia e politica trova le sue forme di resistenza nella consapevolezza e, aggiungiamo, in una consapevolezza gioiosa. Rompere questo incastro è possibile solo essendo radicali: bisogna arrivare alla sua radice, la sessualità, e riappropriarsene con gioia, con piacere e divertimento, partendo da sé per vedere e sperimentare cose nuove per poi fare un mondo nuovo.

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