Una conversazione / Nino Migliori. Oltre le strutture del reale
In Venezia (1958), un manifesto pubblicitario mostra in primo piano una giovane donna in abito da sposa, posta accanto alla scatola del detersivo Persil, che “lava presto, bene e tutto”, per un bucato lampo. E nello schema concettuale della fotografia, questa immagine nell’immagine è messa in dialogo e in rapporto semantico con il reale bucato, steso tra due case sul canale, visibile in secondo piano. In Gente dell’Emilia (1955), quattro bambini stanno “sentendo” messa in modo distratto. Dietro di loro, sul lato sinistro, un’apertura rettangolare lascia vedere invece un gruppo di pie donne nel matroneo, ispirate dal rituale cattolico, completamente rapite dalla discesa dello spirito santo in quel luogo sacro. Anche qui la finestra apre al rapporto tra superficie del reale e rimando a significati altri suggeriti dall’immagine dentro un’altra possibilità interpretativa dell’immagine. Ciò che si muove al di là delle vetrine, all’interno dei bar, e in primo piano, nei due scatti delle serie Gente del Nord (1950) e Gente dell’Emilia (1959), rappresenta la coesistenza di più livelli e piani nella stessa ripresa fotografica, con diversi silenzi, attese, aspettative, luci, ombre, sguardi, con un interessante travaso di collegamenti tra i vari registri.
Dentro lo scatto dove bambini saltano da un muretto, in Gente dell’Emilia (1957), cosa vibra e che armonici rifrangono, soprattutto nell’ombra intera di un corpo, in sospensione sul muro, proiezione di un balzo? Nella fotografia nessun bambino ha ancora toccato terra.
Tutti stanno volando in quell’istante, nella loro gioia infantile. In quello stato di sospensione e nelle ombre sul muro qualcosa rimane in attesa di essere compreso, a un livello più profondo, al di là della sua prima apparenza di matrice neorealista. Nel libro Nino Migliori. Forme del vero, Corrado Benigni si addentra in un viaggio coraggioso, anticonformista, per condurre il lettore/fruitore di immagini oltre il diaframma della prima lettura di queste fotografie. Benigni condensa tutta la poetica di Nino Migliori (Bologna 1926) nell’atto del fotografare per abitare il tempo, come in una estesa e diffusa esplorazione del visibile, dove “le istantanee non hanno nulla di istantaneo” dentro il flusso sempre anacronistico della ricerca artistica, perché il senso sta in perenne sospensione “tra il vero e l’immaginario, tra il certo e il possibile”. Viene indagata la profondità di campo di ciò che sta in superficie, nel suo aldilà evocativo; si cerca di oltrepassare le fitte maglie della mera realtà, per fare affiorare l’ulteriore possibilità della percezione, ipotizzando anche qui il superamento della sola visione retinica, per dilatare lo sguardo dentro la dimensione del non ancora visto e/o dell’invisibile.
Questa indagine ricorda la tecnica del passo indietro per spiccare un balzo più lungo in avanti. In vari periodi storici è stato in qualche caso tentato – soprattutto da artisti geniali e incompresi nel tempo in cui sono vissuti, poi rivalutati però nei secoli successivi –, sfidando ogni sorta di movimento avanguardista e di critica, per cercare di spingere un po’ più in là la ricerca del vero e dell’inedita lettura. Nella sua lunga e feconda carriera, Migliori è stato un pioniere degli sconfinamenti, autore metamorfico, singolare e inclassificabile, e ha tentato continuamente nuove strade e soluzioni formali. Ha sperimentato molteplici possibilità espressive: immagini sociali di matrice neorealista dell’immediato dopoguerra – antropologiche e identitarie allo stesso tempo, testimonianze visive di un’Italia ormai scomparsa –, fotografie di graffiti murali, pirogrammi, ossidazioni, cellogrammi, clichés-verres, idrogrammi, sovrapposizioni, istogrammi di Photoshop, riuso di fotografie scartate o abbandonate dalla gente, e altro ancora. Nel suo rapporto espressivo polisenso con la fotografia – ovvero in rapporto parallelo col reale tra neorealismo, informale e concettuale – Migliori ha espresso con varie declinazioni la sua indagine del confine tra il caso e la gestione consapevole del casuale: “Un giorno stampavo i miei bambini, le mie vecchie col fazzoletto, e il giorno dopo mescolavo acidi e carte e inventavo le ossidazioni, i pirogrammi, i cliché-verre. Poi magari uscivo e tornavo a fare i reportage. Potevano sembrare due atteggiamenti antitetici e invece erano paralleli”. Quindi le sperimentazioni non furono posteriori ai reportage socio-antropologici fra la Gente dell'Emilia o la Gente del Sud, ma in contemporanea e a volte anche precedenti. Molte sue opere sono nate da sperimentazioni “off camera” su linguaggio e materiali, direttamente con sviluppo, fissaggio, fogli di carta sensibile. Ha ideato immagini direttamente con la luce, senza necessariamente passare attraverso lo scatto fotografico.
Dal 1948 a oggi ha anche documentato le scritte sparse sulle pareti delle città, intendendo i muri come un mezzo di comunicazione, dal periodo in cui non c’era la televisione fino all’era di internet e dei telefoni cellulari. È sempre stato affascinato da come viene usato il muro per esprimere stati d’animo, convinzioni e slogan politici, tifo e affezioni sportive, questioni amorose, il vario repertorio delle tracce segniche, fonti di racconto nelle stratificazioni di carta dei manifesti strappati. Nell’arte combinatoria dei muri coglie gli effetti cromatici, gli incontri casuali tra immagini dei manifesti sovrapposti e strappati, i rapporti semantici tra le parole, le forme e i colori, la sedimentazione dei tempi, degli eventi atmosferici e quelli della storia.
Nella mostra Forme del vero, in corso nel Complesso monumentale di Astino fino alla fine di settembre, curatore e artista hanno selezionato fotografie del periodo neorealista (1951-1963) e quelle delle serie Manifesti strappati (1950-1973) e Muri (1950-1973). Il giorno dell’inaugurazione abbiamo incontrato Nino Migliori per porgli alcune domande, anche a proposito dei suoi lavori che hanno anticipato questioni e modalità indagate in anni più recenti dalle nuove generazioni di artisti in Italia.
Quali sono le contraddizioni legate al concetto di fotografia, inteso come una forma espressiva che si può definire “ambigua” e “bugiarda”?
Quando la fotografia nacque (quest’anno si celebra il 180esimo compleanno) venne ritenuta fedele rappresentazione del reale e si pensava che lo strumento stesso ne sottolineasse l’oggettiva meccanicità. Pensa che, pochi anni dopo la sua invenzione, un medium – che era stato accusato di circonvenzione di incapace da parte dei parenti di una donna, alla quale faceva credere che durante le sedute spiritiche si palesava il fantasma di un caro defunto – fu assolto, perché a testimonianza della veridicità di ciò che sosteneva accadesse portò come prova fotografie che ritraevano “spiriti”. Che meravigliose bugie e possibilità di intervento ben prima di Photoshop! Comunque, la fotografia è sempre un’interpretazione dell’autore. In questo senso è bugiarda. Di conseguenza è ambigua, perché senza dubbio presenta una porzione della realtà, ma solo quella che il fotografo ha scelto di inquadrare, escludendo tutto il resto. Di seguito un esempio che spesso mi piace fare. Siamo negli anni Settanta, mi trovavo alla finestra di un palazzo sopra il Pavaglione ed ero testimone della scena seguente: c’era stata una manifestazione di studenti sul sagrato di San Petronio e la polizia li stava inseguendo, disperdendoli verso via Rizzoli. Nel frattempo, un gruppo di spazzini, giunto prontamente, puliva la piazza piena di volantini e carta, perché il vescovo stava uscendo dalla cattedrale per la benedizione della Madonna di San Luca. Avevo una widelux e l’ottica rotante mi permise di fare una fotografia a 180 gradi, che riprendeva l’intera scena. Se avessi tagliato il negativo in 3 parti ognuno avrebbe raccontato la verità, la sua verità di quello che era accaduto in piazza: studenti che hanno dimostrato e bivaccato, città che viene pulita in modo efficace e pronto, polizia che attacca studenti, vescovo che benedice la città. Pensa quanti messaggi diversi, eppure “veri”, secondo la visione che ipotetici fotografi avrebbero potuto dare. Nel 1978, ben prima dell’avvento del digitale, ho realizzato Segnificazione, un lavoro che dimostra come si possa manipolare la realtà, avvalendosi di due elementi tra i tanti che contribuiscono a costituire il linguaggio della fotografia. Utilizzai, in un certo senso analizzai, l’ingrandimento e il contrasto, elaborazioni comuni da camera oscura, che tutti i fotografi hanno usato senza porsi il problema, che rappresentano un intervento di interpretazione.
Dalla posizione autorevole della tua lunga esperienza sul campo, e visto che hai sperimentato numerose declinazioni legate alla fotografia, ci potresti parlare dello pseudo dilemma che da una parte individua il fotografo e dall’altra l’artista che utilizza il medium della fotografia? Quale è il confine tra le due possibilità, ovvero, dove finisce una e inizia l'altra? È la qualità dell’idea che sta a monte dell’immagine o lo spessore a livello concettuale di chi utilizza il medium della fotografia a determinare la differenza, o c’è dell’altro?
Hai ragione, è uno pseudo dilemma, che ha preso piede quando la fotografia è entrata prepotentemente nel mercato, per cui bisognava vestire con un’aura di artisticità un linguaggio che dipendeva da un mezzo meccanico e che era alla portata di tutti, condizioni che probabilmente venivano ritenute di inferiorità rispetto alle altre forme espressive. Sembra che ci si vergogni o sia sminuente dire: sono un fotografo. Forse c’è un “complesso da inconscio tecnologico”. In realtà quello che conta è l’idea. Se il progetto è valido credo che poco importi quale linguaggio si sia scelto di utilizzare. Per esempio, a nessuno è mai venuto in mente di kdire scultore-artista o artista-scultore, per cui se vuoi sapere la differenza dovresti chiederlo a chi pratica questi binomi. Posso anche aggiungere che ritengo che l’artisticità possano attribuirla solo gli altri e poi è la storia che fa da setaccio.
In alcune interviste ho letto che ipotizzi la possibilità futura di trasmettere il pensiero dell’immagine direttamente dal cervello, con i neuroni, attraverso due sensori applicati alle tempie. Come vedi l’utilizzo poetico e artistico di queste immagini, pensate e successivamente trasmesse? Mi spiego meglio: la storia della fotografia testimonia che lo strumento stesso utilizzato dall’autore ha influenzato la tipologia dell’immagine (il tipo di macchina fotografica, la pellicola, lo sviluppo in camera oscura, la postproduzione, i tempi, le misure, etc.). Come immagini queste “fotografie” ideate nella mente senza l’ausilio di una strumentazione o di una macchina fotografica?
Sì, ad Atlanta, anni fa hanno scoperto che attraverso dei sensori il cervello è in grado di trasmettere il bianco e il nero. Se è vero, e provato scientificamente, allora sarà altrettanto possibile trasmettere immagini, fotografie. Quando evolveranno ulteriormente gli studi neurologici e la tecnologia informatica, inizierà una nuova fase dell’arte visiva. Fin dall’inizio della mia ricerca ho praticato la fotografia off-camera, cioè senza macchina, utilizzando tutti gli altri elementi del linguaggio fotografico: carta sensibile, ingranditore, sviluppo, fissaggio, luce, calore, tempo. Si tratta di alcune tecniche che fanno parte della storia della fotografia e della grafica, come fotogrammi, cliché-verres e altre inventate da me, come ossidazioni, pirogrammi, idrogrammi. Sono sperimentazioni che possono dare esiti informali, ma in ogni modo sono rappresentazioni della realtà, tangibilità di un gesto, indici. Esattamente come avverrà e di che tipologia sarà la trasmissione dell’immagine lo potranno dire gli esperti, gli ingegneri, gli informatici, ma si stanno facendo studi in questo campo e credo si arriverà alla possibilità di inviare e poter concretizzare un pensiero, interpretare quello che è stato visto, tradurre una emozione, una riflessione, un concetto. La fotografia ha solo 180 anni e pensa come dal dagherrotipo è cambiata in un tempo così breve.
Quali sono state, mentre sperimentavi nuove possibilità, le rivelazioni legate all’errore? Dall’errore sono nate interessanti intuizioni nella tua ricerca?
Certamente l’errore costituisce uno stimolo e apre nuove possibilità. Quando nelle indicazioni di un prodotto viene precisato cosa non fare per evitare sbagli, il divieto rappresenta una spinta alla trasgressione e accende la curiosità di sapere cosa può succedere. Quando fu immessa sul mercato la Polaroid 600 si diceva che non bisognava toccare la superficie finché l’immagine non si fosse sviluppata per evitare che si segnasse; io la incisi volutamente e mi resi conto che potevano esserci delle possibilità espressive e così continuai la sperimentazione giungendo a controllare quello che veniva considerato errore. Così iniziai il ciclo delle polapressures, dalle quali sono successivamente derivate tutte le ulteriori ricerche dai polaori, dalle sinopie alle trasfigurazioni.
Alcune tue intuizioni sono state “profetiche”, hanno anticipato questioni che sarebbero diventate attuali molti anni dopo, nella ricerca dell’arte contemporanea. Ci puoi parlare di Checked one year under control?
Una bella faccia in realtà può essere una maschera che nasconde altro. Era da tempo che mi frullava l’idea che certi nostri comportamenti legati a una “facilitazione” di azioni, per esempio pagare con le varie carte, accedere all’autostrada con il Telepass, avere il telefono sempre a disposizione, scrivere mail e navigare in internet, solo per farti alcuni esempi, potevano essere controllati da un ipotetico Grande Fratello orwelliano. A un certo punto, come associazione di idee, mi venne in mente Photobiographemi, un mio lavoro del 1985 derivato da un aneddoto della vita di Buffalmacco raccontata dal Vasari, composto da lucigrammi off-camera, che rappresentavano il percorso biologico di certi insetti. Così decisi che per un intero anno, il 2002, avrei scattato una fotografia nel luogo in cui mi fossi trovato ogni volta che la mia azione era ipoteticamente tracciabile. Era in un certo senso la rappresentazione del mio percorso biologico di un intero anno sottoposto a un possibile controllo. Ne risultò una installazione composta da circa 1200 fotografie. E pensa che allora i cellulari non erano macchine fotografiche e in tasca portavo una piccola Olympus a uovo.
Mi sembra molto interessante anche l’installazione Scattate e abbandonate, costituita da migliaia di fotografie scartate, non più ritirate nei laboratori a cui erano stati consegnati i rullini per essere sviluppati e stampati. Scegliere di non andare a ritirarle dallo stampatore corrisponde al desiderio di cancellare il ricordo, di rimuovere qualcosa dalla memoria? Ci parleresti dell’aspetto concettuale legato prima al gesto di rifiutare e rigettare fotografie e poi invece al tuo recupero con l’intenzione di dar loro una nuova collocazione e vita?
Frequentavo lo Studio Villani, una importante realtà fotografica che iniziò l’attività nei primi anni del Novecento a Bologna, dove convergevano una buona parte dei rullini provenienti dai vari negozi di ottica della città e della provincia. Quando vidi che uno scatolone pieno di fotografie stava per essere mandato al macero, mi stupii, chiesi la ragione e saputala immediatamente mi offrii di ritirarle io. Così dalla fine degli anni Settanta per qualche anno mi furono consegnate centinaia e centinaia di immagini rifiutate. Le ragioni che avevano spinto le persone a ripudiarle, a rinnegare la storia che rappresentavano, penso siano state le più varie, e qui ci si addentrerebbe in un campo che non mi appartiene, perché la cosa più semplice, ma evidentemente non ovvia, sarebbe stata ritirarle per distruggerle. Da subito pensai di esporle, ridare vita come dici tu a momenti che invece erano stati destinati all’oblio; mettere in mostra un ricordo rimosso, una delle funzioni che la fotografia rappresenta, ma non c’era nessun interesse da parte di musei, istituzioni, gallerie, l’operazione non era considerata di valore. Per cui ho conservato per quasi 40 anni quei sacchetti colmi di racconti, di sentimenti, e nonostante traslochi, dispersioni, vicissitudini di archivio non mi hanno mai voluto lasciare. Continuavo a parlarne, ma solo nel 2012, in occasione di una mia mostra personale a Forma, a Milano, feci la prima installazione, una stanza ricoperta di foto applicate su strisce di Domopack, tra le quali si poteva camminare e vedere. La seconda installazione la feci nel 2013 a Palazzo Pepoli, Museo della Storia di Bologna; in questo caso progettai una grande struttura a forma di rullino, che, ricoperta di fotografie, entrava ufficialmente attraverso una porta in un museo: le immagini rifiutate avevano la dignità di essere esposte in una sede prestigiosa.
Come ti immagini il tuffo nel mare del futuro?
Se si pensa che sono passati solo poco più di cento anni dall’arrivo della luce elettrica nelle case e adesso un blackout bloccherebbe la maggior parte delle attività, diventa difficile immaginare il futuro. Anzi, ti dico che, se avessi a disposizione un viaggio andata/ritorno nel tempo, andrei certamente nel futuro, non tanto in là, un centinaio d’anni, ma sono certo che vedrei un mondo rivoluzionato dai giovani, che avranno saputo invertire la barra e impedito la distruzione del pianeta, aiutandosi coralmente, superando le barriere di etnia, censo e lingua. Come può l’uomo rinunciare a essere tale?
Paolo Conte, in una sua canzone, dice: “il maestro è nell’anima, e dentro all’anima per sempre resterà”. Quali sono i maestri che sono ancora attivi nella tua anima e ti aiutano ad avere buone idee originali?
Grazie per il complimento. Spesso dico che la cultura di una persona, cioè la lente interpretativa della realtà, è tutto ciò che rimane dopo aver dimenticato tutto, per cui ognuno di noi è tutto quello che ha provato, visto, letto, ascoltato e metabolizzato. Ma certamente tutti abbiamo dei modelli ai quali ci ispiriamo, per me sono Lucrezio, Leonardo, Duchamp. In poche parole, Lucrezio per la sua visione della vita, l’amore per la natura e i suoi cicli, Leonardo per la curiosità, la continua sperimentazione che spinge a cercare strade nuove e non sentirsi mai arrivati, Duchamp per la provocazione intesa non a stupire o a creare scandalo, ma come riflessione e superamento dei luoghi comuni, a non accettare la sicurezza del conformismo.