Giovanni Chiaramonte e la scoperta del mondo
Giovanni Chiaramonte è stato molto più di un fotografo, è stato un intellettuale. Due sono le mostre che gli rendono omaggio. La prima al Museo Diocesano di Milano dal titolo Realismo infinito, a cura di Corrado Benigni, e la seconda Giovanni Chiaramonte Fotografia come misura del mondo a Parma organizzata da APE (Arti Performance Eventi della Fondazione Monteparma aperto dal 2018) curata dallo storico dell'arte Arturo Carlo Quintavalle. Il giusto ricordo a un maestro della fotografia italiana scomparso troppo presto. Chiaramonte era una persona gentile e generosa. Nei primi anni duemila lo avevo intervistato sul rapporto tra la fotografia e l'architettura, poi ne seguivo il percorso a distanza. Nel 2019 insieme al fotografo Marco Introini avevamo dialogato con Giovanni su Los Angeles e l'immaginario americano. Lui si era portato un testo fondamentale Americana di Elio Vittorini nell'edizione originale, stampato da Bompiani nel 1941. In quel momento ho potuto apprezzare una condivisione di contenuti e una passione per la fotografia che ha avuto pochi eguali. Non aveva solo il dono di saper vedere le cose, ma di uscire fuori dal ruolo di fotografo e diventare storico ed editore per raccontare i suoi maestri.
Questo suo modo di fare era mosso dalla curiosità e dalla conoscenza. Dobbiamo a lui la traduzione di una serie di interviste del fotografo americano Robert Adams raccolte in Lungo i fiumi. Fotografie e conversazioni, pubblicata con la casa editrice Ultreya da lui fondata nel 1993. Non si può analizzare l'opera di Chiaramonte senza leggere la sua figura nella complessità di autore ed editore. Come sottolineato dallo storico Arturo Carlo Quintavalle nel denso volume da lui curato dello in occasione della mostra in corso nel nuovo spazio culturale APE, Chiaramonte ha fatto molti libri sulle sue ricerche ma non ha mai realizzato un'opera monografica che le raccogliesse tutte in un unico volume. Stampato per la nuova collana Electaphoto, diretta emanazione di Electa, nota per le pubblicazioni di architettura, il libro è formato da 456 pagine con la grafica dello studio Leonardo Sonnoli. Tuttavia ci lascia perplessi il formato del libro più adatto a una raccolta di saggi che a un libro di fotografia alla “americana”, nel senso dei libri di grandi dimensioni a cui ci hanno abituati editori come Aperture, Nazraeli Press o gli europei Mack e Steidl. Basta fare un confronto con i libri di arte contemporanea dalla Fondazione Prada o dalla Gagosian Gallery per comprendere il divario anche economico nelle produzioni editoriali fotografiche.
Il libro di Quintavalle raccoglie l'opera di Chiaramonte in maniera esaustiva partendo dall'inizio della sua ricerca, dal bianconero di Ultima Sicilia del 1970 fino al Viaggio in Italia e oltre. Per la prima volta viene raccontata la complessità del pensiero visivo di Chiaramonte, dai primi lavori concettuali ai paesaggi americani e latini. Lo stesso Quintavalle precisa la necessità di fare la mostra monografica: “c'era un mio impegno preso con Giovanni fin dagli anni novanta, fare una mostra monografica con un'analisi precisa della sua ricerca”. La mostra nasce dalla donazione che il fotografo, nato a Varese nel 1948 ma di origini siciliane, aveva fatto al Centro Studi Archivio della Comunicazione dell'Università di Parma, inventato proprio da Quintavalle nel 1968 e che conserva 700 fotografie. Il libro ne presenta 400 suddivise in ordine cronologico. Quintavalle sottolinea prima di ogni analisi di tipo formale della sua fotografia che “Giovanni vive la scoperta del mondo, quella della fotografia, come la scoperta di una religiosità profonda percepita nel creato, un'esperienza intensa che si collega a due grandi filoni, la lunga durata della tradizione del mondo classico, e dunque della civiltà dell'Occidente dai Greci in avanti, l'importanza del viaggio come momento di formazione e quindi di comprensione del mondo”. Così il viaggio che contiene la scoperta delle cose lo accompagna per tutta la vita, in una dimensione profondamente spirituale anche nella scelta formale ed estetica del linguaggio. Nei primi lavori Chiaramonte usa il bianconero e la reflex 35mm addentrandosi nel reportage, che era l'unico modo per fare una fotografia sociale che potesse raccontare la realtà così com'era, senza filtri, enfatizzandone la drammaticità con contrasti forti nei toni di grigio. Nel processo evolutivo del fotografo vi era la necessità di trovare il proprio cammino che passava da una definizione della propria esistenza e dalla relazione con il tempo. Il tempo della vita e il tempo di posa per scattare la fotografia si intrecciano. Chiaramonte capisce presto che deve abbandonare il linguaggio del reportage come lui stesso scrive in Giardini e paesaggi (Jaca Book, 1983) “lo scatto del fotografo coglie solo la forma esteriore della temporalità e ferma nell'immagine solo un frammento transitorio dei fenomeni spezzando irrimediabilmente quel nesso interiore e fondamentale di casualità e trasparenza che forma la struttura primaria del mondo. Io però ho continuato nella fotografia perché essa permetteva una relazione diretta e costante con ciò che succede nella realtà nel suo tempo reale”.
Analizzando le diverse fasi di Chiaramonte, già dai primi lavori si percepiscono le influenze americane. In Ultima Sicilia il riferimento è Paul Strand nel modo in cui taglia l'inquadratura e come riesce a ritrarre le persone nella scena, dettagli che ci riportano alle fotografie che l'americano fece con lo sceneggiatore Cesare Zavattini a Luzzara. L'esito di quel lavoro fu il libro Un paese, pubblicato da Einaudi nel 1955, il cui scopo era il racconto della quotidianità di un piccolo paese della bassa del Po, luogo di nascita di Zavattini. Il bianconero intenso di Strand, che usava il banco ottico nel grande formato 20x25cm, ha influenzato Chiaramonte e gli altri fotografi che, successivamente, saranno confluiti nell'esperienza del Viaggio in Italia coordinato da Luigi Ghirri. Lo stesso Ghirri scoprì che nella biblioteca di Luzzara erano conservate le fotografie fatte da Hazel Kingsbury Strand, moglie di Paul, durante il soggiorno nel paese emiliano. Il paesaggio urbano milanese attorno a Sant'Ambrogio, che fa parte la serie Numerazione Desolazione (1971-1972), riporta alla mente i numeri della serie di Fibonacci usati da Mario Merz: Chiaramonte raffigura i muri di un cortile sulla cui superficie sono tracciate righe verticali e numeri consecutivi da 1 a 10 a scandire la numerazione dei giorni. “Contare ogni alba – scrive Chiaramonte – data alla tua vita senza sapere quale sarà l'ultima e senza sapere dove sarà la fine quando gli occhi si spegneranno alla luce. La desolazione del tempo di fronte alle rovine lasciate dal dramma della storia umana. Qui, fino al bombardamento del 1943, c'era una casa”. Questa serie sancisce il passaggio dal piccolo formato al medio formato quadrato del 6x6 con l'Hasselblad che proseguira anche in altri lavori. Infatti nei primi anni ottanta del secolo scorso, Chiaramonte inizia a viaggiare per l'Italia fotografando con l'Hasselblad alternandola all'uso di una fotocamera panoramica la 6x12. In questo senso in Interno perduto, sul terremoto in Emilia del 2012, ritroviamo proprio l'alternarsi dei due formati, tra una visione più instantanea con il quadrato e più “classica” con il formato panoramico. Il passaggio dal bianconero dei primi lavori al colore, a partire dagli anni ottanta, determina anche una variante nel linguaggio e nella cromia, dai forti contrasti dei grigi ai toni caldi del colore per riprodurre la luce del Mediterraneo, che Chiaramonte ritrova nella sua Sicilia ma anche nel sud del mondo, a Cuba, in Messico, a Gerusalemme e Trinidad, soggetti delle sue ricerche.
C'è un passaggio intermedio tra il primo bianconero e il colore dei paesaggi italiani ed è rappresentato da una serie di immagini che inquadrano gli interni, sia attraverso le finestre, che a loro volta inquadrano il paesaggio, sia attraverso gli schermi della televisione, una volta per raffigurare il cosmo, una volta per reinterpretare i frame del film sulla scoperta dell'America. Ritorna la parola scoperta, una sorta di viaggio prima di tutto dentro se stesso, dove la fotografia media tra il suo essere fotografo e la visione del mondo che lui percepisce attraversandolo a piedi e in automobile. Un lento disvelare all'occhio la capacità di lasciarsi sorprendere da una luce e da un'ombra che ci obbliga a fermarci, un instante, a pensare. Milano è l'altro suo centro insieme alla Sicilia e al sud del mondo. Milano è il ritorno a casa di Giovanni come nell'Odissea il ritorno a casa di Ulisse in cui il viaggio è un modo per ritrovare se stessi. Nella fotografia di Giovanni Chiaramonte vi è proprio questo ritrovarsi a ogni latitudine in cui lui cerca i suoi luoghi e le sue luci calde, aspettando che l'atmosfera della scena sia adatta alla sua sensibilità di poeta dello sguardo. Anche la città, insieme al paesaggio, ha rappresentato il punto della sua ricerca linguistica. Una città composta di frammenti che si compongono in una sequenza che esemplifica la sua prima passione per il cinema. Un film lo impressionò. Era Blow Up (1966) di Michelangelo Antonioni:
“Il film mi impressionò profondamente, perché ricordava, ad una cultura che sembrava averlo dimenticato, come il problema fondamentale dell'uomo sia sempre quello che riguarda la sua relazione col mondo”.
In copertina, Duomo dalla serie Cerchi della città di mezzo, 1999, particolare Chiaramonte Fondazione Monteparma, 800X500.