Franco Ferrarotti, padre della sociologia
Franco Ferrarotti è l'ultimo degli intellettuali militanti del novecento. Ha attraversato il secolo con la forza dirompente delle sue idee contro la sottomissione al potere, come ha dimostrato la sua intera bibliografia. Lo avevo incontrato nel 2008 nello studio di Corso Trieste a Roma, il quartiere nero della città. Era circondato dalla sua biblioteca. I libri erano dappertutto, strabordanti anche sulla scrivania. Ero lì per una intervista per il film documentario Lettera22 che stavo girando sul suo mentore, Adriano Olivetti. Ferrarotti procedeva con fare sicuro nel raccontare l'esperienza al fianco dell'imprenditore eporediese che ne ha condizionato positivamente la vita.
In età adolescenziale Ferrarotti, cagionevole di salute, si era trasferito a Sanremo per godere del clima mite, dove rimase dal 1940 al 1943. Lì inizia la sua passione per la lettura e frequenta la biblioteca per la sua sete di conoscenza. Si sposta a Nizza come lui stesso racconta nell'intervista a Francesca Colella per la rivista Sociologia Italiana:
“Con una vecchia Gilera 250 andavo da San Remo a Ospedaletti – afferma Ferrarotti – Bordighera, Ventimiglia, attraverso Mentone, Beaulieu-sur-mer, Cagnes, Cros-de-Cagnes, arrivavo a Nizza. E a Nizza c’era la Biblioteca comunale, in Piazza del Municipio. Proprio lì – era già avvenuta l’occupazione nazista – trovai i Cahiers de Sociologie di Émile Durkheim. E mi dicevo: ma perché non fare i quaderni di sociologia anche in Italia? E così sono nati i Quaderni di Sociologia: sono nati come una esigenza scientifica, ma anche da una curiosità. Io ero interessato alla sociologia perché la filosofia mi sembrava troppo astratta e l’economia politica troppo arida – almeno com’erano insegnate a Torino – e quindi la sociologia la vedevo come una scienza di osservazione, orientata da concetti non astratti, non puramente deduttivistici o essenzialistici, ma legati, con la ricerca sul campo, all’esperienza umana diretta, al sociale nel suo farsi. Nicola Abbagnano, non per caso, si fece promotore della sociologia e accettò di fungere da vice-direttore dei Quaderni di Sociologia. Nel 1944 si iscrive alla Facoltà di Filosofia dell'Università di Torino. Lavora come traduttore per la casa editrice Einaudi dove incontra Cesare Pavere e Natalia Ginzburg. Traduce i libri di Howard Fast, Sciopero a Clarkton e di Theodor Reik Rito religioso-studi psicoanalitici e si confronta con la scrittura di Thorstein Veblen. Infatti la sociologia di Veblen sarà il tema della sua tesi di laurea con relatore proprio Nicola Abbagnano. Tra il 1949 e il 1950 dalla tesi estrae due saggi che verranno pubblicati sulla Rivista di Sociologia. Contemporaneamente nel gennaio 1949 esce la traduzione del libro di Veblen, dal titolo La teoria della classe agiata.
Pochi giorni dopo scrive una dura stroncatura di Benedetto Croce, che definisce la sociologia “di essere una inferma scienza”.
Nel 1950 Ferrarotti si trasferisce a Milano dove frequenta la biblioteca USIS (United States Information Service) e nel frattempo conosce Adriano Olivetti che sarà una figura molto importante per lui. In quell'anno compie un viaggio in America a bordo della nave Atlantic, grazie alla borsa Fullbright che gli viene rinnovata fino al 1952. Il tema del viaggio è lo studio e l'approfondimento della sociologia americana. “La Fulbright – scrive Ferrarotti – mi diede la possibilità di capire i valori dell’esperienza politica e sindacale negli Stati Uniti che, portati in Italia, diedero un certo frutto con la UIL e la CISL e la stessa CGIL dovette diventare meno politica e più legata alla realtà della fabbrica”. Lavorava alla Università di Chicago ed era entrato in contatto con David Easton, Ernst Burgess, Louis Wirth e altri professori del Dipartimento di Scienze Sociali come Edwards Shils. In America impara la ricerca sul campo che invece in Italia non era consuetudine. Infatti si agiva con gli studi a tavolino senza avere un contatto diretto con la realtà. Nel 1948 il giovane Ferrarotti aveva inviato un articolo alla rivista Comunità che criticava il capitalismo dinastico italiano, il cui esito fu la non pubblicazione ma l'assunzione da parte di Adriano Olivetti. L'imprenditore eporediese aveva iniziato ad assumere non solo gli ingegneri che uscivano dal Politecnico di Torino ma anche e soprattutto gli intellettuali, gli architetti e gli artisti per innovare l'organizzazione del lavoro nella fabbrica fondata dal padre Camillo nel 1908. Comunità era la rivista del Movimento di Comunità (1947), una aggregazione politica fondata dallo stesso Adriano di matrice socialista e federalista. Nel 1945 Olivetti aveva scritto L'ordine politico delle comunità il suo testo manifesto su come avrebbe dovuto essere la società italiana con al centro l'uomo. Infatti con il coinvolgimento dei più importanti intellettuali italiani come Ferrarotti l'obiettivo era di cambiare il modo di fare industria con una forte attenzione per i lavoratori, dalla fabbrica ai servizi sociali fino agli spazi dell'abitare e dell'educazione (asili, scuole) e della vacanza al mare e in montagna con le colonie. In questo nuovo approccio Ferrarotti è stato centrale. Da una parte come uno dei consiglieri più ascoltati e seguiti da Olivetti ma anche promotore di articoli per la rivista Comunità e di traduzioni di testi per le Edizioni queste edizioni dove prende in esame e discute le posizioni dei maggiori studiosi americani che si sono confrontati con questo tema, da Laski a C. E. Lindblom e a S. Perlman. Secondo Ferrarotti, la dissoluzione del sogno americano, di una riuscita quindi individuale, solitaria, è determinata proprio dall’esistenza di organizzazioni quali i sindacati americani. Perché il dilemma, a suo avviso, è tra una contrattazione collettiva e un’azione politica autonoma e diretta nel segno della continuità con lo spirito federalista olivettiano. Nel 1959, Olivetti si dimette dalla Camera e lascia il posto proprio a Ferrarotti.
Sarà così deputato per cinque anni, nella terza legislatura. Lavora soprattutto sui temi sindacali, sul mercato comune europeo e su tematiche economiche, ma non dimentica i problemi dei paesi del Piemonte che hanno sostenuto il Movimento di Comunità. Nel 1960 riesce a far istituire la prima cattedra di sociologia in Italia nella università pubblica della Sapienza, lui sarà il primo professore che aprirà la via ad altri sociologi. Tuttavia Ferrarotti rimane una figura isolata, seppur con una rete di amicizie oltreoceano, un outsider che non si piega al compromesso affrontando le questioni in maniera lucida e propositiva. Continua a studiare e innovare la disciplina andando subito alla radice dei problemi senza inutili fronzoli, in perfetto stile piemontese. Il suo agire sul campo per capire la realtà da vicino trova la sua massima applicazione nel girovagare per la periferia romana tra le baracche. Ricordo una fotografia in bianconero nel suo studio che lo ritrae tra i baraccati. Questo suo lavoro viene raccontato nell'importante libro Roma da capitale a periferia (1970). Roma è rimasta al centro delle sue riflessioni condivise con la sociologa Maria Immacolata Macioti, che sono confluite in Periferie da problema a risorsa. Un viaggio nella periferia romana a distanza di quarant'anni dall'indagine svolta su tre quartieri allora periferici: Quarticciolo, Alessandrino, Acquedotto Felice. Un libro manifesto che, partendo dal concetto di periferia, descrive con grande intelligenza e onestà intellettuale le problematiche della città contemporanea.
L'eredità di Franco Ferrarotti va ricercata nella capacità di essere militanti, di non piegarsi al potere come fecero invece molti suoi allievi sociologi ma anche compagni di strada che abbandonarono l'idea rivoluzionaria della Città dell'Uomo di Adriano Olivetti per abbracciare il mercato e la deriva che ha profondamente alterato la società italiana.