Speciale
Gavoi / Paesi e città
Mi ricordo la vecchia Carlo Felice che entrava nei paesi allungandosi come un pigro serpente e il viaggio lo assaporavi.
Mi ricordo la deviazione che portava all’interno e al mio, di paese, e la gioia dell’infanzia e l’avventura rinnovata per l’avvistamento del cartello che segnava l’ingresso nella provincia interna, il salto, l’attraversamento del confine.
Mi ricordo che, dopo il confine, la bambina di città che ero nascondeva anello, orologio e orecchini dentro le calzette perché temeva e sperava in un blocco stradale di banditi.
Mi ricordo mia madre che all’ultima curva prima del paese diceva a mio padre di fermare la millecento per pettinarsi e mettersi il rossetto perché cominciava la rappresentazione.
Mi ricordo che a Tuluschene, sotto il ponte, dopo la madonna, si vedeva il fiumiciattolo accompagnato da piccoli pioppi leggeri e di fronte, in alto, fioriti opulenti superbi castagni aprivano le porte del paese.
Mi ricordo l’abbeveratoio nel primo slargo all’entrata e uomini e ragazzi che abbeveravano i cavalli senza mettere piede in terra.
Mi ricordo via Roma e le case nuove con pretese cittadine, ma qualche gallina usciva sulla strada.
Mi ricordo il postale da cui scendevano donne con pacchi e corbule, qualcuna con la lunga gonna di panno e pastori in velluto Marzotto, gambali e bertula piena.
Mi ricordo le moto Guzzi su cui i giovani balzavano come su un impetuoso fedele cavallo.
Mi ricordo la nostra millecento che saliva affannata dal carico portato dalla città lontana fino alla casa degli avi materni, là in alto, nella parte antica (823 metri s.m.), che resisteva al cambiamento.
Mi ricordo il trambusto allegro nella piccola piazza San Giovanni portato dall’arrivo dei tre bambini di città.
Mi ricordo la casa dove potevi fermarti a mangiare senza invito. Dal vecchio vicino: un signore, un gentiluomo pastore che leggeva molto e mi narrava in forbito italiano della prima guerra a cui era andato ragazzo rassegnato con animo di pace.
Mi ricordo la casa degli avi materni, le rondini imbozzolate sotto il tetto e il granito che faceva da cornice al decoro dell’intonaco fatto mettere dal bisnonno e dal figlio canonico.
Mi ricordo il rigido decoro della prozia cittadina, in cappellino e volpe, e la stoica, rassegnata accettazione dello scompiglio della vita di mia nonna materna, sua sorella paesana vestita in costume.
Mi ricordo le case di una stanza, senza gabinetto, col soppalco di legno di castagno e i pezzetti di granito infilati nelle fessure dei muri. Mi ricordo il premio in denaro dato dalla regione a chi ricopriva col cemento il barbaro, il banditesco granito delle case.
Mi ricordo donne che filavano con fusi e conocchie lucidati dall’uso. Mi ricordo una gualchiera superstite, arroccata come un antico maniero, ma i telai si vendevano e i magli follavano poco orbace.
Mi ricordo vecchi e vecchie vestiti in costume resistendo ai tempi. Mi ricordo le vestagliette che donne anziane, la nonna paterna più giovane si, l’altra no, indossavano dopo essersi spogliate del costume antico ma protette dal lussuoso scialle di tibet o da un quotidiano, spugnoso scialle di lana.
Mi ricordo gli uomini che ballavano i balli civili, valzer e tango, con la giacca con lo spacco e il sedere che sollevava lo spacco.
Mi ricordo il rock and roll e Good Golly miss Molly e Are you lonesome to night portati dalla città e imparati a memoria senza conoscere l’inglese perché l’America era vicina.
Mi ricordo le ciliegie di giugno piccole e dure da mettere sotto spirito, in s’abbardente, che facevano passare ogni male. Mi ricordo il galletto ripieno, le minuscole trote di fiume e le patate fritte nella padella nera. Mi ricordo la donna messa a guardia dei castagni che apriva il riccio col calcagno nudo. Mi ricordo le ricchezze della soffitta: pere verdi che maturando diventavano morbide e rugginose, un arcolaio uscito da una fiaba, testate di letti nere e chiavi che non aprivano più alcuna storia. Mi ricordo l’arte astratta: i rettangoli rossi dei pomodori esposti al sole, la perfetta geometria dell’ordito teso dalle donne che incrociavano i fili nella piazza.
Mi ricordo i carri a buoi che passando bloccavano i vicoli stretti terrorizzandomi. Mi ricordo la frutta aspra che non aveva niente a che fare con la lussureggiante frutta del mercato cittadino e i bambini che la rubavano perché in altro modo no.
Mi ricordo l’invidia per la fantasia delle bambine con le bambole di stracci e anelli e braccialetti di stagnola.
Mi ricordo la fila a S’antana ‘e susu e le donne che andavano via con il peso delle brocche poggiato sul fianco e il rivo dove andavano a lavare cantando e se era il corredo di una sposa era festa grande.
Mi ricordo la festa di Sant’Antioco con le bancarelle piantate in mezzo al fango. Mi ricordo il cinema nel salone parrocchiale mangiando coni gelato col latte vero.
Mi ricordo l’edicola che vicino a giornali, ai fotoromanzi e a Grazia Deledda esponeva Steinbeck e Pearl S. Buck.
Mi ricordo il giornale letto da una persona sola per tutti fuori, nel vicinato, e che passava di mano in mano e dopo si utilizzava in mille modi.
Mi ricordo un vecchio col poncho tornato dall’Argentina che andava in giro rasentando i muri perché l’aria gli mancava in quel chiuso orizzonte.
Mi ricordo la fotografia di un emigrante dall’aria spavalda, la cravatta a fiocco, gli occhi di gatto, e nessuno sapeva chi fosse perché non era più tornato. Ma uno era tornato con un gruzzolo e era contento più che a Rosario dove aveva un grande Cafè e in paese solo uno piccolo senza camerieri.
Mi ricordo sos zilleris che erano proprio bettole buie.
Mi ricordo la sveglia notturna nella casa paterna per assistere alla cottura del pane, i grandi dischi di pasta che si gonfiavano irraggiati dalle fiamme.
Mi ricordo sas cochidores, cuocitrici del pane altrui, pagate col pane. E mentre le loro abili mani lavoravano, raccontavano lunghe storie per dimenticare la fatica.
Mi ricordo le donne di Ollolai che al mio paese arrivavano per alti sentieri portando cesti tessuti d’asfodelo, agitando nel passo lo splendore degli orecchini di corallo.
Mi ricordo le feste e i balli, perché in nessun luogo al mondo si faceva festa e si piangeva come nel mio.
Mi ricordo le gare poetiche, di notte, con i palchi addobbati di fronde come per i poeti antichi. E molti dopo aver ascoltato la gara la sapevano a memoria. E il canto, a tenore, alla logudoresa, e il tocco della chitarra stavano un poco sospesi nell’aria tiepida.
Mi ricordo il ballo tondo senza staccare i piedi da terra e noi bambini imitando dentro il cerchio, guidati dall’ossessione della fisarmonica e del tamburo.
Mi ricordo Sos sonadores, per la festa dei Santi, e i bambini bussando a tutte le case e chiedendo nocciole, castagne e fichi secchi. E tutti gliene davano.
Mi ricordo la festa dei Morti, le zucche intagliate con la bocca orrida e la candela dentro per impaurire, la notte, i più piccoli. Mi ricordo i morti che ai bambini si facevano vedere e non si nascondevano come in città.
Mi ricordo lo scalpiccio dei passi della folla che li accompagnava al cimitero, perché i morti non si lasciano andare soli.
Mi ricordo l’urlo straziante della madre che cantava il figlio morto. Mi ricordo i pranzi portati dai vicini ai parenti dei morti.
Mi ricordo il circo Zanfretta che aveva sempre lo stesso comico Carletto che raccontava le stesse storielle.
Mi ricordo le sarte di taglio e cucito che d’estate venivano dalla città e avevano la permanente e il rossetto e quelle del paese no.
Mi ricordo le ragazze che ricamavano i corredi sotto i pergolati di uva acerba. Mi ricordo l’immenso pascolo di Sa Itria, l’ altopiano che si apre come un adagio di Mozart e le querce e i lecci e i gelsi e il profumo d’armidda, il timo, che calpesti camminando e ti inebria.
Mi ricordo la festa di Sa Itria, l’ultima domenica di luglio, il menhir e la croce, nuragici e cristiani e laici insieme nel ballo tondo grande quanto il recinto del santuario campestre, chè la festa è di tutti, e le sbronze che duravano giorni.
Mi ricordo gli orti e i giardini aperti tra le case come squarci dì orizzonte sulla campagna e sui monti del Gennargentu.
Mi ricordo che nessun paese così bello mai. La roccia e i rivi e i fiori grandi delle ortensie nell’ombra dei muri, le dalie, il giallo effimero dei narcisi profumati e velenosi. E il ponte romano in piedi fiero di averne viste tante.
Mi ricordo le case di granito ben squadrato dalla nostalgia di uno scalpellino, un piccaperderi trentino, a significare benessere in una società povera.
Mi ricordo le cantine, le ordinate ricche distese di pecorino unto e girato e l’odore che ti prendeva all’entrata delle case.
Mi ricordo i superstiti balconi di legno e i balconcini di ferro dimessi e severi. Ma l’estate esplodevano di fiori nutriti di terra di castagno e di ruggine dei vecchi barattoli di conserva che li ospitavano.
Mi ricordo i grassi maiali incastrati nelle loro cellette e la risciacquatura dei piatti messa nel truogolo perché non si buttava niente.
Mi ricordo un pranzo per l’uccisione del maiale e tutti mangiavano e gridavano contenti. La carne portata in dono ai vicini, a quelli in lutto e agli ammalati e a qualche povero, di nascosto, per non offenderlo.
Mi ricordo sas mannalitas, il gregge di capre da latte, che il capraro lasciava al tramonto all’entrata del paese per ritrovarle all’alba. E loro, scolare ubbidienti, alle case dei padroni ritornavano da sole per essere munte. Il suono dei campanacci salendo verso la parte alta svaniva nella polvere dorata.
Mi ricordo un carnevale, qualche tamburo e facce sporche di sughero bruciato e irruzioni di maschere nelle case: balli, inviti e dolci fritti.
Mi ricordo i matrimoni e quella volta che sono andata con un’altra bambina a invitare i paesani al ricevimento. I lunghi faticosi e allegri preparativi femminili. E i dolci: mandorle, miele e scorza d’arancia. E il profumo usciva dalle case e formava una nuvola sopra i tetti e sul paese, riempiendo gli animi di un presagio felice.
Mi ricordo una donna che montava a neve, a mano piatta, il bianco d’uovo per fare i bianchini e dentro l’umidore della meringa c’era nascosta una mandorla.
Mi ricordo una nevicata con il biancore che aveva ingoiato i rumori e i contorni delle case, del muraglione e della piccola chiesa di San Giovanni.
Mi ricordo il freddo dentro le case e dentro i letti per noi venuti dalla città africana del Capo di Sotto che temevamo l’inverno.
Mi ricordo le estati e la gente che prendeva il fresco sotto la volta fitta di stelle ragionando di annate, di fitti dei pascoli, di sequestri e di incendi (e non si sapeva quali bruciassero di più). Del prezzo del latte, di amori contrastati, del ragazzo uscito dal seminario e della ragazza che voleva farsi suora. Di bundos, di fantasmi, che ogni casa ne aveva uno. Di peste suina, di grassazioni, di processi, di sgarrettamenti. Dei paesani che se ne andavano in città, dello Sputnik, quella diavoleria che, forse, avrebbe volteggiato sopra le nostre teste, del fidanzamento di una ragazza con un carabiniere. E tutto era letto e giudicato come in Corte d’Assise.
Mi ricordo i pomeriggi immobili delle domeniche d’estate passate a giocare a tressette, a scopa o a terziglio, con il cesto sopra le ginocchia come tavolino.
Mi ricordo una processione estiva ferma davanti al municipio con l’altoparlante che diffondeva una frusciante Ave Maria di Schubert.
Mi ricordo quando costruivano la diga e era arrivata l’impresa Lodigiani che le costruiva in tutto il mondo, anche in Africa, le dighe, e tutti invidiavano il paese e l’arditezza del progetto. E c’era gente de cada parte ‘e mundu: ogliastrini, cagliaritani, e anche un geometra continentale, e sembrava il far-west.
Mi ricordo che a un certo punto, in un remoto 1961, le estati si sono fermate. E poi mi ricordo che, molto più tardi, hanno ripreso e tutto era cambiato. Ma questo è un altro ricordo.