Dante Alighieri e Giorgio Caproni / La poesia contro l'oblio

17 Aprile 2018

La poesia è lingua che accoglie nel suo suono, nelle forme del suo dire, il visibile, l’accadere, il sentire, con tutte le loro variazioni e gradazioni, ma si sporge anche sull’invisibile, edifica mondi, pensa, sospingendo il pensiero fino alla soglia dell’impensato. La poesia incorpora il silenzio come materia stessa del dire, e intraprende, con la sua lingua, una lotta singolare e strenua contro l’oblio. Il quale vorrebbe sottrarre anche alla lingua quel che più non ha presenza, quel che non c’è. Il tempo, in effetti, il tempo con le sue rovine, con il suo precipitare nel mai più, nel gelo del non ritorno, è non solo un campo di descrizione della poesia, ma è la terra dove prende respiro l’esperienza di una trasformazione messa in opera dal linguaggio: quel che è finito torna ad avere una nuova presenza, quel che è vinto dalla sparizione torna a mostrarsi come vivente, quel che è perduto ritrova una sua figurazione. Il tempo, che secondo le leggi della fisica, ha come sua propria natura quella di essere irreversibile, di trascorrere di là dalla nostra percezione, di consegnarsi alle forme fluttuanti che diciamo passato o alla prigione oscura, informe, che diciamo oblio, il tempo nella lingua della poesia – e della narrazione, quando questa condivida con il poetico la stessa energia inventiva e linguisticamente creativa – oppone alla propria irreversibilità fisica, alla legge del suo non ritorno, il ventaglio amplissimo e variegato di un suo nuovo modo d’essere: un nuovo tempo, come fenice, dal primo tempo fatto cenere, rinasce. Il ritmo del dire, l’affabulazione, la scansione del verso ridanno movimento e presenza, accento e colore a quel che è assente o cancellato o dimenticato. Dall’epos a tutte le forme del dire, fino alle più sperimentali, la poesia ha fatto esperienza di questa metamorfosi: un tempo consumato che è trasformato in un tempo vivente. Il ritmo stesso non è che tempo, nuovo tempo, nel quale è accolto il tempo che più non c’è. 

 

Il nostos, il ritorno, che nell’esperienza della nostalgia è un ritorno negato, e per questo doloroso, fonte cioè di algos, per la poesia è un fatto possibile. Perché avviene nella lingua, attraverso la lingua. Con i nostoi, con l’epica del ritorno a Itaca, e alle terre dalle quali l’avventura ha allontanato, cominciò l’affabulare della poesia occidentale. Ma si trattava, allora, di un ritorno che teneva aperto il desiderio dell’avventura, un approdo che, se avveniva, non spegneva la tensione verso una nuova partenza. Ulisse non è nostalgico per due ragioni. La prima perché non c’era ancora la parola nostalgia per designare il sentimento, la sua spina, la seconda perché nel raccontare che fa l’eroe, e nel suo avventuroso cercare, non Itaca è al primo posto, ma il raccontare stesso, il cercare stesso. L’avventura è fascinazione e scommessa per Ulisse.

 

Se il ritorno a un tempo già vissuto, e a un luogo legato a quel tempo, per la poesia è possibile, allora si dovrebbe dire che la poesia non ha a che fare con la nostalgia: il suo nostos è privo di algos, di dolore, proprio perché possibile, seppure nella lingua. E tuttavia la poesia, lingua precipua del sentire, conosce e mette in scena anche il dolore per la lontananza da un tempo che più non c’è. Conosce la miseria dell’irreversibile, la distanza dal già vissuto, la malinconia del finito. Come conosce e mette in scena il tragico. Solo che il suo rappresentare in assenza è davvero un render presente, un dare nuova presenza. L’irreversibile è accolto in un ritmo. Il tragico stesso è mostrato nella musica del verso. Movimento che non attenua il dolore ma che nello stesso momento edifica forme e presenze con le quali poter dialogare ancora. La poesia dischiude il colloquio con quel che più non c’è. Pensa contro l’oblio. 

 

La poesia ha contribuito a trasformare la nostalgia da malattia a sentimento. Perché ha mostrato come il desiderio del ritorno può essere liberato dalla sua condanna all’impossibile, può trasformarsi in un’efflorescenza di immagini, in un’animazione di parvenze: nella finzione il tempo può riprendere i suoi colori, senza per questo cancellare il suo essere già stato, l’amarezza per la sua transitorietà. In questa compresenza la poesia ha declinato i modi della nostalgia, accogliendo molti gradi del sentire, dalla romantica Sensucht alla malinconia per la lontananza, dal desiderio di un altrove indistinto allo sguardo sul non accaduto, dal vagheggiamento di un paese ignoto (“nostalgie d’un pays qu’on ignore” di cui diceva Baudelaire) al rimpianto per il non vissuto. Con la poesia – e con la narrazione, in questo davvero prossima alla poesia – la nostalgia ha perduto il suo carattere di doloroso patto con l’impossibile. Infine, il tempo che la poesia ha spesso sentito come prossimo a sé, come intimo a sé, non è quello ordinato nella scansione passato, presente, futuro, ma un tempo altro, un tempo che cerca l’accordo con il tempo cosmologico, un oltretempo. Forse per questa tensione ognuna delle tre Cantiche della Commedia si chiude con la parola stelle.

 

L’ora dell’addio. Un tramonto dantesco

 

Solo qualche passaggio in quella regione dove la poesia mette in scena il rapporto con una lontananza inattingibile, con un tempo che più non appartiene, e allo stesso tempo dà a questa rappresentazione il ritmo e la forma di una presenza. Tutte le figure della nostalgia sono state messe in campo dalle grandi esperienze poetiche, e il lettore potrebbe ritrovarne le modulazioni in poeti antichi e moderni e nelle lingue e letterature che ha occasione di frequentare. Fermando lo sguardo solo nell’area romantica, come non pensare a Hölderlin, a Byron, a Goethe, a Heine, per dire solo di alcuni? Ma sostiamo in particolare su alcune esperienze della poesia italiana, oltre che sul caso di Baudelaire, indagando intorno ad alcune particolari figure della rappresentazione poetica che hanno a che fare con il tempo. A partire dall’esperienza dell’addio. 

 

Opera di Hiroyuki Masuyama.


Così come la poesia – o la narrazione o il teatro – la mostrano, l’esperienza dell’addio ha in sé, insieme con il senso del distacco da quel che è stato, la percezione dell’ignoto che sta per aprirsi. Esperienza della sparizione prima che essa avvenga. Esperienza della lontananza prima che essa si dispieghi (con la figura dell’addio ho aperto anni fa il Trattato della lontananza). Esperienza di un tempo sospeso, nel quale il prima e il dopo pare si congiungano. L’abbraccio e il bacio nell’addio sono la forma corporea, visibile, di questa congiunzione tra il tempo già stato e il tempo che si dischiude. Sono anche il gesto col quale si vorrebbe impedire che una distanza temporale e spaziale sopraggiunga a separare due corpi.

 

Dante, nell’ Antipurgatorio, nella valletta fiorita dove gli spiriti dei principi e dei sovrani canteranno l’inno di Compieta, che inizia con Te lucis ante terminum, evoca la condizione di chi ha detto addio. È l’ora del tramonto, l’ora in cui la spina dell’avvenuto addio si fa più acuta, l’ora che riporta le immagini della partenza e con esse il senso della lontananza sopravvenuta: lontananza dagli amici, e dalla propria terra. L’abbandono di quel che era proprio, appartenente, intimo, torna a mostrarsi – mentre il giorno declina–  nella sua asprezza, ma anche, allo stesso tempo, in una sua dolcezza. Asprezza per la distanza, dolcezza per la nuova presenza che l’immaginazione affettiva custodisce.

 

Era già l’ora che volge il disio 

ai naviganti e intenerisce il core,

lo dì ch’han detto ai dolci amici addio

 

e che lo novo peregrin d’amore 

punge se ode squilla di lontano 

che paia il giorno pianger che si more.

 

La separazione è già avvenuta, i naviganti sono in mare. Nell’ora del tramonto già si spegne la luce e all’orizzonte l’ultimo bagliore si vela di nubi viola. Nella sera che sta per scendere il cuore dei naviganti è visitato dal disio. Il disio è una forma particolare – sfumata nell’indeterminatezza – di quella che avremmo chiamato nostalgia. Desiderio di quel che è assente. Affezione per le immagini di coloro che si sono lasciati sulla riva, e allo stesso tempo amarezza per la lontananza che lentamente rende opachi i contorni di quelle immagini. Di quelle immagini, ora, nella navigazione che ha fatto sparire anche le linee della terra, resta come il senso di una dolcezza fatta ricordo: una presenza nel ricordo.

 

Il pellegrino avverte, in quell’ora, una puntura d’amore. Un amore che ha la forma della nostalgia per la terra abbandonata. Questo sentimento è acuito dal fatto che c’è un suono ad accompagnarlo e in certo senso accrescerlo: è lo scampanio che giunge da lontano, e che sembra commenti il cadere del giorno, anzi sembra pianga il giorno che si perde nella privazione di luce. Il tramonto che accade nella valle dei principi si congiunge con il tramonto evocato dal poeta per dire dell’ora che volge il disio ai naviganti. Il suono, la “squilla” lontana, mentre fa evocare la condizione peregrinante di chi si è messo in viaggio per mare, annuncia “le dolci note” dell’inno di Compieta. La figura del navigante rinvia alla condizione dell’esilio. Di fatto quella condizione è richiamata sul finire del giorno, per annunciare il canto – un canto di devozione – intonato dall’anima “che l’ascoltar chiedea con mano”:

 

Te lucis ante sì devotamente 

le uscio di bocca e con sì dolci note

che fece me a me uscir di mente.

 

Il poeta stesso è esiliato. Sia nell’esistenza corporea sia nel viaggio terrestre e nel viaggio purgatoriale. Un esiliato tra anime in esilio. La spina dell’addio, la nostalgia per quel che è lontano, sono tuttavia mitigate per il fatto di essere affidate a una lingua, una lingua che è musica e parola insieme, una lingua che può condurre verso una condizione estatica (“che fece me a me uscir di mente”). Annuncio di quel che accadrà nella terza cantica. La poesia, nella Commedia, è l’estrema finzione che mette in scena sia il viaggio del poeta sia il viaggio che porta la parola verso un’ultima visione: una visione che non sarà sostenibile dai sensi, ma che è respiro e ragione di tutto il cammino. 

 

Ma Dante ha anche collocato l’addio dei naviganti in una sequenza di immagini che in qualche modo lo preservano sovrapponendo all’amarezza del distacco la dolcezza dell’evocazione: l’ora del tramonto, la partenza per mare, la peregrinatio, il suono della lontananza, la morte del giorno, la voce che canta l’inno e il coro che la segue, infine l’estasi dell’ascolto. Nella Commedia stessa, nel suo svolgersi di mondo in mondo, per cerchi e balze e cieli, c’è il ritmo doloroso di un addio. L’addio di Dante alla sua terra, alla sua città. Un addio senza ritorno. Un addio trasformato nell’esperienza altissima, irripetibile, della poesia. 

 

Caproni: una nostalgia senza nostos

 

Nella poesia di Giorgio Caproni la nostalgia non ha i modi del rimpianto né la tensione verso un ritorno che si sa impossibile o negato, o verso un ritorno tentato per miracolo di evocazione. Si potrebbe dire che nei versi di Caproni non c’è nostalgia, anche quando essa è nominata e descritta. Eppure in tutto lo svolgersi dell’esperienza poetica, da Come un’allegoria a Il passaggio d’Enea, da Il seme del piangere a Congedo del viaggiatore cerimonioso, da Il muro della terra a Il franco cacciatore fino ai versi postumi di Res amissa, il poeta fa trascorrere nei versi un tempo non più presente, e tuttavia quel tempo – immagini, gesti, figure – sta nella lingua, nella musica e nel giuoco e nella luce della lingua come nel suo luogo naturale, vive nel movimento e nel suono della lingua, e per questo è come sottratto al suo essere passato, disteso nel nuovo tempo. Eppure, proprio nel cuore dell’apparire si disegna il senso di una lontananza, accompagnato dal sorriso per la sua doppia natura: estranea a noi e intima a noi. La nostalgia perde le sue ragioni, quel che è perduto è davvero perduto, ma lascia come un segno di questa mancanza: come nel racconto leopardiano del sogno notturno (Frammento) in cui la luna, che si stacca dal cielo e cade sul prato sfrigolando, lascia al suo posto una propria impronta (“come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, / ond’ella fosse svelta” dice Alceta, il personaggio che racconta il sogno e “lo spavento notturno”). Figure e luoghi della poesia di Caproni riappaiono in una sorta di trasparenza visiva, di prossimità temporale: la madre giovinetta Annina in bicicletta per le strade di Livorno, le bianche voci dei ragazzi, le primavere, le strade e le scalinate e le luci di Genova, stanze e paesaggi, tutto è osservato in una sorta di contemporaneità vivente. Il passato è solo una velatura leggera sopra le immagini, che restano nitide nella loro presenza. Se il passato si fa ricordo, non vive nell’atto del ricordare, ma nella presenza e nella movenza e nello sguardo che esso assume nella lingua poetica. Il poeta nella poesia intitolata appunto I ricordi (nel Congedo del viaggiatore cerimonioso), dopo aver messo in scena tre personaggi che evocano ricordi (“Te la ricordì, di’, la Gina, /la rossona ...”), esclama: “Ma io i ricordi / non li amo”. Poi, schiacciata nel portacenere la sigaretta, esce all’aperto, nel freddo notturno che punge. 

 

Allo stesso tempo il poeta osserva con disincanto questa grande assenza che è il tempo già stato. È quel che accade nella sua ateologia poetica: nominare Dio non nel suo nascondimento, o nel suo ritiro, quanto piuttosto nel paradosso di un’assenza che prende nome, di un’inesistenza che si fa sparizione o fuga, e colpisce e trafigge in questa mancanza. Ecco i versi intitolati Anch’io:

 

Uno dei tanti, anch’io.

Un albero fulminato

dalla fuga di Dio. 

 

Così è per il tempo: l’assenza di quel che è stato è parola, la privazione è cadenza di immagine, la lontananza è prossimità di suono, ascolto di quel suono, anzi produzione di quel suono. Il ritorno accade, ma accade senza che ci sia stata partenza, accade nella lingua, e nel suo giuoco. C’è anche una sensazione del perduto senza poter nominare la cosa perduta. Ecco i versi intitolati Generalizzando, dove è la nostalgia in una sua particolare declinazione a prendere campo:

 

Tutti riceviamo un dono.

Poi, non ricordiamo più

né da chi né che sia.

Soltanto, ne conserviamo

 

– pungente e senza condono –

la spina della nostalgia.

 

Si tratta di una nostalgia senza il suo oggetto, di una percezione che non ha né il ritorno né il possesso come sua pulsione, ma avverte, pur in assenza del sapere e del progetto e del desiderio stesso, l’algos, la spina, che è propria di questo non sapere. È il tema che trascorre nella raccolta postuma Res amissa e che nella poesia con quel titolo è come dichiarato:

 

          Rivedo 

esile l’esile faccia

flautoscomparsa…

       

          Schiude

 – remota – l’albeggiante bocca,

ma non parla.

 

            (Non può

  – niente può – dar risposta).

…..

…..

Non spero più di trovarla –

…..

L’ho troppo gelosamente

(irrecuperabilmente) riposta.

 

I puntini di sospensione sono come l’oblio che ha qualche feritoia da cui traspare quel che è perduto, ma in questo trasparire, che sale verso la parola, fluttuano immagini che cercano di prender figura, restando tuttavia chiuse nella loro lontananza. La parola che potrebbe indicare il luogo e la natura della cosa perduta resta al di qua del detto e del dicibile, è una promessa e un’attesa, non una risposta, è solo allusa nella trasparenza di un simulacro d’aria, nell’esile traccia di una sparizione – una musicale sparizione che fa pensare a quella “disparition vibratoire” di cui dice Mallarmé – e che non è sufficiente a ricercare e ritrovare la cosa messa da parte, gelosamente, in una dimenticata custodia. Un’appartenenza priva di proprietà. Un dono sconosciuto. Un abitare “disabitato”. Una nostalgia senza nostos.

 

Da Antonio Prete, Nostalgia, Cortina Editore, Milano 2018.

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