Andy Warhol: il Braille mentale
“Per preparare una poesia, si prende ‘un piccolo fatto vero’ (possibilmente / fresco di giornata”: “una data precisa, un luogo scrupolosamente definito”. Così, memorabilmente, Edoardo Sanguineti in una di quelle Postkarten anni Settanta che segnarono, nella sua poesia, una svolta in direzione appunto cronachistica e giornaliera (e anzi, disse lui stesso, proprio “giornalistica”) – sorprendente in chi aveva esordito, due decenni prima, con una poesia astratta e “lunare” come quella di Laborintus, ispirata alla musica seriale e all’arte informale. Di mezzo – dalla fine degli anni Sessanta ma con maggior regolarità nel decennio seguente – c’era stato appunto l’avvicinamento del Grande Autore Modernista alla più umile e feriale delle sedi di scrittura, quella appunto con cui il giorno dopo s’incarta il pesce. Proprio com’era avvenuto al maestro avverso, Montale redattore al “Corriere della Sera” prima della “svolta” di Satura, la scrittura “maggiore” – quella in versi, ovvio – assai tangibilmente s’era fatta contagiare da quella “minore”, deprivata di ogni possibile aura. E forse anche per questo uno storicista di ferro (seppur decisamente sui generis) come Sanguineti mai si curò di conservare le varianti ai propri componimenti, né in verità di apporne: convinto com’era che “una poesia si corregge con un’altra poesia”. Quella appunto, non a caso scrupolosamente datata, del “piccolo fatto vero” successivo.
Bene ha fatto dunque Giuliano Galletta, inquieto redattore del “Secolo XIX”, a intitolare La ballata del quotidiano una raccolta di interviste al poeta della sua città: spiccano proprio quelle del periodo in cui, tra il 2000 e il 2001, il quotidiano genovese ospitò una rubrica a cadenza quasi mensile, “Caffè con Sanguineti”, in cui le sue parole, taglienti come al solito, si affilavano di volta in volta alla cote delle ultime notizie di cronaca (e la crisi dell’“Unità” poteva far rima con la globalizzazione, il Gay Pride con lo svelamento dei segreti di Fatima…). Chissà se fu un caso, ma Sanguineti tenne la rubrica all’indomani dal suo pensionamento da docente universitario: sede quella, viceversa, del suo non meno serrato e, va sans dire, lucidissimo confronto con la Storia. L’altra faccia della medaglia, per quell’homo duplex che in tanti sensi era Sanguineti.
Già, la Storia. Che di suo, certo, si decanta e sedimenta sino a farsi monumento: gravando sul cumulo di cartastraccia ammassato dalla Cronaca (sicché è un peccato che la serie di quegli incontri del 2001 s’interrompa prima del luglio genovese, del settembre newyorchese…). E i tempi della Cronaca e della Storia sono parsi contrapposti, agli uomini delle prime generazioni assediate dai mass-media (chissà che direbbero, oggi, nel tempo della connettività globale…). Scrisse una volta un altro maestro avverso di Sanguineti, T.S. Eliot: “Dov’è la Vita che abbiamo perso con la vita? / Dov’è la saggezza che abbiamo perso con la conoscenza? / Dov’è la conoscenza che abbiamo perso con l’informazione?”. Con ambivalenza non minore di quella sanguinetiana, ha posto queste parole in esergo a una sua raccolta poetica Valerio Magrelli. Ambivalente davvero – perché quel libro s’intitola Didascalie per la lettura di un giornale e, almeno in apparenza, segue alla lettera il precetto di Postkarten: riproducendo addirittura, componimento dopo componimento, la struttura stessa di un quotidiano moderno. La folla formicolante, “a caldo” non abbastanza gerarchizzata, delle informazioni quotidiane viene avvertita come un flusso frastornante che ci distoglie – per un’ideologia come quella di Sanguineti salvificamente, disgraziatamente per quella di Eliot – dal confronto col Tempo, l’Eterno, appunto la Storia. Cioè con le Cose Davvero Importanti della Vita.
L’arte del Novecento – a partire dai cubisti e dai futuristi che fisicamente inserivano titoli di giornale nelle proprie tele – ha vissuto questo choc culturale, questa contraddizione fondante. Ma c’è stato un momento in cui, secondo Fredric Jameson, linguaggio e temporalità sono entrati in una “rottura schizofrenica” che ha provocato “un investimento compensatorio nell’immagine e nell’istante”. Si sono così paradossalmente capovolti i tradizionali rapporti gerarchici fra Attimo ed Eternità. Questo momento è il postmoderno, ed è stato Andy Warhol, senz’altro, l’artista che con maggiore spietatezza ha saputo intuire, e poi codificare, precisamente questa condizione. Risponde a un caso la simultaneità di due grandi mostre dedicate allo stesso tema, ma non è dunque un caso che questo suo ruolo di pioniere venga indicato sia dalla grande personale in corso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Warhol Headlines (che per la prima volta tematizza direttamente la sua ispirazione “giornalistica”) sia dall’ancor più titanica collettiva da poco conclusasi alla Martin Gropius Bau di Berlino: Art and Press. Kunst. Warheit. Wirklichkeit. Mettendo fra parentesi (in una sala documentaria, come in appendice) i primordi protonovecenteschi, è proprio dalle prime serigrafie warholiane del 1962-63, con le foto dei Car crashes apparse sulle pagine dei quotidiani, che Art and Press inizia infatti il proprio percorso.
Un percorso ricchissimo (sono cinquanta gli artisti coinvolti, ed è davvero un who’s who dell’arte di oggi: a dimostrare la perspicuità d’un tema che certo dalle opere è esibito in piena luce ma che, al tempo stesso, è rimasto sinora non problematizzato), quasi mai risolto in mero contenutismo. Tre grandi sculture di Anselm Kiefer, nel cortile al piano terra, riproducono antichi, ciclopici macchinari tipografici: dai quali aggettano, come da bocche di fontana, zampilli di ruggine. È appunto il paradosso della notizia che, più si vuole “in tempo reale”, più rapidamente invecchia: flusso eracliteo che sempre più presto s’irrigidisce in calco, residuo, traccia. È di questo tipo il trattamento che alle immagini della Cronaca riservano Gerhard Richter o, nella generazione più giovane, Thomas Ruff: gli aloni e i riverberi del primo, i sovrattoni o i sottotoni del secondo, sono stimmate di un implacabileinvecchiamento. Anti-goethianamente, si coglie il Presente non quando si proietta nell’Eterno, ma nel momento in cui comincia a cristallizzarsi nel Sorpassato. E davvero ogni immagine di cronaca, incorniciata dal museo, si storicizza: al di là delle stesse intenzioni degli artisti. I più consapevoli evidenziano proprio questo anacronismo, come lo definirebbe Georges Didi-Huberman, cioè questo conflitto (o più propriamente slittamento) di piani, scale, “grane” temporali. Per esempio Elisabetta Benassi (con Mario Merz e Jannis Kounellis unica italiana accolta dalla mostra tedesca), con le “retro-fotografie” di All I Remember che riproducono le scritte, i timbri e gli altri indici temporali apposti dalle agenzie di stampa sul retro delle fotografie riprodotte dalle pagine dei giornali, ci fa considerare la paradossale durata dell’istante, la sua infinita replicabilità nelle diverse proiezioni temporali. Che è in fondo un modo di capovolgere, e insieme inverare, la tradizione delle vanità (cui Michel Butor ha dedicato pagine bellissime): quelle composizioni cinque-seicentesche in cui accanto ai fatti vari della vita, a memento d’una sorte ineluttabile, s’accampa uno scheletro.
Proprio la presenza costante della morte è il sintomo che demistifica la clamorosa desoggettivazione operata da Warhol (“io voglio essere una macchina”), il suo esibito quanto compiaciuto cinismo. L’opera che ha prestato il logo alla mostra romana, la più “monumentale” fra quelle da lui realizzate ricorrendo alla stampa quotidiana, è senz’altro FATE PRESTO, commissionatagli nel 1980, all’indomani del terremoto in Irpinia, da Lucio Amelio: dove la solennità dei caratteri di scatola del Mattino, ancora amplificata dal trattamento iperbolico di Warhol, mette in fuga ogni sospetto d’ironia per accedere a una luttuosità quasi barocca. Ma a rivelare la sua fondamentale ambivalenza è la stessa pratica di conservare i ritagli di giornale sue “fonti”, insieme a infiniti altri (ritagli “ampi” che includevano indici-chiave come le date, le didascalie, ovviamente le pubblicità), in quelle che chiamava Capsule del tempo. Come dice lui stesso in una delle ultime puntate del suo show per MTV (è il 1987, l’anno della morte), la sua più grande passione era “guardare vecchie notizie”. (E c’era un’altra sua pratica curiosa, quella di collezionare kitschissime biscottiere di ceramica che chiamava “pezzi di tempo”: parodia irridente delle madeleines proustiane che indica però, come del resto ogni pratica parodica, un’attrazione perversa.)
L’ideatrice di Warhol Headlines, Callie Angell (morta suicida nel maggio del 2010), riporta in catalogo un acuto commento di Art Simon al celebre filmato di Abraham Zapruder sull’assassinio di John Kennedy (evento che tanto ossessionò l’artista, come del resto tutti gli americani della sua generazione). Lo statuto di prova di quelle immagini – che già un anno dopo l’omicidio, sbattute in prima pagina da Life, destituirono di fondamento la vulgata della Commissione Warren – si fonda infatti su un paradosso: per rivelare i propri dettagli cruciali devono essere rallentate sino a “frizzarne” i fotogrammi, ma per ricostruire la dinamica dell’evento non meno essenziale è cronometrare la durata “reale” del filmato.
C’è a ben vedere, qui, tutto il paradosso di Warhol. Cresciuto nel culto dell’effimero più superficiale e “commerciale”, di ciò che si consuma all’istante e senza residui (ragazzo colleziona le foto dei divi di Hollywood, all’indomani della guerra lavora come apprezzato grafico pubblicitario di un calzaturificio, per tutta la vita davvero consuma i suoi pranzi in pochi minuti di zuppa Campbell…), nelle sue per lo più semi-apocrife dichiarazioni pubbliche Warhol irride l’ossessione modernista per la demistificazione, per lo “svelare” tutto quello che è o sarebbe “nascosto”. Un suo slogan recita: “se volete conoscere tutto su Andy Warhol, guardate la superficie dei miei quadri, i miei film e me, io sono lì. Non c’è niente dietro”. È la lettura, della sua opera, che Hal Foster ha definito “simulacrale”: e che hanno sposato, più spesso in positivo (per es. Barthes) ma qualche volta in negativo (Baudrillard), gli interpreti solidalmente postmodernisti. Cui si contrappone quella, da Foster definita “referenziale”, che invece ha buon gioco a notare l’attrazione non innocente di Warhol appunto per la morte e, in generale, per la sostanza traumatica della contemporaneità (alla prima opera compiuta che abbia ricalcato – per il momento a mano, poi verranno l’episcopio e la serigrafia – da un giornale, A boy for Meg del ’62, con la notizia gossip della maternità della principessa britannica, fa seguire immediatamente 129 Die in Jet, col disastro all’aeroporto parigino di Orly: a una nascita fa da contraltare una morte…). Lo stesso Foster, nell’interpretare la serialità warholiana come tentativo ossessivo di schermare il trauma (quello che definisce, con formula quanto mai fortunata, realismo traumatico), non si allontana troppo da quest’ultima lettura.
Ma c’è un’altra dialettica che si aggiunge a quella fra Istante e Durata (e dunque fra Superficie e Morte), nel trattamento della cronaca operato da Warhol e dagli artisti che lo hanno seguito. Più dichiaratamente nella mostra tedesca (il cui sottotitolo suona “Arte. Verità. Realtà”), più obliquamente ma anche più analiticamente in quella americana, è infatti in gioco una partita fra Realtà e Illusione. Se William Kentridge, a Berlino, interviene sui giornali del passato (allegoricamente indicando falsificazioni e omissioni con applicazioni-collage o punti esclamativi e circoletti a colori), ancora più radicalmente Ai Weiwei espone un vero e proprio calco negativo dell’informazione: frammenti contorti della scuola distrutta da un terremoto nella regione del Sichuan – notizia, cancellata nel 2009 dalla propaganda di Stato, che in Cina ha finito per destare una grande campagna d’opinione e appunto di verità.
A questo punto, si capisce, risuonerebbe la più sulfurea risatina del “simulacro” Warhol. Come non c’è niente dietro di lui, la sua opera parrebbe volerci mostrare che non c’è niente neppure dietro l’informazione (o, postillerebbe Foster, dietro c’è il niente). Non era un caso se, al reality check della rispettabile stampa borghese, lui preferisse i tabloid sensazionalistici tipo National Enquirer o New York Post (quello che, chiudendo il cerchio, in prima pagina sbatté proprio lui, in almeno due “traumatiche” occasioni: quando nel giugno del ’68 – poco prima dell’assassinio di Robert Kennedy… – gli sparò Valerie Solanas e quando nel febbraio dell’87, a 58 anni, Warhol morì per le complicazioni di un intervento alla cistifellea). Ai “fatti”, insomma, Warhol di gran lunga preferiva quelli che sono stati definiti “fattoidi”. Manie, pettegolezzi, rancori; gossip. E in generale tutto quanto si colloca nella regione ambigua fra l’invenzione pura e semplice (la “bufala”) e la sopravvalutazione di Cose Senza Importanza (il “banale”, insomma, alla cui “trasfigurazione”, nella terminologia spiritualisteggiante di Arthur Danto, egli provvederebbe).
Ma c’è ancora un altro modo di leggere quest’opera. Lo affronta, nel catalogo della mostra della GNAM, Anthony E. Grudin, critico dalle radici marxiste legato (come Foster) alla rivista “October”. Confrontando nel dettaglio i giornali-fonte (come possiamo fare anche noi, utilizzando la preziosa appendice documentaria dello stesso catalogo) alle versioni di Warhol, specie nella fase a mano libera del 1956-62, ci si rende conto delle sottili distorsioni da lui operate. Venivano per esempio cambiati dei nomi, negli articoli riprodotti, oppure si introducevano refusi anche macroscopici (persino nel titolo di una delle prime testate da lui vampirizzate: The Princeton Leader trasformato in The Princton Leader; ci si ricorda che Warhol, che secondo alcuni testimoni soffrì di dislessia, deve il suo nome d’arte al refuso d’un giornale che una volta, nei credits d’una sua pubblicità, trascrisse in forma incompleta il suo cognome d’origine cèca, Warhola). Alcune notizie venivano cancellate, altre sostituite “ritagliandole” e spostandole (non a caso Warhol era un ammiratore dei cut-up di William S. Burroughs). Nel famoso A boy for Meg, Warhol passa da una riproduzione meramente allusiva e semicancellata, quasi da espressionista astratto, a una più dettagliata e “smaltata”, tendente a quell’impersonalità meccanica cui aspirava. Ma, ci fa notare Grudin, le perle nella collana della Principessa sono riprodotte grossolanamente, quasi iper-realisticamente seguendo la bassa definizione della foto riprodotta (e del resto non erano poi così distanti, le tecnologie dell’episcopio o della serigrafia, da quella delle telefoto di allora…). In generale, “è come se il dipinto fosse sospeso tra il desiderio di riprodurre i motivi in maniera accurata e l’ammissione che il compito è tutto sommato impossibile”: esattamente come si comporta la “fonte” informativa nei confronti della “realtà”.
In modi diversi, e usando tecniche diverse, nelle sue varie stagioni l’arte di Warhol realizza sempre, insomma, un realismo della derealizzazione: tanto più penetrante quanto più sottile e microscopico, al limite dell’impercettibilità. Come coloro che scrutavano febbrili, in quegli anni, i fotogrammi di Zapruder (e come farà di lì a poco il fotografo di Michelangelo Antonioni in Blow-up), la sua è una condizione paradossale. Perché riesce proprio laddove fallisce. Quella di Warhol non è l’aperta intenzionalità allegorico-politica della generazione di Kiefer e Richter, o di quella di Kentridge o Ai Weiwei, ma una pulsione contorta e segreta – sconosciuta, con ogni probabilità, in primo luogo a lui stesso. Una volta dichiarò, Warhol: “Vedo tutto in questo modo, la superficie delle cose, una specie di Braille mentale, passo soltanto la mano sulla superficie delle cose”. Essere ciechi, nel suo caso, non equivaleva all’incapacità di capire. Com’era accaduto a un personaggio dei fumetti che senz’altro conosceva, Dare Devil, proprio questa sua “cecità” nei confronti della Storia (e dell’Identità, e della Profondità delle Cose) gli aveva anzi prodigiosamente acuito altri sensi. Sensi nuovi e straordinariamente prensili. Sicché oggi sta a noi, passare i polpastrelli sulle interminabili superfici di Andy Warhol. È stato lui a mostrarci che, a saper ascoltare, ci parlano.
Nota
Le interviste di Sanguineti al Secolo XIX sono raccolte da Giuliano Galletta in La ballata del quotidiano (il melangolo, pp. 109, € 12). I componimenti citati in Mikrokosmos. Poesie 1951-2004 (a cura di Erminio Risso, Feltrinelli, pp. 336, € 13). Le Didascalie per la lettura di un giornale, di Valerio Magrelli, sono uscite nella “bianca” Einaudi nel 1999. La mostra Warhol Headlines, inaugurata l’11 giugno, rimarrà alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma sino al 9 settembre (catalogo Electa con testi di Molly Donovan, John J. Curley, Anthony E. Grudin, John G. Hanhardt, Callie Angell e Matt Wrbican, pp. 214, € 40); si tratta di un progetto nato l’anno scorso alla National Gallery di Washington e già transitato per Francoforte, che si concluderà nel 2013 all’Andy Warhol Museum della città (forse) natale dell’artista, Pittsburgh. La mostra Art and Press, coordinata da Hans-Joachim Petersen, verrà ripresa dal prossimo 15 settembre al 10 marzo 2013 al ZKM-Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe (il catalogo, edito solo in tedesco da Smerling di Bonn, ospita testi di Götz Adriani, Robert Fleck, Siegfried Gohr, Peter Iden, Eva Karcher, Rainer Laabs, Dieter Ronte, Frank Schirrmacher, Peter Sloterdijk, Walter Smerling e Peter Weibel, pp. 288, € 34). All I Remember di Elisabetta Benassi è anche un magnifico catalogo antologico pubblicato l’anno scorso dalla rivista NERO, che seleziona 477 riproduzioni a colori (€ 50). Di Michel Butor è citato Vanità. Conversazione nelle Alpi Marittime (il saggio, del 1980, venne tradotto nel 1991 da Roberto Rossi per SE, con una conversazione con l’autore di Franco Giacone). Di Ai Weiwei, e sulla querelle-Sichuan, Johan & Levi ha da poco proposto Il blog. Scritti, interviste, invettive 2006-2009, a cura di Stefano Chiodi, pp. 392, € 20. Di Hal Foster è citato Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, un saggio del 1996 tradotto nel 2006 da Barbara Carneglia per Postmedia Books. L’arte di Warhol è stata decisiva nell’elaborazione del pensiero di Arthur C. Danto, come spiega Stefano Velotti presentando La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, opera capitale del 1981 (Laterza 2008, pp. 271, € 22; ma si veda poi, del filosofo, la monografia tutta dedicata a Andy Warhol nel 2009, traduzione di Paola Carmagnani, Einaudi 2010, pp. XVII-149, € 18.50).
Questo articolo è apparso sabato 28 luglio su “il manifesto”.