Queer British Art 1861-1967, Giacometti, Soul of a Nation / Arte a Londra. La stagione estiva 2017

3 Agosto 2017

Londra, divisa tra lo stress da Brexit e le tentazioni di ritorno in Europa, rimane uno dei luoghi delle esposizioni, in Europa. La stagione estiva 2017 è inaugurata da Queer British Art 1861-1967, una mostra assai importante alla Tate Britain, intesa a celebrare la depenalizzazione dell’omosessualità nel Regno Unito, avvenuta nel 1967. Come racconta benissimo (e con una scrittura di grande efficacia) Quentin Crisp nel suo classico memoir The naked civil servant, uscito nel 1967, in terra di Albione la polizia aveva la mano pesante. Il suo caso era esemplare: veniva arrestato tutte le volte che, da solo o con amici, decideva, sfidando la sorte, di uscire in drag a Piccadilly Circus e in altri luoghi di massima frequentazione. Un comitato scientifico allargato, guidato da Clare Barlow, che cura anche l’ottimo catalogo edito dallo stesso museo, punta su una visione per temi, che superi i manifesti e le dichiarazioni pride.

 

Il punto è stabilire come e quanto il mondo queer ha contribuito, in tutti i suoi molteplici aspetti, a nutrire la cultura britannica. Il primo ambito è dedicato ai Coded desires, ossia quei desideri cifrati che il chiuso mondo vittoriano non avrebbe mai tollerato se fossero stati esplicitamente espressi. Colpisce Simeon Solomon, che per la sua omosessualità non pochi problemi ebbe con la giustizia, di cui spicca un magnifico Sappho and Erinna in a Garden in Mitylene (1865): senz’altro è lui l’artista del tempo dei Preraffaeliti che va più a fondo nel rappresentare il “desiderio che non può dire il proprio nome”. Le maschere del mito (come nel suo notevolissimo Bacchus  del 1867) indagano acutamente le figure del rimosso. L’immancabile barone von Gloeden compare per i suoi addentellati inglesi. Una voce insistente vuole che il critico Edmund Gosse sia stato colto ad esaminare attentamente uno degli scatti “greci”, niente meno durante la cerimonia funebre di Robert Browning a Westminster. 

 

 

Public indecency celebra le figure che hanno più osato sfidare la società come Radclyffe Hall, magnifica autrice de Il pozzo della solitudine, costretta all’esilio per l’esplicita trattazione della condizione omosessuale. Maud Allan, mirabile danzatrice che fu Salomè, implicata dal paranoico conservatore Noel Billing in un inesistente complotto gay durante la Prima Guerra Mondiale, presentato sotto il mirabolante nome di “culto di Clitoris”. Naturalmente la parte del leone la fa Oscar Wilde: compare perfino la porta, tinta di bianco di recente, della sua cella a Reading, a fianco scorrono le incisioni perfette di Aubrey Beardsley, un curioso ritratto, di incantevole fattura, in cui Edmond Dulac incastona l’incantevole coppia Charles Ricketts e Charles Shannon, come due gaissimi santi medioevali.

 

Theatrical types è un’altra sezione di capitale importanza: lo spettacolo come unica stanza accogliente in epoche oscure, ricorre in tutta Europa, ma in Albione la vicenda si declina con una serie di specificità, tra female impersonators, come lo splendente Danny La Rue che sdoganò la figura del travestito nei mass media britannici e provocatori della forma, come Noël Coward, maestro del teatro britannico, che compariva nella pièce che lo rese celebre, Il vortice, che scandalosamente negli anni ’20 parlava di tossicodipendenza, con una vestaglia rosa carico, con ricamate le sue iniziali a caratteri di scatola. Meravigliose sono le teatralissime fotografie di Angus McBean, in cui spicca Robert Helpmann come Amleto prigioniero di un enorme in folio. L’ultima sala è prevedibilmente dedicata a David Hockney e Francis Bacon, apparentati dal culto per i physical pictorials che tanto piacevano anche a Andy Warhol. Tra gli artisti meno noti per noi, notevolissimo Edward Burra, con scene di bar e marinai, tra UK e USA, insieme a Gluck, un cui autoritratto, esplicito e dichiarato, è stato scelto come immagine della manifestazione.

 

Hannah Gluckstein, come Carrington (presente nella mostra con il bel ritratto di Lytton Strachey, citato nel film di Christopher Hampton), volle un nome neutro, adottò un look maschile e rifiutò appartenenze e collocazioni di comodo. Diana Souhami ben tratteggia la sua accidentata avventura esistenziale nella biografia, uscita nel 1988, e ripubblicata per l’occasione da Quercus. Anche più sorprendente è Marlow Moss, che per sua scelta volle una posizione appartata nelle arti di Albione. Eppure questa signora che volle essere uomo e cambiò il proprio nome, fu legata a Piet Mondran, di cui mutua le ricerche con tocco originalissimo. La Tate recentemente le ha dedicato una esposizione retrospettiva, accompagnata da un ricco volume pubblicato da Hatje Cantz, a cura di Sabine Shashi, della Haus Construktive di Zurigo. Il titolo è A forgotten maverick, per rendere giustizia a una figura che ha deciso di isolarsi e di nascondersi alla vista. Molteplici fili si connettono alla mostra nelle collezioni londinesi: alla National Portrait Gallery una selezione del lavoro di Akraam Zatari, che espone le opere, ambigue e segnate dal gusto per la specularità, di uno studio fotografico siriano, che ossessivamente si baciano e sfidano le categorie ricevute.

 

Insomma uno sforzo imponente, che sarebbe interessante vedere applicato all’arte italica, dove De Pisis non riesce in nessun modo a entrare davvero nel canone, e nel centenario del pittore fiorentino Ottone Rosai non si parla del suo infinito repertorio di nudi maschili, assai poco esposto e visto.

 

 

Tutt’altro genere alla Tate Modern, dove alfine, inverosimilmente, c’è una mostra di Alberto Giacometti (primo solo show in terra britannica), e al piano superiore Soul of a Nation. Art in the Age of Black Power, nel momento in cui trionfa Empire e si annuncia una serie su Malcolm X e Stokely Carmichael. I quali compaiono debitamente, insieme a James Baldwin, negli schermi all’ingresso: colpisce non tanto il discorso politico, ma quanto tutti sono glamourous, perfetti per essere riprodotti in mille immagini.

 

Come accade nel percorso, in cui ci sono serigrafie, poster, grafiche. Tra riscoperta delle radici africane (in cui senz’altro spicca Betjee Saar, vista anche a Milano alla Fondazione Prada) e ironia urbana (il sarcastico Barkley L. Hendricks), autore di magnifici ritratti e immagini di sé, come quella che compare in copertina, con i genitali in vista sotto una maglietta di superman. Al Victoria and Albert, una selezione un po’ in sordina del talento visionario di Cristobal Balenciaga, apparentato a alcuni emuli e eredi, e una vasta esposizione dedicata ai Pink Floyd che ha come evidente obiettivo, difficile da realizzare, quello di surclassare David Bowie. In ogni anno di grande interesse le prime sale, dove compare il fantasma psichedelico di Syd Barrett, in mezzo a grafiche distorte, memorie di locali underground londinesi e interessanti triangolazioni con gli architetti radicali (come il gruppo Archigram), che risuonano anche nel più celebre loro dispositivo di immagine, quello legato a The Wall.

 

Nella magnifica Leighton House, che all’ingresso ha un mirabile salone arabo, dotato di autentiche piastrelle siriane e di muqarnas ben ricostruite, torna infine Lawrence Alma-Tadema con la bella mostra già presentata al Belvedere a Vienna e qui riproposta in questa casa sospesa tra l’epoca vittoriana e l’Oriente, che è il più perfetto contenitore per queste fantasie romane e greche, che risuonano in tanto cinema, dal muto ad oggi.

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