L'uomo che sussurra alle patate
Commercialista mancato, a mille metri di altezza, sull’Appennino tra Liguria ed Emilia, coltiva trecento varietà per preservarle dall’estinzione. Il suo campo è un catalogo vivente.
Chi è convinto che le patate si assomiglino tutte e che ci sia poco da sapere su una pianta che offre quanto di più semplice e modesto può arrivare dal campo al piatto, si prenda la briga di consultarne il catalogo. Ma per farlo non si accontenti di interrogare internet né si metta a sfogliare le pagine dei trattati che le sono stati dedicati nel corso dei secoli – a partire dalla scoperta del Nuovo Mondo e quindi dall’arrivo in Europa di questa pianta proveniente dalle Ande, venerata dagli Inca, che la chiamavano “papa”. Il fatto che all’inizio la patata si chiamasse “papa” creò qualche imbarazzo quando Filippo II, re di Spagna, decise di omaggiare il pontefice con alcuni esemplari di questa coltivazione che i conquistadores dal Perù avevano a poco a poco diffuso in tutta l’America, dal Pacifico ai Caraibi. Regalare la “papa” al Papa era parso poco conforme al protocollo pontificio e così, prima che arrivasse a Roma, la si ribattezzò. La “papa”, («papa te llamas papa, y no patata/ no naciste castellana» – scriverà Pablo Neruda nell’Ode che le dedica) diventa la “batata” (nei Caraibi) e poi la patata, così come la conosciamo noi, da quando, sul finire del Settecento, dai giardini nei quali era stata quasi sempre relegata come curiosità botanica, approda nei campi e comincia a sfamare moltitudini. Secondo Engels, senza il ferro che alimenta le fabbriche e senza la patata che riempie la pancia delle plebi cittadine, la rivoluzione industriale non ci sarebbe mai stata. Il successo, però, a volte rovina. Infatti l’imporsi della patata come monocultura in alcuni Paesi d’Europa ha un esito catastrofico quando dall’America arriva il fungo della peronospera e fa strage di raccolti: la carestia in Irlanda provoca quasi un milione di morti ed è all’origine della massiccia emigrazione irlandese negli Stati Uniti.
Rezzoaglio
Nel catalogo delle patate che fa da meta e filo conduttore alla mia ricognizione, di tutte queste vicende, così rilevanti per la storia degli ultimi secoli, non c’è traccia, e per un motivo molto semplice. Il catalogo delle patate al quale sono arrivato è un campo. Ci sono giunto lasciandomi alle spalle la pianura, salutando il Ponte Gobbo che fa la guardia a Bobbio e inoltrandomi lungo i tornanti a strapiombo, evidentemente molto amati dai motociclisti che nel pomeriggio domenicale mi superano con sorpassi da brivido e si sfiorano lungo le curve della strada 586 della valle dell’Aveto che dall’appennino emiliano corre verso Chiavari e il Mar Ligure. Il campo-catalogo è a Villa Rocca, un pugno di case nel Comune di Rezzoaglio, sede del parco regionale dell’Aveto. Siamo quasi a mille metri di altezza, dirimpetto alle foreste di cerri che circondano il lago delle Lame. Boschi verdissimi (non ha mai piovuto così tanto) salgono verso il profilo inconfondibile del monte Penna. Da lì lo sguardo spazia sull’appennino genovese, piacentino e parmense mentre, a Levante, scintilla l’azzurro del Mar Ligure.
Fabrizio Bottari, 44 anni, da oltre un decennio, assieme alla moglie Nadia, insegnante, affianca alla cura dell’uliveto sopra Chiavari che gli hanno lasciato i nonni il lavoro agricolo a Villa Rocca, nei terreni di proprietà della famiglia della moglie. Qui coltivano fagioli e frutti di bosco, da cui traggono ottime marmellate di ribes che certamente saranno apprezzate dagli ospiti dell’agriturismo che apriranno nei prossimi mesi. Ma Fabrizio si dedica soprattutto alle patate. Nelle intenzioni della sua famiglia doveva fare il commercialista ma pare che, al primo anno di università, la lettura di Thoreau (Walden ovvero la vita nei boschi, ovviamente), l’incontro con alcuni precursori del ritorno alla vita semplice e le prime esplorazioni come fotografo e guida nell’Appenino di casa (ne uscì il bel volume sul Levante Ligure Montagne silenziose) abbiano portato i suoi passi verso una direzione diversa. La campagna, appunto. E il ritorno a coltivazioni semplici che sono state sempre essenziali nel fronteggiare la miseria contadina. Non a caso Bottari ha pubblicato in Contadini sulla strada. Il declino dell’agricoltura familiare, edito nel 2013 da Pentagora, gli scritti di Steinbeck del 1936/38 sulla drammatica situazione dei coloni del Midwest americano scacciati dalle loro terre e i reportage di Dorothea Lange sulla miseria nelle campagne statunitensi di quegli anni.
Il passaggio dai libri di carta ai cataloghi da far crescere a colpi di vanga e di zappa non deve essere stato facile, ma Fabrizio sembra soddisfatto sia di quanto semina sia di quanto, con pazienza, riesce a raccogliere. Dal 2003, da quando ha deciso di lasciare la città, è il curatore/coltivatore del campo che ho sotto gli occhi. L’iniziativa è sorta nell’àmbito del Consorzio della patata Quarantina fondato già negli anni Ottanta da Massimo Angelini, genovese, già coordinatore della Rete Semi Rurali. Nel Consorzio, che riunisce alcune decine di soci sparsi in tutto il Levante ligure, si sono ritrovati, con Fabrizio, alcuni dei precursori di una nuova ruralità, rispettosa delle tradizioni e dell’ambiente e culturalmente consapevole. Una delle loro prime scommesse è stata la valorizzazione della Quarantina, tipica di questa zona, che rischiava di scomparire sotto la pressione dei cultivar promossi dalle grandi aziende sementifere. Da allora, appena arriva la primavera, la missione che Fabrizio si è assegnata, assieme alla coltivazione dei campi di Quarantina che stanno in quota, è quella di tenere aggiornato il catalogo. I bulbi delle diverse varietà, messi a riposo per tutto l’inverno nel buio delle cantine di queste vecchie case contadine in pietra, vengono portati alla luce. Fabrizio, mentre germogliano, predispone i terreni dove saranno messi a dimora affinché anche quest’anno siano tramandati tutti e non si estinguano.
Fabrizio Bottari
«Anche attraverso il sito del Consorzio della Quarantina – spiega Fabrizio – c’è uno scambio continuo, di informazioni e di varietà, con i nostri soci e con tutti i pataticoltori che vogliono conservare le vecchie specie o semplicemente conoscere ciò che si coltivava un tempo nelle loro zone…». Per ogni varietà vengono piantate alcune piante che occupano pochi metri quadri. Ogni riquadro è contraddistinto da un cartellino giallo che riporta il nome del tipo di patata che lì viene coltivato. Il campo-catalogo, ormai prossimo a dare il suo raccolto, si presenta come una fioritura di cartellini gialli intervallati alle piante estenuate dal calore. Attorno c’è il recinto elettrico di protezione perché i cinghiali che vivono in questi boschi amano scendere a valle. Ghiotti come sono non sanno distinguere un campo da un campo-catalogo. Le centinaia di patate qui pazientemente raccolte sono, per loro, solo una bella scorpacciata. E come dargli torto?
ODE ALLA PATATA
PAPA,
ti chiami
papa
e non patata,
non nascesti castigliana:
sei scura
come
la nostra pelle,
siamo americani,
papa,
siamo indios.
Profonda
e soave sei,
polpa pura, purissima
rosa bianca
sepolta,
fiorisci
là dentro
nella terra,
nella tua piovosa
terra
originaria…
Papa materia dolce, mandorla della terra…
Onorata sei
come
una mano
che lavora nella terra,
familiare
sei
come
una gallina,
compatta come un formaggio
che la terra produce
nelle sue mammelle
nutrici,
nemica della fame,
in tutte le nazioni
si piantò la sua bandiera
vittoriosa…
Pablo Neruda (Nuove Odi Elementari, 1955)
Questo articolo è uscito su "La Stampa" il 29 agosto 2014