Su un’allucinazione di Wittgenstein
Immaginiamo che le città siano costruite come il linguaggio. Che vi sia una corrispondenza perfetta tra lo spazio urbano e il mondo dei segni, tra l’architettura metropolitana e la struttura del linguaggio. Una corrispondenza tra strade, palazzi e piazze da una parte ed elementi fonologici, sintattici e semantici dall’altra. Questo parallelo è suggerito da Ludwig Wittgenstein nelle Osservazioni filosofiche (§18): “(E quante case o strade ci vogliono perché una città cominci ad essere città?) Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi” (su queste righe ragiona tra l’altro Hubert Damisch in Skyline. La città Narciso). Sembra l’inizio di Blowin in the Wind di Bob Dylan. Perché una città cominci ad essere città: dov’è che Wittgenstein ha elaborato quest’idea affascinante? A Vienna o a Cambridge dove insegnava? O altrove?
La mia ipotesi passa per un breve détour e un viaggio nella memoria. Una decina di anni fa ero con degli amici in un ostello della gioventù a Rosroe Pier sul Killary Harbour in Connemara. Come la locandiera comprese che eravamo, oltre che italiani, aspiranti filosofi, ci confidò, come fosse cosa di poco conto, che ci trovavamo nella ex Quay House, occupata nel 1948 – per la precisione da fine aprile ad ottobre – da un filosofo straniero (filosofo e straniero fanno già due affinità). Era un signore austriaco che insegnava in Inghilterra – un certo Ludwig Wittgenstein. Si era rifugiato qui per lavorare a quelle che diventeranno le Osservazioni filosofiche. Prima di diventare un semplice ostello della gioventù, parte dell’An Oige, la Irish Youth Hostel Association, il cottage fu acquistato dal poeta irlandese Richard Murphy che, nel 1962, vi ospitò Ted Hughes e Sylvia Plath. Ora che è stato costruito un anonimo ostello nei paraggi, ignoro quale sia il destino della residenza wittgensteiniana. Forse tornerà a essere luogo di eremitaggio intellettuale.
Wittgenstein non scopre il cottage nell’aprile 1948, poiché vi aveva già soggiornato per due settimane molti anni prima, nel settembre 1934. In quell’occasione non era solo. Ad accompagnarlo un suo ex-studente, Mary O’Connor Drury, e l’amico o meglio compagno segreto (come ormai è emerso nonostante la reticenza di Wittgenstein e dei suoi primi biografi ed esegeti) Francis Skinner. Dopo un luculliano pranzo di benvenuto, un Wittgenstein sazio mise subito in chiaro che nei giorni successivi avrebbero seguito una dieta più morigerata: porridge la mattina, verdure del giardino per pranzo e un uovo bollito la sera. All’epoca la residenza era a sedici chilometri dal negozio più vicino e trentadue dalla stazione più vicina. Non era – né allora né quando ci sono stato – raggiungibile coi trasporti pubblici. Quando Wittgenstein ci torna nel 1948 l’alimentazione è più o meno la stessa, con l’aggiunta di cibo in scatola proveniente da Galway. Ma questa volta è solo, del tutto isolato se non fosse per un signore che gli porta latte e uova e offre i suoi servigi per piccole faccende domestiche.
In quanto a romitaggio, la costa occidentale dell’Irlanda non ha rivali (avete presente Clare Island?). Rosroe Pier è l’unico fiordo irlandese, quanto doveva rimandare Wittgenstein a un altro luogo di solitudine quale Skjolden, sul fiordo norvegese di Sogne, a nord di Bergen. In questo paesaggio altrettanto desolato, raggiungibile solo attraverso un’imbarcazione, Wittgenstein aveva costruito una casa in cui resterà nove mesi nel 1935-36, tra il primo e il secondo soggiorno a Rosroe Pier. In Irlanda Wittgenstein risiede anche nella Kilpatrick House a Redcross, a sud delle Wicklow Mountains, su cui abbiamo poche informazioni. Più documentato il soggiorno a Dublino nell’inverno 1938, il più rigido del secolo, all’hotel Ross a Parkgate Street (in seguito ampliato e denominato Ashling Hotel). Wittgenstein – ex compagno di scuola di Hitler – si trova in città il 12 marzo 1938, giorno dell’Anschluss, indeciso se tornare a Vienna o no (fu Piero Sraffa a sconsigliarlo di rientrare). A Dublino prende l’abitudine di mangiare al Bewley Café a Grafton Street, ordinando a pranzo solo omelette e caffè. Se non è affatto certo se abbia mai messo piede in un pub, in compenso si reca spesso al giardino botanico.
I viaggi irlandesi di Wittgenstein sono ricostruiti in un prezioso libricino di Richard Wall, Wittgenstein in Ireland (Reaktion Books 2000). Con un’iperbole, l’autore suggerisce che il paesaggio irlandese non è stato meno importante per Wittgenstein che il Mont Sant-Victoire per Cézanne. E questo nonostante l’evidenza, perché negli scritti di Wittgenstein non c’è traccia dell’Irlanda e bisogna leggere le lettere per trovare qualche cenno. Ma anche nella corrispondenza si cercherà vanamente ogni slancio elegiaco.
Da una parte questo “professore austriaco che insegna in Inghilterra” è alla ricerca di una solitudine tombale, da vasca di deprivazione sensoriale; dall’altra confessa di soffrire di solitudine una volta che, dopo tanti sforzi, ha raggiunto questo stato propizio alla scrittura. Anela a una solitudine che, in finale, lo spaventa non appena ne percepisce il brusio. Un’esitazione facilmente comprensibile. Più comprensibile perlomeno dell’intenzione di far fuori il cane, come confessa al padrone, con tutto quell’abbaiare notturno, indispensabile tuttavia per tenere le volpi a distanza dalle pecore. I vicini, c’era da giurarlo, etichettarono presto questo filosofo senza cravatta come un tipo schivo, facilmente irascibile, che ci stava poco con la testa. Un giorno lo avevano visto conversare in tedesco con pettirossi e fringuelli, di cui si prendeva così tanta cura che quando partì morirono. Come animali domestici, continuarono infatti a posarsi sul davanzale della sua finestra per reclamare cibo, ma Wittgenstein era tornato a Cambridge e finirono in pasto ai felini locali. Una storia da Esopo. Richard Murphy, che visse nel cottage dopo Wittgenstein, ne restò così colpito da scriverci una poesia, “The Philosopher and the Birds”.
In tutto, Wittgenstein trascorre in Irlanda un paio di anni. Qui trova riparo per redigere i suoi appunti, lontano da una Cambridge infestata, a suo dire, dalla “disintegrating and putrefying English civilisation”. La scrittura non è un affare accademico, da svolgere tra una lezione e un esame, tra un caffè con un collega e un ricevimento degli studenti. Perlomeno nelle pratiche di scrittura che precedono la rivoluzione digitale. Per interrogarsi sul linguaggio, Wittgenstein si ritira in un luogo in cui l’esercizio del linguaggio diventa un affare difficile, in cui la chiacchiera è azzerata, in cui le giornate sono ritmate solo dal ricorrere di gesti quotidiani. Solo quando è prossimo a una condizione letteralmente infantile, cioè senza parole, Wittgenstein sente di poter scrivere sul linguaggio. Una conclusione paradossale, se linguaggio e metropoli sono uno il riflesso dell’altro, se le città sono foreste di segni.
Torniamo così al nostro spunto iniziale e rileggiamo il passo delle Ricerche filosofiche. Case, strade, sobborghi, città: niente di tutto questo sul fiordo irlandese in Connemara. Un luogo che, a scanso di equivoci, Richard Wall definisce “one of the last pools of darkness in Europe”. E se Wittgenstein avesse elaborato questo passo proprio a Rosroe Pier, con il fiordo all’orizzonte, immerso in una solitudine lacerata solo dai latrati del cane? In questo caso, quel “dedalo di stradine e piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi” mostra sì la corrispondenza tra città e linguaggio, ma è anche la trascrizione di una formidabile allucinazione.