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Dizionario Levi / Fantasia
Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.
Nel ragionare sulla fantasia, come avviene di solito quando ci confrontiamo con il pensiero di Primo Levi, ciò che troviamo non è ciò che ci aspetteremmo da un autore di letteratura. La “fantasia” che troviamo menzionata esplicitamente nei suoi racconti, saggi e romanzi non ha a che fare con l’invenzione fantastica degli scrittori, bensì con la capacità di comprendere. In La chiave a stella, l’autore si pone il problema se il lettore intenda tutti i termini tecnici che lui e Faussone stanno usando, e la risposta che si dà è di impiegare la fantasia: «Se, come probabile, ha accettato a suo tempo i libri di mare dell’Ottocento, avrà pure digerito i bompressi e i palischermi: dunque si faccia animo, lavori di fantasia». Ma, continua, questo lavorare di fantasia non è solo un’attività ermeneutica legata alla lettura, «Gli potrà venire utile, dato che viviamo in un mondo di molecole e di cuscinetti».
La fantasia è uno strumento epistemologico concreto, qualcosa di cui servirsi per conoscere il mondo e tentare di capirlo, perché «viviamo in un cosmo immaginabile, alla portata della nostra fantasia» (“Vedere gli atomi”, Alla ricerca delle radici).
Sono i chimici prima di tutto a usare la fantasia, quelli che «affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia» (“Argento”, Il sistema periodico), ma è anche una grande virtù dei venditori che sanno trovare nuove applicazioni alle macchine che devono piazzare (“La misura della bellezza”, Storie naturali), degli addetti al servizio clienti che sanno soddisfare le esigenze più disparate (“Uranio”, Il sistema periodico), e dei tecnici-inventori (“Pieno impiego”, Storie naturali e La chiave a stella). È la risorsa più importante dell’essere umano, necessaria per ogni tipo di téchne, come afferma un nostro avo: «io i figli li voglio coi riflessi pronti e i sensi bene sviluppati, e soprattutto svegli e pieni di fantasia, che magari col tempo siano capaci di inventare la ruota e l’alfabeto» (“Il fabbro di se stesso”, Vizio di forma). Non mancano i riferimenti all’uso della fantasia per fini di scrittura. Ad esempio, quella di François Rabelais è spontanea (L’altrui mestiere), limitata quella di Jorge Luis Borges nell’inventare animali originali (“Inventare un animale”, L’altrui mestiere), assente quella di Tartarin de Tarascon (L’altrui mestiere).
Al di là delle occorrenze del termine, Levi si serve della fantasia in modo audace ed estremamente creativo durante tutta la sua vita come scrittore, a partire dal racconto “I mnemagoghi” (1946) fino ad arrivare ad “Amori sulla tela” (1987), in cui tra l’altro la «signora ragna» intervistata ribadisce indirettamente che la fantasia è principalmente una risorsa tecnico-artigianale: «noi non abbiamo fantasia, non siamo inventori», costruire la tela è un semplice lavoro di memoria (OII, 1686). Sebbene nel vocabolario leviano “fantasia” abbia principalmente questa connotazione tecnica, nella prassi autoriale essa si dispiega ampiamente nella scrittura fantascientifica, con esiti non inferiori a quelli della migliore fantascienza internazionale. Storie naturali e Vizio di forma sono gli esempi più noti, ma vi sono anche la sezione “Futuro anteriore” di Lilít e altri racconti e altre storie apparse negli anni su quotidiani e riviste.
La ricezione di queste opere, tuttavia, sembra confermare che nell’orbita leviana la fantasia non ci stia bene, questo probabilmente perché egli è riconosciuto solo come testimone e non come autore letterario. Ad ogni modo, la sua creatività fantastica è vista in modo negativo da parte dai critici letterari: sia da quelli ritenuti più illustri, i quali considerarono questi racconti come qualcosa di poco serio, sia da quelli specialisti di fantascienza, i quali identificarono Primo Levi e Roberto Vacca come autori che «“inseriscono le cognizioni delle loro discipline [chimica e ingegneria] in scritti di science-fiction”, distinguendosi in questo modo da quegli autori italiani che prediligono la parte puramente fantastica rispetto a quella scientifica» (Mori, “L’altra metà del centauro”).
Insomma, quella di Levi è una fantasia troppo poco fantastica per i custodi del mondo letterario. Solo di recente sono stati fatti tentativi articolati di affermare il valore estetico e fantascientifico di questi racconti (Cassata, Fantascienza? e Pianzola, Le «trappole morali» di Primo Levi), e Belpoliti ha riconosciuto che un’«istanza fantastica è presente in tutte le opere dello scrittore torinese, anche in quelle più testimoniali, tanto da far pensare al fantastico come a una delle vene narrative più forti della sua intera opera. […] possiamo dire che accanto allo scrittore testimoniale esiste sempre uno scrittore fantastico o fantascientifico» (Primo Levi di fronte e di profilo).
Queste però sono questioni che riguardano chi si occupa, forse troppo esclusivamente, di letteratura, per Levi non vi era alcuna incompatibilità tra fantasia letteraria e fantasia scientifica. Non sorprende quindi che sia Arthur C. Clarke il centauro ammirato, astronomo e scrittore, «smentita vivente al luogo comune secondo cui coltivare la scienza ed esercitare la fantasia sono compiti che si escludono a vicenda; la sua vita e la sua opera dimostrano, al contrario, che uno scienziato moderno deve avere fantasia, e che la fantasia si arricchisce prodigiosamente se il suo titolare dispone di una formazione scientifica» (“La Tv secondo Leonardo”, La ricerca delle radici). Forse, seguendo la mitologia greca (Tiresia) e la saggezza pragmatica di Faussone (La chiave a stella) dobbiamo ammettere che solo chi ha sperimentato entrambi i risvolti e le applicazioni della fantasia, quello tecnico-scientifico e quello linguistico-letterario, può autorevolmente esprimersi. Con buona pace degli uomini di lettere, per Levi la fantasia più audace e senza limiti è quella manifesta nel mondo naturale: l’atmosfera infernale di Venere, i vulcani di Io, la pioggia d’idrocarburi su Titano (“Nelle vicinanze non si vede un altro Adamo”, OII, 1513), e le varie specie di coleotteri che mangiano qualsiasi materiale organico, «vivente o morto o decomposto» (“Gli scarabei”, L’altrui mestiere). Più che ad altre fonti, è fondamentalmente a questo tipo di fantasia che Levi si ispira, perché «non ha i nostri confini, anzi, non ha confini, e sconfinato diventa anche il nostro stupore. Non solo non siamo il centro del cosmo, ma ne siamo estranei: siamo una singolarità. È strano l’universo per noi, noi siamo strani nell’universo» (“Notizie dal cielo”, L’altrui mestiere).