Terrence Malick. To the Wonder

18 Settembre 2012

La 69° edizione della Mostra di Venezia, chiusasi una ventina di giorni fa e per qualche giorno proseguita con code di discussioni e lanci d’agenzia per poi precipitare nel solito disinteresse riservato al cinema d’autore in sala, prima di diventare la Mostra di Kim Ki-duc e del Leone d’oro a Pietà (uscito lo scorso weekend: qualcuno se ne è accorto?), delle polemiche sul mancato premio a Bellocchio per Bella addormentata, delle parole un po’ sventate dello stesso Bellocchio e delle solite, inutili discussioni sul cinema italiano che secondo alcuni non vincerebbe mai, quando invece quest’anno ha vinto Berlino e quasi vinceva Cannes, giusto per collegare le parole ai fatti e non alle impressioni via Twitter, la 69° Mostra di Venezia, si diceva, è stata l’edizione di Terrence Malick e dei fischi in proiezione stampa al suo ultimo film To the Wonder, dopo che già i precedenti The Tree of Life e The New World avevano fatto storcere il naso a parecchi. To the Wonder, poi, arrivava a un anno soltanto dall’ultimo lavoro di un regista un tempo ammirato per la riluttanza a girare film, offrendosi già di per sé come un fallimento, una specie di instant movie indesiderato e pronto a smitizzare da sé una delle storielle più coccolata dalla cinefilia mondiale.

 

 

E infatti, manco a dirlo, fallimento è stato. Non proprio per tutti, ovvio, ché infatti c’è e ci sarà parecchia gente che il film lo difende e lo difenderà, ma l’impressione generale era quella di una magia interrotta, di una storia d’amore finita male. Qualcosa che in molti si aspettavano, ma che in pochi – forse da tempo – avevano il coraggio di riconoscere.

 

To the Wonder, come è normale che sia, è simile a The Tree of Life nello stile e nell’ispirazione, nei sussurri in voce off e nei movimenti ondeggianti della macchina da presa, che poi sono gli stessi di La sottile linea rossa e di The New World, tanto che all’ennesima riprova viene la certezza, più che il dubbio, che la relazione con Malick sia finita qui, ora che è dispersa l’ispirazione totale, antihollywoodiana e americaninssima, di La rabbia giovane e I giorni del cielo e ora che la forma poetica abbagliante di fine anni ’90, che a suo tempo lungo i dorsali di Guadalcanal fu un vero shock, si è trasformata in una eleganza vuota e satura, in un vezzo da maestro invisibile e inarrivabile che nei prossimi sei, sette film che girerà in un paio di mesi (pare abbia cambiato marcia, per cui prepariamoci ad altri possibili crepuscoli degli dei), girerà nel suo modo consueto e desueto, erratico e fragile, abbacinante e sbigottito, sempre lì a inseguire donne bellissime sballonzolanti in un campo o sotto le fronde degli alberi, con le mani rivolte al cielo o impegnate ad accarezzare la granaglia, mieloso e pietoso, lamentino e piccolo piccolo, ché il cosmo è troppo grande per essere compreso, ma la sua grandezza ci rende infinitesimali e infiniti…

 

 

Insomma, come dire – sempre che a qualcuno interessi, visto che per ora l’uscita del film è fissata al 20 dicembre prossimo e non sono molti quelli che hanno potuto vederlo a Venezia – To the Wonder è un film oggettivamente insopportabile, un’ora e cinquanta di invocazioni vane e gratuite all’amore e a Dio, senza un dialogo diretto e uno straccio di narrazione – ma solo l’effetto della narrazione, ciò che ne segue a livello di emozioni e reazioni – e con fiumi di musica classica e di corpi in sfioramento da catalogo per Intimissimi. Tutto ciò che in realtà ci si poteva tranquillamente aspettare e tutto ciò che in molti erano pronti a detestare, delusi dall’involuzione del maestro e desiderosi di infuriarsi con lui. Una reazione clamorosa eppure scontata, eccitante, terapeutica, e forse prettamente italiana, visto che a quanto pare la rabbia verso Malick è roba soprattutto di casa nostra (e non è detto che per una volta siamo noi come sempre a sbagliarci…).

 

Eppure. Eppure questa volta, più ancora che in The Tree of Life, qualcosa al di là della patina si sente, qualcosa che fa parte di un progetto di cinema coraggioso e coerente, e non solo lamentoso e predicatorio, che dunque merita di essere ascoltato. Superato il fastidio che il film dispensa fin dai primi secondi – nemmeno minuti, secondi – è giusto provare a capire perché Malick si sia ridotto a un tale sfoggio di tecnica laccata. Non per giustificarlo, o per cercare di salvare il salvabile, ma per andare oltre la superficie di un’immagine come quella cinematografica, che per sua natura si offre a superamenti e riflessioni.

 

 

E ascoltando le invocazioni senza risposta dei personaggi di To the Wonder, le stesse che in fondo ci tormentano con i loro sussurri fin dal '99, non tutto rimbomba nel vuoto. Oltre l’immagine, si sentono uomini e donne lamentare il silenzio di Dio, il silenzio dell’amore, la fine delle cose, il senso di distanza dalla realtà che impedisce la piena realizzazione di sé. Certo, un altro filmone di Venezia 69, pure lui atteso con ansia e poi accolto con timidezza e spiazzamento, il grandissimo The Master, si fa un baffo di tutto questa immaterialità del pensiero: per Paul Thomas Anderson, infatti, la perfezione dell’anima invocata dal suo santone Lancaster Dodd, e implicitamente evocata da Malick, va a sbattere in un punto ben preciso della realtà materiale e immateriale. Va a sbattere nel muro di pensieri di una mente folle e umanissima come quella dell’antagonista del film, il Freddie Quell di Joaquin Phoenix, un idiota rozzo e senza pensieri che sa solo fottere e menare le mani, che in un muro vede solo un muro, e non una barriera spirituale che ci separa dal trascendente, e che forse ha ragione lui, non perché è folle dunque geniale, ma perché è vuoto e reale, banale e rozzo come le forze oscure della Storia. Malick, però, forse sbagliando, forse da ingenuo, forse da vecchio barbogio, crede nella piena totalità della mente umana, e prova a rincorrerla, la nostra povera anima perfetta e inappagata; e prova a superarla, la barriera che ci divide dalla verità, dall’altrove e, per lui che ci crede, dal divino.

 

 

To the Wonder, come già The Tree of Life, ma in maniera ancora più radicale nell’assenza di tracce narrative, è un film su questa distanza tra umano e non umano, un film su corpi maschili e femminili che non hanno più da parlarsi, ma solo da toccarsi e guardarsi, come tramite di un linguaggio incomprensibile. E dunque è un film sull’immagine e sul cinema in sé, su quanto si frapponga tra l’occhio della macchina da presa e il corpo della realtà filmata (una donna, un cavallo, un campo), arrivando perciò a dare un senso a una messinscena evidente, esagerata, pubblicitaria, con volti di donne bellissime che si voltano vezzose verso un occhio che non è quello del loro compagno, non è quello di un alterità che cerca di capirle, ma è quello di un cinema impotente e disperato, alla vana ricerca di un contatto che sa già mancare.

 

“Perché?”, si chiedono in continuazione i personaggi del film (e di ogni altro film di Malick da La sottile linea rossa in poi). Perché? Perché è così, perché la realtà è nell’altrove irraggiungibile, lo sappiamo da sempre. E per quanto la cosa possa sembrare patetica e banale, per qualcuno anche pericolosamente cattolica, è innegabile che queste domande Malick le ponga nel cuore del suo cinema, questa volta andando a scardinare l’iconografia classica del paesaggio americano, le pianure e le distese d’erba dei bisonti, filmate non più come mitologia, ma come realtà luminosa eppure irraggiungibile, inedita perché immersa nel mondo e non filtrata dal cinema.

 

Contrariamente a Anderson, che manda il suo protagonista scemo e fallito verso un punto indistinto dell’infinito, Malick crede nella direzione tracciata da un tramonto, da un’alba (non è mai notte nei suoi ultimi due film), da un raggio di luce che filtra attraverso una tenda o un lenzuolo. E attraverso le tende e le lenzuola, attraverso barriere fisiche che diventano barriere spirituali, prova a ridefinire il suo cinema, la possibilità di andare oltre ogni forma di racconto e rappresentazione, per inscenare una cerimonia di comunione con il creato alla quale è lecito non partecipare, ma di fronte alla quale – nonostante l’irritazione, la spossatezza, la patina e una Romina Mondello impresentabile – può essere difficile, forse ingiusto, restare indifferenti.

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