Fuoco nero su fuoco bianco / Talmud e miti ebraici

9 Luglio 2016

Se dovessi riassumere in una frase la peculiarità della cultura ebraica, sceglierei questo versetto: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 62, 12). L'ebraismo si è costruito su una parola detta, ascoltata e trasmessa; è una cultura di dialogo e ascolto, di racconto e relazione. Nel versetto di poche parole che ho citato – solo cinque nella lingua originale – sono racchiuse sia l'essenza della fede su cui si è fondata la cultura ebraica, sia il metodo con cui si è sviluppata e tramandata: il Dio vero e unico parla, gli idoli non possono farlo, e dalla sua bocca esce una sola parola che, dice la Bibbia, è sempre «verità e grazia». Ma quella parola alle orecchie dell'uomo arriva molteplice, perché è sua la responsabilità dell'interpretazione. Dio non vuole lavorare da solo. Dalla sua bocca alle orecchie dell'uomo la parola si arricchisce di sfumature. Agli uomini è lasciato spazio per interrogare, comprendere, dialogare. La fede d'Israele è dialogo con Dio; il suo compito, che è allo stesso tempo gioia, onore e responsabilità, è trarne fuori l'infinita ricchezza così che, attraverso le voci umane, Dio possa continuare a dire la sua unica, inesauribile verità.

 

La stupefacente fertilità dell'ebraismo nasce proprio dal rapporto dialettico, talvolta polemico e aspro, tra la parola di Dio – così potente da creare nel momento stesso in cui è pensata dalla mente divina – e la risposta degli uomini, che la trasforma ora in leggi, ora in poesia, ora in storia, ora in preghiera. I Maestri sostengono, infatti, che la Sacra Torà è stata scritta da Dio con fuoco nero, le lettere, e fuoco bianco, lo spazio tra le lettere le parole e le righe, lasciato per l'interpretazione dei saggi che devono trasmetterla di generazione in generazione, sempre più ricca e sempre più profonda. E sostengono anche che talvolta Dio sorrida vedendo come i suoi figli tentino addirittura di giocarlo, per destreggiarsi in mille situazioni diverse, a forza di ragionamenti sempre più sottili.

 

Per capire la centralità dell'interpretazione nella cultura ebraica, occorre sapere che la parola divina, secondo la tradizione, è stata trasmessa in due modi. Una parte è stata scritta da Mosè sulle Tavole della Legge ed è il Pentateuco, composto dai primi cinque libri dell'Antico o Primo Testamento; una parte Mosè l'avrebbe raccontata a voce, ed è la Torà orale, che da allora ha continuato a passare di bocca in bocca formando la tradizione. I maestri antichi sostenevano che essa fosse stata costruita come una siepe a protezione della Torà scritta. Questa dualità dialogica, così lontana dalla rigidità della logica greca, ha improntato di sé il metodo di ragionamento ebraico aprendolo, sin dai suoi elementi fondativi, alla dialettica e al confronto. Con grande giovamento per tutta la cultura dell'Occidente, figlia di entrambe. Così l'unica Torà sono due Torot (femminile e plurale), come il cielo della creazione in realtà sono due cieli (un altro duale, nell'originale ebraico) e, come vedremo, il Talmud sono due Talmudim (maschile e plurale).

 

Nella bella introduzione al suo ultimo saggio, Miti ebraici (Einaudi, 2016) Elena Loewenthal, una delle voci più interessanti dell'ebraismo italiano contemporaneo, sottolinea molto chiaramente il legame costitutivo tra la cultura ebraica e il linguaggio inteso «non come strumento di comunicazione ma come elemento fondativo del creato». Riportata in vita dopo oltre duemila anni di silenzio, la lingua biblica, afferma la Loewenthal, è «la dose di mattoni cosmici con cui il mondo si costruisce e si regge». La parola divina «è breve, essenziale, senza aggettivi» ma il suo significato è inesauribile e dipanarlo, tenendo conto di ogni lettera e segno che si trova scritto nella Torà, è il dovere di ogni generazione. Per dare un'idea di cosa significhi un'esegesi attenta a ogni singola lettera, Elena Loewenthal cita la bet, iniziale di bereshit (in principio), con cui comincia la Torà e che assomiglia a una parentesi quadra chiusa sulla destra e aperta a sinistra, cioè nella direzione in cui si legge e si scrive l'ebraico. Con questo inizio ci viene detto che ci è precluso scrutare quanto precede la creazione, mentre il futuro ci appartiene: quello è il tempo per la nostra responsabilità.

 

Il risultato più importante dell'incessante lavoro interpretativo degli studiosi ha portato alla redazione del Talmud, un testo straordinario e complesso, che un tempo si diceva impossibile da comprendere senza la guida di un maestro. Benché l'impresa resti difficile, oggi anche chi non è troppo esperto può avvicinarsi a questo pilastro della cultura ebraica grazie alla pubblicazione, in corso presso la casa editrice Giuntina, della prima edizione integrale, con testo originale e traduzione italiana a fronte, del Talmud Babilonese (chiamato Bavlì). Nel suo messaggio augurale rav Pinchas Goldschmidt, rabbino capo di Mosca e presidente della Conferenza dei rabbini europei, afferma che esso «rappresenta l'anima vitale» del popolo ebraico, e che il suo studio «è parte dell'identità ebraica e la forza della sua sopravvivenza». A conferma dell'interesse e dell'importanza dell'opera, il primo volume uscito, il trattato Rosh ha Shanà dedicato al calendario ebraico, in pochi mesi è già alla seconda edizione.

 

 

Ma cos'è il Talmud esattamente? I libri sacri degli Ebrei sono intessuti della storia del popolo d'Israele e di essa trasudano. La storia ebraica è anche storia sacra. Il Talmud non sfugge a questo stretto abbraccio. Quando i Romani distrussero il Tempio di Gerusalemme disperdendo la nazione d'Israele e dando inizio alla più lunga delle molte diaspore ebraiche, i Maestri temettero che anche tutta la loro tradizione, frutto di un incessante studio e commento della Torà, si sarebbe perduta. Decisero allora di metterla per iscritto dando origine, attorno al 200 e.v. (d.C.) a un codice legale e filosofico chiamato Mishnà (dalla radice shanah, ripetere). La Mishnà è divisa in articoli e ognuno di essi ha un commento. Questi sono raccolti in un testo chiamato Ghemarà (dalla radice gamar, completare). Il Talmud (da lamad, studiare) è composto di questi due trattati più i commenti dei Maestri. La cosa più interessante è che nessun commento cancella il precedente, ma vi si aggiunge, in una sorta di dialogo accumulativo, che avanza di domanda in domanda. Del Talmud esistono due versioni, una redatta in Babilonia e chiusa attorno al 600 e.v. (d.C.), che è quella in corso di pubblicazione per Giuntina; l'altra, detta di Gerusalemme, fu completata nel 400 e.v. (d.C.). Secondo Jacob Neusner, uno dei maggiori esperti di letteratura rabbinica antica, il Talmud Babilonese è il più interessante, non solo perché più corposo, ma soprattutto perché presenta la legge in termini più filosofici e astratti, con un maggiore «rigore e vigore intellettuale» (Jacob Neusner, Il Talmud, San Paolo, 2009). Di norma, quando si parla di Talmud ci si riferisce a questa versione.

 

Per quanto il libro sia complesso, come dicevo, non è difficile riconoscere la sua influenza sulla formazione mentale dell'Occidente, cui ha insegnato un modo di ragionare diverso e, in un certo senso, complementare a quello greco. Nel Talmud tutto è sottoposto alla ragione, ma niente è rigido. Una risposta è buona solo se suscita un'altra domanda. L'apprendimento nasce dalla dialettica, come avviene ancora oggi nelle yeshivà, le scuole religiose ebraiche. L'allievo non deve tacere, dopo avere ascoltato è invitato a parlare, a criticare, a dare la sua interpretazione, confrontandosi sempre con i Maestri del passato. Senza timore, con rispetto per la razionalità e l'autorevolezza dei saggi, soprattutto con quella libertà che l'uomo biblico dice essere la libertà dei figli. Nella consapevolezza che nessuna interpretazione potrà mai essere né definitiva né indiscutibile, perché la Verità appartiene solo a Dio. 

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