Sociologia del futuro / 2050, un anno dopo Blade Runner II

19 Maggio 2021

L’uscita di Blade Runner 2049 di D. Villenueve (2017) ha mobilitato studiosi e appassionati che si sono pronunciati sulle virtù e sui difetti del sequel: dalla presunta misoginia che si manifesta in ruoli femminili degradanti, al razzismo di sottofondo che farebbe incetta di atmosfere asiatiche, sganciate dalla rappresentazione degli abitanti di quei luoghi. Al di là di questioni stilistiche e contenutistiche, può essere utile riflettere sui motivi del fallimento di una narrazione gloriosa come quella di Blade Runner, che ha svolto un ruolo centrale non solo nel cinema degli ultimi trent’anni ma anche del modo stesso di ripensare il futuro da parte della fantascienza. Il destino dei figli d’arte e dei sequel permane identico: prodotti secondari, talvolta di scarto, quasi geneticamente difettosi, e in parte addirittura in ritardo su altri film come Her di S. Jonze, quasi plagiato nella scena di sesso “phygital”. Se il primo Blade Runner è stato quintessenzialmente postmoderno, nel suo sovrapporre stili, generi ed epoche diverse – come disse Ted Polhemus gli anni Trenta di Rachael, i Cinquanta di Deckard, gli Ottanta dei replicanti post-punk ecc. – il suo sequel pare procedere verso una direzione opposta.

 

Quella di un’epoca neoindustriale in cui le mirabili tecnologie immateriali che costellano il nostro tempo – come gli ologrammi interattivi ed emotivamente attivi – contrastano con i luoghi inquinati, contaminati, saturati da una coltre nociva che è ormai quasi un tratto stilistico del famoso regista. Tornano le macchine volanti promesse dalla vecchia fantascienza ma tornano anche le fabbriche, gli altiforni, la fuliggine ecc. Si potrebbe dire, banalizzando, che c’è stato un salto dal cyberpunk allo steampunk, se non fosse che né il primo né il secondo aderiscono totalmente all’estetica dei paesaggi dipinti dal regista. Come le ambientazioni desolanti di un Burning Man postatomico, in cui bazzica una nuova plebe identitariamente inferiore al proletariato industriale, fatta di replicanti che per definizione non sono in grado di riprodursi (e quindi di avere prole). Il “miracolo” della riproducibilità dei replicanti, che fonda una nuova religione e prepara la rivoluzione, è l’unica scintilla capace di diradare la coltre villneuveiana che soffoca una società iniqua, disumanizzata e devastata da un nuovo bellum omnium contra omnes. 

 

Il tema del futuro ritorna prepotente nel dibattito accademico, politico e culturale. Il testo di P. Perulli, Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo (Il Mulino, 2021), affronta tale argomento in una finestra che s’apre con il 1989, e che attraverso il susseguirsi di varie crisi sistemiche, s’interroga sulle traiettorie di sviluppo della società del futuro. L’incertezza contemporanea si fonda su una produzione permanente di rischio. Se in passato “la legge e il caso erano superiori a tutto, agli uomini e agli Dei… oggi il caso ha assunto una nuova veste, come nelle pandemie e nelle crisi e infligge mali soprattutto ai più deboli”. Il sogno delle tecnocrazie mondiali di controllare l’aleatorio, il rumore di fondo della storia, la potenza della natura e del caso, si ribalta nella sostanziale inerzia delle organizzazioni, incapaci di fronteggiare il caos. Se la nascente società industriale era caratterizzata da un’élite organizzata che si contrapponeva a una maggioranza non organizzata, mentre nella società di massa emergeva una maggioranza organizzata in corpi intermedi, la società mondiale del nostro tempo si presenta altamente destrutturata, ma tendenzialmente tripartita in: neoplebe, classe creativa e nuova élite. La prima è il risultato del declino dei ceti medi ma anche della competizione al ribasso tra gruppi “locali” e flussi d’immigrazione extraeuropea, a cui i locali si oppongono senza alcuna capacità di contenimento.

 

 

La classe creativa ha perso il valore epico e trasformativo che le veniva assegnato da R. Florida, riducendosi ad assomigliare ai primi ceti mercantili agli albori del capitalismo: “outsiders privi di cittadinanza, che si spostano di città in città sempre restando ai margini”. Essa è inoltre vittima di uno sfruttamento cognitivo e culturale, nonostante le royalty che le vengono riconosciute dalle imprese per l’utilizzo commerciale delle sue idee. La nuova élite, si diceva, è molto diversa da quella vebleniana, organizzata ed esclusiva che guidava la società industriale. Sebbene essa sia cosmopolita per “sua natura”, cioè “appartiene a un circuito internazionale del potere e del denaro” ma utilizza il segreto per gestire in maniera non trasparente i propri interessi specifici. Il vessillo della liquefazione baumaniana, viene qui usato come alibi per l’implementazione di politiche neoliberiste e “deregolative”. 

In risposta alla crisi della globalizzazione, Perulli suggerisce un cambiamento di passo su vari fronti: dall’esternalizzazione alla internalizzazione, dalla chiusura dei sistemi all’apertura, dalla globalizzazione tout court a una sua variante “intelligente”. La crisi ambientale è il segno più evidente della crescente entropia sociale e dell’impossibilità di gestire le sfide della globalizzazione mantenendo il medesimo assetto economico e politico-istituzionale che l’ha sostenuta negli ultimi trent’anni. La crisi  del Covid-19 mette in evidenza il nesso tra pandemia e anomia: nella sconcia reazione di chi, pur di salvare il proprio interesse particolare, mette in pericolo la salute collettiva. 

 

Nonostante l’analisi rigorosa dei fattori che hanno innescato la crisi contemporanea, la definizione dello scenario relativo al 2050 ci racconta un’altra storia, in cui gli eccessi stessi del sistema capitalistico hanno funzionato come limite di rottura capace di ribaltare il sistema oltre le sue stesse contraddizioni. In questa nuova fase postcapitalista, pare realizzarsi la previsione affidata da Marx ai Grundrisse. Dopo aver riflettuto sulla relazione gerarchica e “sillogistica” tra produzione e consumo, che è mediata dalla distribuzione, Marx introduce una riflessione molto più complessa sul ruolo dello scambio come fase speculare alla distribuzione ma vista dal punto di vista del sociale. Tale sovvertimento dell’egemonia della produzione, consente di riflettere sulla determinante culturale del consumo ma anche sulla possibilità del sistema capitalistico di trascendere la sua stessa natura. Ovvero di passare da una globalizzazione astratta a una sorta di multilocalizzazione dal basso che rivaluta il ruolo delle comunità interconnesse e dei movimenti grassroots.

 

Nell’ultimo capitolo vengono delineati i tratti della società del futuro. Rispetto al sogno distopico di una monocultura uniforme che si realizza nelle maglie dello stato mondiale, nel 2050 si consoliderà una “federazione di Stati-continente”. Dalle imprese impostate su modelli gerarchici tipici della società industriale, si passerà a “filiere continentali con forti teste di filiere locali”, ispirate ai modelli di produzione della conoscenza tipici dei campus universitari. Le stesse infrastrutture logistiche saranno sempre più digitalizzate e decarbonizzate. Dopo essere stata sfruttata e assoggettata dal sogno prometeico di crescita della potenza umana, alimentato dalla vecchia tecnica, alla natura verrà riconosciuta nuova sovranità. Il protagonista di questa transizione sarà una nuova élite “consapevole” che, cavalcando l’onda lunga del cambiamento culturale dal basso, costringerà la finanza ad assecondare la transizione ambientale. I catastrofismi delle distopie fantascientifiche e delle nuove teorie critiche, vengono spazzati via in un sol colpo dall’ottimismo pragmatico di questo testo, che disegna scenari plausibili ma anche in qualche modo desiderabili. Speculari ma forse convergenti a quelli proposti dai teorici della Quarta Rivoluzione Industriale che al contempo celebrano le virtù “disruptive” delle tecnologie radicali, ma ci confortano sulla loro sostenibilità. Non resta che attendere la data fatidica suggerita dal titolo, per certificare che il nuovo mondo del 2050 non sarà come quello di 2049. 

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