Disordine nella savana
PNEUMATICI. Osservo ammirato i sandali neri del masai, piatti per non lasciare impronte sul terreno. Questo straordinario popolo africano di guerrieri e pastori fa da guardia notturna al campeggio eco-compatibile in cui mi trovo, immerso nella savana sud-orientale del Kenya.Chiedo al masai di cosa sono fatte le sue scarpe, aspettandomi il nome di qualche pericoloso animale. La risposta mi lascia di sasso: vecchi pneumatici. “Ex Africa semper aliquid novi...”
SAFARI. In swahili Safari vuol dire viaggio, un viaggio nel viaggio insomma, e un viaggio nella storia, perché questo ambiente è il più vicino a quello dei primi uomini. Il mio non è un safari fotografico, che ha preso piede quando sono stati banditi il bracconaggio e, in seguito, il commercio d’avorio. Certo, da quando non si deve più chiudere un occhio per guardare dentro l’obiettivo della macchina fotografica, si possono scattare foto senza distogliere lo sguardo da quanto ci sta davanti. Ma per il ghepardo adagiato sul formicaio ci vuole uno zoom professionale che non ho, e poi di immagini così ne ho viste già tante. Preferisco abbandonarmi ai bruschi sussulti della jeep – “Free massage”, scherza il ranger, sicuro delle sue battute, poche ma tutte azzeccate. Ecco, il mio safari sarà soprattutto auditivo. Lo capisco quando trascorro la prima notte nella savana, perché se c’è una cosa che questa terra desertica e sconfinata non conosce è proprio il silenzio.
MEET ME DOWN BY THE RIVER. Il tempo rivierasco trascorre a suo tempo, con lo stesso incedere degli ungulati che si abbeverano al fiume. I quattro masai, tutti sposati come deduco dal fatto che non hanno i capelli lunghi, mi dicono che gli ippopotami dovrebbero sorgere dalle acque del fiume “verso le 11”. Sono le 10:30, anche se qui è notte fonda da un pezzo e sono provato dalla giornata. Ci adagiamo, chi sul tavolo, chi sui canapè, chi a terra. I masai sono discreti, mantengono lo stesso riserbo del ranger che nessuno sa dove dorme e me lo vedo dentro la jeep, col cappello sugli occhi e le gambe di fuori. Restiamo assorti. Se ci fosse una chitarra, vorrei improvvisare un blues dal fraseggio irregolare alla John Lee Hooker. Cantare del fiume rosso, come rossa è la terra e ormai i miei vestiti, e lo shuka dei masai, una veste che li rende simili a monaci tibetani. Cantare degli alberi rinsecchiti, in cui non vi è sagoma che non ricordi un animale. Cantare il safari come un lento, progressivo, viscido abbandonarsi al divenire animale del mondo.
Dietro di noi sorge il capanno dove, apprendo, ogni tanto i leoni fanno una capatina. Resto indifferente, a me gli insetti fanno più paura dell’indolente leone. Novello san Girolamo, mi vedo scrivere al computer con il leone accucciato sul tappeto, riconoscente per avergli tolto la spina dalla zampa. Devo aver preso troppo sole. Eppure con la leonessa più affamata della savana sento di poter instaurare un dialogo, secondo quella discendenza che da san Francesco scende giù fino a Ti con zero di Italo Calvino. Mi convinco di poter intrattenere con la belva un dialogo in latino sull’animalità antropomorfa e l’umanità teriomorfa, sulle ragioni dell’etica antispecista, mentre la leonessa mi guarda negli occhi e scodinzola, ipnotizzata dal mio eloquio o forse indecisa se vale la pena guastarsi la bocca con carne umana di così infima qualità.
VEDERE L’OCCHIO. Le poche parole che ci scambiamo coi masai riguardano l’identificazione dei versi degli animali. “Hai sentito questo? hai sentito quest’altro?”, mi fa il più giovane con un colpetto al gomito. Nonostante abbia le orecchie tese come un pipistrello non sento un’acca. Per identificare quelsuono mi ci vuole tempo, lo devo sbrigliare dall’intricato tappeto sonoro della savana, da questo casino. Sembra che i masai me lo facciano apposta: sono sempre sintonizzato sui suoni sbagliati, su quelli che contano poco se si trattasse di sopravvivere solo in questo ambiente così densamente popolato. L’errore da principiante, lo capisco presto, è restare sulle frequenze alte. Registro non so quanti uccelli – qui c’è un’attività aviaria da ora di punta – e diversi versi striduli di scimmie, richiami del cuculo, uggiolii ignoti al mio orecchio che, se dovessi trascriverli, suonerebbero come uno scomposto “NOOO!”. Sulle frequenze basse si percepiscono invece animali come l’ippopotamo e il leone. Infatti, masai dixit, quando il grugnito è potente, vuol dire che il leone è lontano chilometri, ma quando è flebile come un miagolio domestico, vuol dire che il leone è più vicino della tua ombra.
“Lo vedi quell’occhio?”, dice il solito guardando sulla destra. Oddio, quale occhio? Io vedo tanto nero e qualche cespuglio spettinato rischiarato dalla luna, ma l’occhio della madre proprio no. Quando mi concentro con tutte le mie forze taglia netto: “Ora l’ha chiuso”. I casi sono due: o i masai hanno lo sguardo bionico o si prendono gioco di me, povero europeo che di occhi notturni conosce solo quelli dei semafori. Ma poi tira fuori una torcia potentissima (l’unico gadget tecnologico che gli vedo manipolare) e illumina le pendici di una collina in cui si distingue la sagoma di un animale immobile per lo spavento. Prova a mimetizzarsi nonostante la sua pelle color crema risalti bene sullo sfondo verde persino al mio sguardo.
Il tempo passa, i rumori si avvicendano, degli ippopotami nemmeno l’ombra. Deve essere l’acqua alta. Aspettiamo. Che strano, il 24 dicembre aspettare la venuta degli ippopotami.
LINGUAGGIO. Dopo diversi tentativi rinuncio a descrivere quello che si sente di notte da queste parti, una vita sonora senza partitura. Mea culpa ma anche del linguaggio, che con la savana ha un problema grosso come una casa. Quando il linguaggio è arrivato alle porte della savana ha perso completamente la bussola, come dimostrano i nomi più astrusi dati agli animali. Dal mucchio e da A a Z: alcelafo, agama, caprimulgide, cercocebo, cercopiteco, cobo defassa, colobo turaco, cudù, damalisco di Hunter, drongo, dugongo, eritrocebo, galagone, garrulo, genetta, gerenuk, guereza, impala, irace, licaone, marabù, oritteropo, otocione, pangolino, poiana, protele, ratelo, saltarupi, serval, silvicapra, siratunga, toporagno elefante, tragelafo, turaco, zibetto. Leggeteli ad alta voce come uno scioglilingua. Quante immagini mentali avete trattenuto? Io nessuna. Per me potrebbe trattarsi di una serie di attrezzi per zappare la terra. Non è la prova dell’indecenza, della nudità, del deliquio dei segni linguistici? Sì, ci sono le parole onomatopeiche, ma non dimostrano palesemente l’incapacità del linguaggio di far parlare quei suoni altrimenti?
Che le parole a nostra disposizione tessano una trama tarlata della realtà non è una grande scoperta, d’accordo. “Il mio caso, in breve, è questo”, scrive ad esempio Hugo von Hofmannstahal nella lettera di Lord Chandos, “ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento”, e continua: “perché la lingua, in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute”. I suoi esempi sono tuttavia da abbecedario (“Un annaffiatoio, un erpice abbandonato su un campo, un cane al sole, un povero cimitero, uno storpio, una piccola casa di contadini”). Nella savana sarebbe impazzito. Il linguaggio è forse come il ruggito del leone: solo quando miagola si avvicina di un pelo alla realtà delle cose.
JAMBO. La notte avanza e ogni tanto mi sgranchisco le gambe attorno al capanno retrostante dove si consumano i pasti. Un vegetariano sopravvive bene nella savana: oltre alla frutta, riso e patate, fagioli e mais, zuppe di lenticchie, chapati e verdure, ugali (polenta di mais) con l’erbetta sukuma, samosa, spuntini di mandazi (ciambelle dolci). Pasti che divido, per così dire, con una scimmietta – alias un cercopiteco verde – permalosa e irresistibilmente dispettosa, più perspicace di tanti umani che conosco. A Jambo (come l’ho soprannominata con la parola che i turisti si sentono indirizzare più frequentemente in Kenya) bastano tre balzi studiati per razziare quello che c’è nei piatti. Poi si siede a pochi metri dal tavolo e mangia il bottino senza sensi di colpa. Da Jambo apprendo tra l’altro ad aprire le banane dall’altro lato. Se avessi più tempo, potrebbe essere quello che l’antilope Lulu è stata per Karen Blixen. Riconoscendo tra noi una curiosa rassomiglianza di tratti, mi convinco di essere compreso da questo silente compagno di merende. Di cosa Jambo è il nome?
DISNEY CI HA INGANNATO. Ecco il verso degli ippopotami, il masai lo riproduce benissimo, sebbene l’acqua del fiume resti abbastanza calma. Sono trepidante. Infatti quando chiedo ai masai da quali bestie selvagge ci debbano difendere, la risposta è spiazzante quanto i sandali di pneumatici: dagli ippopotami. No, ma come, l’ippo? Gli ippo sono erbivori ma anche molto aggressivi; persino il mio ranger – che guida per la savana come io il motorino per il centro di Roma – li teme. Meglio non trovarsi sul loro cammino. L’unica magra consolazione è che, dopo aver ridotto il malcapitato a una poltiglia forti delle loro tre tonnellate, non lo mangeranno. Pertanto una polpetta non commestibile è pur sempre una polpetta. Ah Fantasia, colossale mistificazione! Altro che danza degli ippopotami in tutù e scarpette, con Giacinta che s’incipria prima d’addormentarsi su un sofà sospeso su una bolla di sapone, o si aggiusta il tutù al ritmo della Danza delle ore di Amilcare Ponchielli. Che impostura madornale! Ci voleva un contrabbasso distorto e cattivo, se non fosse che Saint-Saëns lo ha riservato agli elefanti. La musica non ne esce meglio del linguaggio! Mi rendo conto a che punto la mia cultura sulla savana sia colonizzata dall’immaginario della Disney e dal Mondo di Quark, con l’aggiunta di poche altre letture.
SBADIGLI DALL’INFERNO. Un consiglio: mai dare un appuntamento di lavoro a un masai. Erano le 22:30 quando davano l’arrivo degli ippopotami come imminente. Sono le 3 passate quando finalmente si manifestano. Dal fiume ne escono d’improvviso una ventina che, con passo lemme ma deciso, salgono per la collina affamati di erba fresca – una quarantina di chili ciascuno, uno per dente. Quest’uscita dall’acqua al chiaro di luna ha qualcosa di satanico, di propagazione di una malattia, di manifestazione del male che s’insinua nel mondo mentre l’umanità intera riposa. Se questa notte fosse la creazione del mondo, si tratterebbe della prima epifania dell’elemento negativo, un annuncio di cupi presagi – la prima volta in cui si osservò il mondo sottosopra.
Nello sbadiglio di questo animale malefico riconosco la porta dell’inferno. Anzi, è chiaro che l’inferno è nato dallo sbadiglio di un ippopotamo. Del resto stiamo parlando di un animale che, come gesto di sottomissione al capo, opera sul suo muso una generosa defecazione, spruzzando la merda a destra e a manca a colpi di coda – come la pioggia dal tergicristallo. Se questa non è un’immagine dell’inferno, allora ditemi voi cos’è l’inferno.
Solo i masai non battono ciglio. Sono qui per assicurare che, nonostante tutte le avversità, il mondo seguirà il suo corso.
SWAHILIANA. Lala Salama (Sogni d’oro).
ALBA. È ora di andare a riposare. Sogno di fare il bagno nel fiume rosso della savana, pacioso come il barbuto Konrad Lorenz immerso nell’acqua con le oche ripreso nella copertina de L’Anello di Re Salomone, che ha segnato la mia infanzia. La sveglia suona alle cinque, perché l’alba è un altro momento propizio per il game drive, cioè per osservare gli animali – leopardo, serval, leone, iena maculata – prima che il caldo li faccia rintanare lontano dalle strade percorribili del bush. E in Africa, come diceva Hemingway, una cosa che è vera all’alba è falsa a mezzogiorno. Le impronte a terra a forma di fico, tipiche dell’ippopotamo, sono la prova che ieri notte ci ho visto bene. Durante la colazione frugale immagino Jambo con la schiena adagiata su un ramo, le zampe posteriori e la coda a penzoloni, mentre dorme di brutto per digerire tutte quelle banane, tutto quel pane rubato.
CANCRENA. A causa della puntura di un insetto non identificato la mia gamba non smette di gonfiarsi dalla caviglia in su. Nessuno riesce a trovare il pungiglione o il morso. Quando mi alzo, devo aspettare un paio di minuti prima di riuscire a muovere il primo passo e gironzolare con un arto ormai estraneo. No, non è la gamba in cancrena del protagonista de Le nevi del Chilimangiaro ma – complici i demoni meridiani – sufficiente per spalancare foschi scenari paranoici. Davanti agli indomiti personaggi di Hemingway, sono solo un tragicomico ipocondriaco metropolitano, che si scervella su cosa può averlo punto: mosca tse-tse, zanzara malarica, serpente letale, scorpione, insetto x che inietta un veleno di cui non esiste l’antidoto. Come andrà a finire senza profilassi antimalarica? Presto mi vedo trasformato in una palla flaccida irriconoscibile, coperta di sudore – nettare dei peggiori insetti – con il masai che, mentre mi cosparge la fronte di fresche erbe puzzolenti, mi dice senza enfasi e un po’ secco “Hakuna Matata, my friend, just rest”. I brandelli di cielo che filtrano all’interno della tenda mi accecano. Intravedo la sagoma di Jambo su un tamarindo; mentre si pulisce le zampe annuncia solenne che ho intrapreso il vero Safari, l’ultimo, l’autentico viaggio esistenziale.
Morale: vestiti neutri, niente profumo o deodorante, crema anti-zanzare, cappello a falda larga, scarpe chiuse, tutto questo aiuta. Ma senza una componente di culo arduo è il cammino dell’uomo.
DISORDINE. Uno sticker rosso attaccato sul retro della jeep che mi precede recita: “I Measure Your Disorder”. Disorder è una parola prodigiosa: prima di riferirsi alla confusione, come quella di una stanza o di uno stato d’animo (“trovarsi in disordine”), viene utilizzata in campo medico (“mental disorder” e così via) per indicare un disturbo, uno stato patologico. In entrambi i casi, viene suggerito qualcosa di straordinario: che il disordine abbia una misura. Di colpo mi sembra che in quelle quattro parole dello sticker sia la savana stessa a parlarmi.