Non sentirsi in colpa con Spotify

13 Novembre 2013

Questo articolo nasce da una domanda personale. Era appena uscito il disco di un musicista che amo, Bill Callahan. Dieci anni fa sarei andato in un negozio di musica e avrei comprato il cd. Cinque anni fa lo avrei acquistato su iTunes. Quella sera invece lo stavo ascoltando su Spotify, con grande godimento e soddisfazione, perché invece di spendere 10 euro per gli mp3 del suo nuovo disco, con la stessa cifra ogni mese su Spotify ascoltavo molti più dischi. Faccio evidentemente parte di quella generazione di ascoltatori cresciuti più col digitale che con il vinile (a parte il meraviglioso regno di mezzo delle audiocassette C-90). È colpa nostra, dicono, se dal 1999 (anno di fondazione di Napster) al 2012 l'industria musicale mondiale ha perso continuamente soldi (da 25 miliardi di entrate nel 2000 a 16,2 nel 2011, secondo Wikipedia).

 

Eppure, per me che sono un maniaco della musica ma non un feticista del supporto, la vita da ascoltatore ossessivo non è mai stata più bella, ricca e interessante di adesso, nel pieno dell'era dello streaming. Ma la domanda che mi feci quella sera è questa: per un musicista oggi la vita è bella e ricca come per me? O è più duro vivere di musica oggi?

 

Thom Yorke, David Byrne

 

Due miei eroi musicali, Thom Yorke e David Byrne, hanno espresso al riguardo posizioni molto critiche. Thom Yorke se n'è andato da Spotify accusandolo di sfruttare i musicisti e invitando tutti a seguirlo, David Byrne ha scritto cose simili sul Guardian.

 

Ammetto che quando ho letto le loro parole, mi sono sentito un po' in colpa. Per un attimo ho pensato che stavo rubando soldi non solo a Byrne e Yorke (sono ricchi sfondati) ma anche a Bill Callahan (che è un po' meno ricco) e soprattutto ad altri minuscoli artisti semi-sconosciuti.

 

Ricordo la cura con cui, quando lavoravo a Radio2 Rai, compilavo i borderò Siae contando i secondi di “primo piano” dei brani degli sconosciuti Broadcast2000 che passavo in radio, frustrato dal pensiero che tanto non li avrebbero mai visti, quei soldi, per il meccanismo malato di redistribuzione dei diritti adottato dalla Siae.

 

Allora ho iniziato a documentarmi. Avevo due obiettivi: 1) capire quanti soldi pagavano ai musicisti questi nuovi servizi di streaming musicali e 2) se erano così iniqui come Yorke sostiene e se soprattutto erano più iniqui della radio.

 

Prima domanda: quanto paga lo streaming?

 

Tutti se la prendono con Spotify, così come negli anni novanta se la prendevano con Nike e Nestlé (a ragione, magari, ma dimenticando tutti gli altri brand). Ma è Spotify il Diavolo?

 

Oggi dalla vendita di un CD un artista ricava da 1,4 a 2,3 dollari a CD (fonte: Come Funziona la Musica, di David Byrne, Bompiani, 2013). Dalla vendita di un album digitale su iTunes l'artista incredibilmente ricava la stessa cifra, anche se la copia digitale abbatte i costi di distribuzione.

 

In ogni caso sono sempre meno gli artisti che possono campare con la vendita dei dischi. Nel 2006 solo 35 album hanno superato il milione di copie vendute; 27 nel 2007; 22 nel 2008; 12 nel 2009; 10 nel 2010 (fonte: sempre David Byrne, 2013). Soltanto 2050 dei 97.751 album pubblicati nel 2009, ovvero il 2,1 per cento, hanno venduto più di 5000 copie.

 

Se uno non può vivere di vendite di dischi può vivere di streaming?

 

Conoscere quanto arriva nelle tasche dei musicisti una volta che clicco un brano su Spotify, Deezer, Pandora o Rdio non è semplice, perché queste società non sono disposte a rendere trasparenti questi dati (e questo, caro Spotify, è un problema. Se io sono un musicista e ti do la mia musica, voglio sapere quanto mi paghi, prima di autorizzarti). Però ormai molti artisti hanno cominciato a rendere pubblici i loro guadagni, come forma di protesta nei confronti delle piattaforme di streaming. Una delle prime è stata la violoncellista Zoe Keating. Nel 2012 Zoe ha pubblicato sull'Atlantic il resoconto dei soldi ricevuti da Spotify per 70.000 click sulle sue canzoni: poco meno di 300 dollari.

 

Zoe Keating

 

Anche il musicista Sam Duckworth ha rivelato sul Guardian i suoi guadagni Spotify: 4.685 click gli hanno reso 19,22 sterline. Quindi possiamo dedurre che, in euro, ogni play su una canzone ascoltata tramite Spotify vale circa 0,0036/0,0040 euro. Sembrano briciole eppure Spotify versa il 70% di quello che guadagna in diritti musicali ed è ancora un'azienda in perdita, anche se in crescita di utenti (24 milioni nel 2013, di cui 6 paganti). Ma i musicisti oggi non fanno soldi solo da Spotify: la loro musica è distribuita su tante piattaforme digitali e quel poco che i più guadagnano è la somma di tanti piccoli rivoli di entrate: dai tanti servizi di streaming a quelli di download a pagamento ecc... 

 

Gli altri servizi di streaming non sono migliori di Spotify, anzi. Pandora, come ha dimostrato la band americana Lowery, paga una miseria per click: appena 0,000012 euro. Deezer, la piattaforma di streaming francese che prova a fare concorrenza a Spotify in Europa, paga un po' di più di Spotify, secondo le cifre pubblicate dalla band degli Uniform Motion: 0,0060 euro per click.

 

You Tube, il più grande juke box musicale del mondo, paga, secondo fonti non confermate, circa 0,0100 centesimi per click. In questo ecosistema, quello che una volta un musicista portava a casa dalla vendita di un unico supporto (il cd), oggi è frammentato in tanti micro-guadagni provenienti da più fonti. È ovvio che per guadagnare con la propria musica da queste fonti bisogna generare milioni di click, cosa che poche band riescono a fare.

 

È anche ovvio però che per molte band minori e sconosciute, tutti questi strumenti rappresentano degli incredibili palcoscenici globali per farsi conoscere, ascoltare e diventare così popolari da poter guadagnare sul numero di concerti realizzati e sull'incremento della propria reputazione, da convertire poi in cachet più alti. Questa almeno, è la difesa di Spotify: grazie a noi, dicono, gli artisti riescono a costruirsi un pubblico, che li seguirà nei tour. Spotify aggiunge anche un'altra cosa, che non è trascurabile: al momento i paganti sono solo 6 milioni, ma quando gli abbonati saranno decine di milioni la torta da condividere con i musicisti sarà notevolmente più ampia. È solo questione di tempo.

 

Intanto oggi tutti i musicisti concordano che dalle vendite della loro musica non riescono più a ricavare un modello di vita sostenibile. Quindi, chi ha ragione?

 

Seconda domanda: paga più la radio o Spotify?

 

La Storia si ripete molto più spesso di quanto crediamo.

 

Negli anni trenta del Novecento la FCC americana, la commissione federale sulle Comunicazioni, ostacolava la trasmissione di musica registrata alla radio, facendo il gioco delle lobby della musica dell'epoca, che temevano che la radio avrebbe fatto diminuire la vendita di dischi. La FCC approvava più velocemente le pratiche di richiesta di trasmissione da parte di radio che promettevano di non usare musica registrata per i primi tre anni di vita.

 

Non solo le etichette, ma anche molti Thom Yorke dell'epoca tentarono di non far suonare i propri dischi alle radio, per paura che la gente avrebbe smesso di comprare la propria musica e addirittura provarono ad etichettare i propri dischi come “legalmente non adatti” alla trasmissione radiofonica. In ogni caso la corte Federale nel 1940 stabilì una volta per tutte che gli artisti non avevano alcun controllo legale sull'uso della loro musica registrata, una volta che questa era stata venduta e le radio poterono trasmettere liberamente la loro musica. I Beatles non sarebbero esistiti senza Radio Caroline, Elvis Presley non sarebbe stato Elvis senza il dj Dewey Phillips, così come i Joy Division devono ringraziare Sir John Peel (se siete arrivati a leggere fin qui verrete ripagati dalla scoperta di questo link sul suo archivio digitalizzato: cliccate ora qui), mentre Blur e Oasis BBC One.

 

Elvis Presley, Natalie Wood, Dewey Philips

 

Dopo la demonizzazione della radio fu la volta delle cassette: le compagnie discografiche tentarono di dissuadere le registrazioni domestiche perché temevano che la gente duplicasse i singoli di successo dalla radio e non comprasse più i 45 giri. Lanciarono anche una fallimentare campagna contro le cassette con lo slogan “L'home taping sta uccidendo la musica”. La stessa cosa accadde quando arrivarono gli mp3 e Napster. La tecnologia ha sempre minacciato di “uccidere la musica” e finora non l'hai mai fatto. Nel frattempo le radio, un tempo il nemico giurato dell'industria musicale, ne sono poi diventate le migliori amiche, così amiche da prendere soldi sotto banco per trasmettere alcune canzoni e non altre, vedi il caso Payola.

 

L'ultimo nemico in ordine di tempo è Spotify: lo temono i musicisti, l'industria discografica e...la radio, che ha paura di perdere (lo sta già perdendo, come dimostro in questo libro) lo scettro di mezzo privilegiato per l'ascolto della musica. Per questo motivo la BBC ha recentemente stipulato un accordo con Spotify pr rendere le sue playlist disponibili sul servizio di streaming. Vedi alla voce “Se non puoi battere il tuo nemico vedi di fartelo amico”.

 

Proviamo ora a comparare i diritti musicali pagati dalla radio e quelli provenienti da Spotify.

 

Ho fatto la mia ricerca e ho scoperto che le radio inglesi, secondo un articolo del Guardian, pagano anche 70 euro di diritti solo per l'autore del brano più una cifra simile da dividere tra l'etichetta e gli esecutori. Apparentemente non c'è paragone, la radio batte Spotify 140 euro a 0,0040 centesimi a brano. Ma i conti non si fanno così. Prendiamo come esempio le radio inglesi della BBC, che sono quelle che al mondo pagano i diritti più alti per il passaggio di un singolo brano (in Italia la cifra è molto più bassa). Un artista che risulti essere sia l'autore che l'esecutore del brano trasmesso, guadagnerà circa 105 euro per un passaggio su BBC 2. E siccome questa radio ha circa 13 milioni di ascoltatori a settimana, nel momento in cui il suo brano passerà in radio è molto probabile che ci siano circa mezzo milione di persone sintonizzate su BBC 2, ovvero 0,00021 centesimi di euro per ogni ascoltatore, molti meno degli 0,0040 centesimi che Spotify riconosce al musicista per ogni click, (ad essere precisi 16 volte di più di quanto la più generosa radio del mondo, la BBC, riconosce agli artisti).

 

Prima conclusione: quando ascolto Bill Callahan alla BBC dovrei sentirmi sedici volte più in colpa di quando l'ascolto su Spotify? Non proprio, perché tra l'ascolto radiofonico e Spotify c'è una differenza. La musica che ascolto su Spotify ha molto più valore, per me ascoltatore, di quella che ascolto alla radio. Su Spotify ho il controllo di ciò che ascolto, posso salvarlo in una playlist, posso condividerlo con gli amici usando la musica per definire la mia identità in relazione agli altri, posso facilmente decidere quando riascoltare quel brano. Fintanto che ho accesso a Internet, Bill Callahan sarà sempre con me, a un click dalle mie orecchie. Alla radio la musica vale molto meno, perché non ho alcun controllo su di essa: un brano passa via mentre sto guidando, la qualità del suono è bassa perché ho un'autoradio del 1993 e una cassa sfondata e la mia mente è divisa tra il godimento dell'ascolto e la distrazione del traffico. Il valore di un contenuto culturale, sostiene giustamente Philippe Aigrain in Sharing. Culture and Economy in Internet Age, dipende da quello che le persone possono fare con questo contenuto. È per questo che per ascoltare 10 canzoni dal vivo dei Pixies sono disposto a pagare 50 euro mentre per ascoltare le stesse canzoni alla radio, tra una pubblicità e l'altra, con una qualità molto bassa, soltanto 0,0021 centesimi. Il valore quindi, dipende dalla forma di mediazione attraverso la quale il contenuto passa per arrivare fino a me. Più alta la mediazione, più basso il valore.

 

Quindi è giusto che Spotify paghi molto più della radio la musica che passa. E forse non la paga abbastanza: mentre la radio non era sostitutiva dell'acquisto musicale ma anzi ne rappresentava uno stimolo potenziale, Spotify è un'alternativa effettiva all'acquisto.

 

Will Page

 

Certo, Will Page di Spotify sostiene il contrario, cioè che Spotify invece delle vendite sta cannibalizzando la pirateria. Nel 2011, sostiene Spotify in questo articolo, la pirateria in Svezia è scesa del 25%. La stessa cosa è successa in Olanda. La pirateria è in diminuzione in tutti i paesi dove si stanno diffondendo sistemi di streaming musicali ibridi (finanziati da pubblicità quindi gratuiti per l'utente, oppure a pagamento). È possibile che una parte degli utenti di musica abituati al download illegale da una politica suicida delle case discografiche, possa essere riconquistata alla fruizione legale su Spotify se il servizio rappresenta un vantaggio rispetto alla fatica di dragare la rete alla ricerca della musica piratata.

 

Ed è anche vero che per la prima volta dal 1999, nel 2012 le entrate dell'industria musicale hanno ripreso a crescere (+ 0.3%). L'unica a perderci davvero, dalla diffusione di Spotify, sembra piuttosto la radio, che, negli stati dove Spotify è più diffuso ha visto scendere dal 27 al 7% l'ascolto della radio da parte dei giovani (dati EBU 2011).

 

Conclusioni

 

Spotify e le sue sorelle quindi non sembrano essere quel diavolo assoluto descritto da Byrne e Yorke, o almeno, non sono tanto peggio dei media che li hanno preceduti. Di sicuro però c'è qualcosa che non torna se la maggior parte dei musicisti oggi deve sperare di sopravvivere soltanto sui proventi dei propri concerti o sulla vendita della propria musica alla pubblicità. Spotify non è un sistema perfetto e non è inserito in un ecosistema altrettanto perfetto. Anzi, tutt'altro. La maniera in cui vengono redistribuiti i guadagni di Spotify è discutibile: le grandi etichette con archivi musicali enormi contenenti brani di artisti già deceduti, si prendono la stessa fetta di guadagno di un artista appena uscito. Alcune grandi etichette hanno fatto accordi segreti con Spotify per ottenere un trattamento economico di favore, sostiene il produtore dei Radiohead Nigel Gondrich. I brani in catalogo da anni e la musica emergente non dovrebbero, secondo Gondrich, essere trattati e ricompensati allo stesso modo.

 

Con l'aumento della diffusione di questi servizi e l'aumento degli utili, Spotify e le sue sorelle dovrebbero essere costrette a rinegoziare verso l'alto i diritti che pagano agli artisti e la quota spettante agli autori dovrebbe aumentare rispetto a quella raccolta dagli intermediari.

 

Le etichette e i produttori musicali dovrebbero adattarsi il più possibile alla nuova cultura digitale, sfruttando di più la coda lunga dei propri cataloghi, rendendo più facile l'ascolto in anteprima dei loro brani, curando la qualità dei propri prodotti. Le radio, da sempre una fonte importante di reddito per i musicisti, per non perdere la loro centralità nell'orientare il gusto musicale, dovrebbero smetterla di affollare l'etere con una programmazione musicale generalista, indistinguibile e di bassa qualità, e dovrebbero tornare a pagare e curare molto più i loro dj, gli unici capaci di fare la differenza rispetto a Spotify. Se voglio ascoltarmi la musica oggi uso Spotify, se voglio ascoltare la radio lo faccio perché lì dentro quella scatola ho trovato un uomo o una donna intelligenti del cui pensiero e della cui ironia ho bisogno.

 

Una radio che trasmette un flusso musicale, anche tematizzato, non ha nessun vantaggio rispetto a Spotify e non appena in auto sarà possibile ascoltare anche Spotify le radio musicali perderanno anche la loro ultima rendita di posizione. L'unica soluzione è umanizzare la musica e creare comunità di ascoltatori attorno alla musica: il filtro, il curatore umano e intelligente e le relazioni sociali che nascono grazie alla musica sono gli unici due motivi che rendono la radio preferibile a Spotify come mezzo per ascoltare la musica.

 

Altre soluzioni per rendere la produzione culturale, non solo musicale, più sostenibile in un'economia di rete, sono in continua ridiscussione. A Doppiozero avevamo parlato di quella proposta da Philippe Aigrain, appunto. Ma di schemi compensativi ce ne sono molti. Il dibattito è aperto e siamo solo all'alba di una nuova economia.

 

In ultimo, i musicisti dovrebbero sempre più essere in grado di sfruttare le reti digitali, non solo i servizi di streaming, per costruire e curare il proprio pubblico, perché in un'economia digitale la moneta corrente è la reputazione. Una buona reputazione permetterà una mobilitazione più immediata e più appassionata del proprio pubblico. Costruire e alimentare onestamente l'affetto del proprio pubblico è l'unico investimento redditizio in un economia basata su reti sociali digitali.

 

Amanda Palmer del duo Dresden Dolls ha raccolto quasi un milione di euro tramite Kickstarter e i brani auto-pubblicati da Sufjan Stevens su BandCamp l'hanno catapultato nella classifica degli album più venduti di Billboard.

 

Dal crowdfunding dei dischi (Indiegogo, MusicRaiser ecc...) al self publishing musicale (SoundCloud; Mixcloud; BandCamp ecc...) al contatto col pubblico attraverso i social media, assistiamo ad uno spostamento dell'asse del pubblico, che diventa sempre più produttore. Nel caso della musica, il pubblico assume sempre più il ruolo dell'editore e del produttore, arrivando a co-finanziare un disco in crowdfunding o a commentarne i promo su SoundCloud.

 

Una strategia on air (radio), on line (Spotify e i social media) e on site (i concerti) è ancora l'unica strategia possibile per sopravvivere come musicisti alla transizione da un'economia della scarsità ad un'economia affettiva/reputazionale/ basata sull'abbondanza e sulle connessioni sociali.

 

Dovremmo sentirci in colpa ad ascoltare Bill Callahan su Spotify quindi? Non se poi lo andate anche a vedere dal vivo e contribuite all'uscita del suo prossimo disco.

 

C'è molta più soddisfazione ad ascoltare il nuovo disco del tuo musicista preferito e poter dire: “se è uscito è anche un po' merito mio”.

 

p.s.

Questo articolo è stato interamente scritto ascoltando il nuovo disco di Bill Callahan, Dream river, su Spotify.

 

@tbonini

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