La stoffa dei sogni
La Festa del Cinema di Roma, diretta da Antonio Monda, è iniziata il 13 e il 14 ottobre 2015 con le anteprime di due film che, in modo diverso, hanno a che fare col teatro: il primo è A Midsummer Night’s Dream di Julie Taymor, eccellente ripresa per il grande schermo dello spettacolo teatrale andato in scena nel 2013 al Polonsky Shakespeare Centre di Brooklyn, nell’allestimento della stessa Taymor (2.400.000 dollari); il secondo è La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu (Paco Cinematografica), che adatta per lo schermo non una, ma due e, a ben guardare, tre opere di teatro: La tempesta di Shakespeare, utilizzata anche nella traduzione in napoletano antico di Eduardo De Filippo, e L’arte della commedia dello stesso Eduardo. Il primo è un film che non adatta il testo di Shakespeare, ma riprende, con dovizia di attrezzature steadycam e telecamere posizionate ai vari livelli in cui si svolge l’azione, uno spettacolo che fa ricorso a tutti i mezzi, tradizionali e nuovi, antichi e ultramoderni, per avvicinare il pubblico di oggi al testo shakespeariano, riproposto senza tagli.
Detenuti al lavoro. Scena dal film La stoffa dei sogni, 2015, regia di Gianfranco Cabiddu
Il secondo film è, come si è detto, una riscrittura, che trasforma la materia teatrale in un soggetto cinematografico originale. La sceneggiatura, eccellente, è firmata, oltre che da Gianfranco Cabiddu, da Salvatore De Mola e Ugo Chiti. Si è trattato ovviamente di un lavoro complesso, che ha avuto diverse elaborazioni, a partire dalla definizione dei temi fino all’orchestrazione finale. Il contributo di Chiti, drammaturgo e sceneggiatore, è stato fondamentale nell’individuare le linee centrali dei testi teatrali e ricomporne la tessitura in una “stoffa” nuova, in un nuovo disegno, che trae dalle opere di teatro quel tanto che basta per arricchirsi del loro prezioso contributo, ma resta una narrazione originale, che non si fa imbrigliare e trattenere dal ritmo e dal passo del teatro, anche quando ne mostra in azione la potenza. Le tematiche, le situazioni, le metafore dei testi sono infatti trasferite in una storia raccontata, prima di tutto, attraverso le immagini, e arricchita dal contesto nuovo in cui la vicenda è ambientata, l’isola-carcere dell’Asinara, alla cui guida c’è un direttore che è, al tempo stesso, come il Prospero della Tempesta, un po’ carceriere, un po’ recluso e che ha una figlia adolescente, Miranda, assetata di libertà. Delle parole che formano la sostanza dei testi teatrali a cui il film si ispira resta ben poco, ma quei testi vengono usati sia per costruire la struttura del film, sia come elementi di una narrazione di secondo grado. Un esempio renderà forse le cose più chiare. La tempesta con cui comincia l’opera di Shakespeare, nel film di Cabiddu non fa più naufragare sull’isola il re di Napoli e vari personaggi di corte, tra cui l’usurpatore del ducato di Milano, fratello del legittimo duca Prospero, ma un gruppo di camorristi, destinati al carcere dell’Asinara, che sotto minaccia di morte costringono i comici di una sparuta compagnia di “scavalcamontagne”, naufraghi anch’essi, a farli passare per attori. Il direttore, quindi non è più in grado di capire chi siano gli attori e chi i malavitosi. È questa, sia pure con qualche variante, la situazione dell’Arte della commedia, in cui il prefetto di una cittadina di provincia, appena insediato, non riesce a capire se quelli che vengono a conferire con lui per le ragioni più strane siano attori che si spacciano per qualcun altro o persone dall’identità reale. Nel film, il direttore del carcere, omologo del Prospero shakespeariano, ma anche del prefetto dell’Arte della commedia, fa recitare alla compagnia La tempesta di Shakespeare, convinto di poter smascherare con quel mezzo i camorristi.
Un momento delle prove
L’operazione, che sulla carta avrebbe potuto scoraggiare anche il produttore più intrepido (il progetto comunque è in cantiere da una ventina d’anni), è perfettamente riuscita, grazie a una serie di requisiti che fanno di questo film un prodotto originale e interessante, frutto non di virtuosismi registici e trovate decorative, ma di un lavoro serio, ben calibrato, di un mestiere che raggiunge la dimensione poetica senza presumerla a priori.
Oltre a sceneggiatura e regia, un punto di forza del film è naturalmente il contributo degli attori, bravissimi, che hanno il pregio della varietà. Non appartengono tutti a una stessa “parrocchia”, ma vengono da esperienze professionali, da generi e stili recitativi diversi: Francesco Di Leva e Ciro Petrone, attori “camorristi” di Gomorra; Renato Carpentieri, boss intellettuale e filosofo; Jacopo Cullin, un Ariel in divisa che anela alla libertà; Sergio Rubini, capocomico e “regista” (ruolo che ricopre anche nella realtà) alla testa di una micro-compagnia di comici (Teresa Saponangelo e Nicola di Pinto, oltre alla deliziosa Anna Paglia); e naturalmente il direttore di Ennio Fantastichini, rappresentante dell’autorità e amante del teatro; per non parlare poi dello straordinario Fiorenzo Mattu, interprete di Calibano, un personaggio difficilissimo da rendere, a teatro e al cinema, che qui mostra il lato più autenticamente poetico della sua condizione di “selvaggio” isolano colonizzato, che non ha imparato, come il Calibano di Shakespeare, a maledire il colonizzatore con la lingua che quest’ultimo gli ha insegnato, ma è ancora in grado di parlare con la voce della natura, la natura meravigliosa dell’isola, esaltata dalla bella fotografia di Enzo Carpineta, che è un altro personaggio, non certo secondario, del film.
Renato Carpentieri
Ciascuno degli attori ha un proprio stile, un linguaggio, un accento particolare, che contribuiscono a dare corpo alla recitazione, evitando i rischi di una lingua omogeneizzata e artificiale, e consentendo di non connotare in modo preciso luogo e tempo della narrazione, ma di mantenerla in una dimensione sospesa e un po’ magica. Se i costumi ci dicono infatti che siamo attorno agli anni Cinquanta del Novecento, qualche altro segnale ci avverte che siamo in uno spazio e in un tempo dove possono succedere cose strane, dove la bacchetta regalata per ricordo dal capocomico al direttore sembra in grado di scatenare una nuova tempesta; o dove il capitano che abbiamo visto senza vita sulla spiaggia all’inizio del film (il cammeo è di Luca De Filippo), si trova di nuovo al timone della sua imbarcazione nella sequenza finale.
Il regista Gianfranco Cabiddu con Sergio Rubini
Il momento più emozionante della vicenda è sicuramente quello del teatro: le divertenti sequenze delle prove, piene di riferimenti non pedanti a Shakespeare e a Eduardo, e soprattutto lo spettacolo, povero, anzi poverissimo – retaggio di un mondo spazzato via dalla cultura pompier del Novecento –; uno spettacolo messo su con la stessa fantasiosa arte di arrangiarsi a cui si è fatto ricorso spesso anche durante le riprese del film: per esempio nella scena iniziale, in cui la cabina della nave è costruita con due pareti di legno e con il portellone di una cella frigorifera del carcere, smontato e rimontato dopo l’uso; o nella sequenza della pioggia, realizzata utilizzando un idrante antincendio della Guardia Forestale.
Ennio Fantastichini
Ma al di là della semplicità e povertà dei mezzi, il teatro rappresenta, come avviene anche in Shakespeare, una zona franca, dove l’impossibile è possibile; un gioco semplice, ma anche il luogo di misteriose rivelazioni. Così, in questo spettacolo di poveri guitti, non ci sono più comici e camorristi infiltrati, ma solo attori; e non è strano che Calibano, di fronte a quella esperienza nuova per lui che è il teatro, a quel linguaggio misterioso che gli intenerisce il cuore, si metta a parlare con la voce degli uccelli; e che uno dei detenuti ingaggiati per poter coprire i ruoli mancanti, dopo essere stato spinto in scena a forza ed essersi rifiutato di dire la sua battuta, si tolga la buffa maschera che lo nasconde e cominci a parlare, attraverso il suo personaggio, di sé, della propria condizione. E non è strano che a un certo punto, per un incidente, quella scena accroccata, puntata con gli spilli, precipiti, e con essa la finzione del teatro, rivelando di colpo la realtà del silenzioso colloquio d’amore di Miranda (Gaia Bellugi) e Ferdinando (Maziar Firouzii), due personaggi che non hanno bisogno di parlare perché si esprimono col linguaggio dei loro giovani corpi. Non è strano, se accettiamo l’idea che il teatro sia un luogo di rivelazioni (discovery place si chiamava nel palcoscenico elisabettiano quell’apertura centrale chiusa da una tenda, nella quale riapparivano personaggi scomparsi, avvenivano rivelazioni, le statue prendevano misteriosamente vita) e se diamo retta al capocomico eduardiano dell’Arte della commedia, secondo il quale, se qualcosa avviene sulla scena, qualcosa di analogo, nel mondo reale, o c’è già stato o ci sarà. Certo sarebbe bello che quella pacificazione, quel patto di solidarietà fra uomo e uomo e uomo, fra uomo e natura, di cui parla La tempesta, potesse realizzarsi davvero anche fuori dal palcoscenico... Ma se non può fare miracoli, il teatro può almeno far nascere desideri, far sentire bisogni, far immaginare qualcosa che non c’è, o non c’è ancora.
Lo spettacolo
In un momento di crisi e di derealtà come quello che stiamo vivendo, dove l’istinto della gente sta orientandosi decisamente verso il teatro, e non c’è scuola, carcere, parrocchia, centro anziani, gruppo di malati, che non lo pratichino, in cerca di un antidoto, di una qualche forma di cura, un film come La stoffa dei sogni è un lusso che non bisogna permettersi di perdere, non un film di nicchia, ma un film per tutti. E c’è da augurarsi che le nostre orecchie, piene delle risate di commedie divertenti che fotografano una realtà deprimente, o assordate dalle esplosioni e dagli spari di film e serie televisive di successo – prodotti che danno finalmente una boccata di ossigeno a un’industria cinematografica in crisi da anni –, riescano ad ascoltare anche la musica sottile e senza tempo di questo film sofisticato e semplice, impalpabile come la stoffa di cui sono fatti i sogni.