Dante Alighieri / Identità italiana
“L’Italia non fu fatta da re o capitani; essa fu la creatura di un poeta: Dante. [...] Non è un’esagerazione dire che egli fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele”. Così ebbe a scrivere Giuseppe Antonio Borgese. Comunque la si pensi sulle virtù profetiche del poeta di Beatrice, non c’è dubbio che la Commedia abbia svolto per gli italiani, soprattutto in età moderna, quella funzione civile di “Libro nazionale” che altrove – e non solo in Israele– è stata attribuita proprio alla Bibbia. E Dante, suo malgrado, quella di padre della patria, sebbene per lui la ‘patria’ fosse Firenze e lo stato l’impero.
Pertanto, giacché della Divina Commedia quale repertorio di italianità si è già fatto grande uso (se non abuso), nella congerie di possibilità che il capolavoro dantesco offre, nonché nella ridda di suggestioni interpretative più o meno fondate che continua a suscitare, forse può essere più utile limitarsi a rinnoverare quei passi del poema, di durevolissima fortuna, dai quali sono stati ricavati sintagmi divenuti letteralmente idiomatici per connotare l’Italia.
Questa topica essenziale comincia, nel canto proemiale, con un ‘fraintendimento’:Virgilio, citando se stesso, appella l’Italia “umile”(dittologia poi notoriamente ripresa, tra i tanti, da Pasolini): l’aggettivo discende dall’equivoca interpretazione di un passo dell’Eneide: “humilemque videmus/Italiam”, dove evidentemente humilem vale bassa, in senso per così dire orografico e non qualitativo. Ma per Dante quell’umile implica anche una cruciale questione etica e stilistica, per comprendere la quale sarebbe forse più opportuno rileggere la Lettera a Cangrande della Scala che non le Ceneri di Gramsci.
Inferno, I, vv. 91– 111
“A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ‘l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.
Dal repertorio dantesco proviene anche la celebre endiadi “bel paese”. Il primo a riprenderla sarà Petrarca nel Canzoniere, ma la sorte fausta di questa coppia di parole – piuttosto banalotta, a ben pensarci, se isolata dal contesto – attestata in pagine memorabili come quelle della Vita di Alfieri (“Ci parve di rinascere il dì che ci ritrovammo nel bel paese qui dove il sì suona”) verrà rilanciata, cinque secoli e mezzo dopo, da un libro che avrà un’importanza cruciale nella formazione nazionale degli italiani moderni -finalmente divenuti tali anche in senso anagrafico: Il bel paese di Antonio Stoppani. Passando da una marca di formaggio ancora in commercio (nella cui confezione, oltretutto, spicca il ritratto dell’abate Stoppani e alla quale Maurizio Cattelan si è ispirato per un’istallazione al Castello di Rivoli, ovviamente intitolata “Il Bel Paese”), nonché per il titolo di un film non memorabile di Luciano Salce con Paolo Villaggio, del 1977, “bel paese”è tutt’ora una delle antonomasie più in voga per nominare, sovente con implicita antifrasi, l’Italia.
Occorrerà ricordare che il Dante personaggio prorompe in questa invettiva dopo aver ascoltato l’orroroso racconto di Ugolino: insomma, non era propriamente un birignao da editorialista corrucciato, il suo.
Inf., XXXIII, vv. 79– 90
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Che se ‘l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata
e li altri due che ‘l canto suso appella.
Nella memoria scolastica degli italiani, probabilmente, l’Italia dantesca è quella “serva”e sottomessa: quella che di lì a qualche decennio Petrarca, memore di Dante, fisserà nella canzone Italia mia benché ‘l parlar sia indarno. Motivo abbondantemente rimaneggiato nei secoli successivi, questo del compianto della nazione (nel Cinquecento, per esempio, ci sarà un vero e proprio tripudio dell’Italia “meschina”, “serva”, “stolta”, “misera”, “infelice”, che inevitabilmente “piange” e “sospira”) e che si tramanda almeno fino al Leopardi di All’Italia e di Sopra il monumento di Dante (1818): canzone civile, quest’ultima, che suggella, con il rimando a un Alighieri finalmente innalzato a mausoleo nazionale, questo ciclo. Seguiranno, in epoca romantica, giornate e versi inneggianti finalmente “al nostro riscatto”.
Non è forse un caso, allora, che nella costruzione narrativa e scenografica del celeberrimo luogo dantesco, a suscitare le ire del poeta viandante contro l’Italia sia l’abbraccio fraterno di altri due poeti: Virgilio e Sordello. Quasi a prefigurare, in nuce, la cospicua discendenza letteraria che questi versi avrebbero generato.
Purg., VI, vv. 76– 151
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non m’accompagne?”.
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”.
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
(Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a c. Di Giorgio Petrocchi, Società Dantesca Italiana, Firenze,1994)