Speciale
Milano (Stazione Centrale)
Agli inizi degli anni cinquanta, all’ultimo piano di un grande palazzo, proprio davanti alla Stazione Centrale di Zurigo, c’era il prestigioso Studio di grafica e fotografia Heineger & Müller-Brockmann. Quel luogo era spesso frequentato dal geniale grafico Max Huber (1919-1992) che, dal 1940, si era stabilito a Milano, dove collaborava con lo Studio Boggeri (fondato nel 1933: una sorta di Bauhaus italiano), studiando contemporaneamente all’Accademia di Brera, in contatto con Bruno Munari e Albe Steiner. Dopo aver curato la grafica dell’Einaudi e di Borsalino, nel 1950 Huber aveva iniziato a lavorare con la Rinascente, per il suo avveniristico Ufficio sviluppo. Dopo aver progettato il loro bel logo si occupò della pubblicità e dell’allestimento delle vetrine. Fu lui a convincere il ventiseienne fotografo polacco-svizzero Serge Libiszewski, che lavorava da tre anni nello studio di Zurigo, a trasferirsi a Milano, città allora apertissima a tutte le novità: «Che fai qui a Zurigo? A Milano c’è bisogno di bravi fotografi, in Rinascente trovi le porte aperte!».
Così, il giovane Libis (come si faceva già chiamare allora), non appena ricevuta l’allettante proposta di contratto dalla Rinascente (100 mila lire al mese: un operaio ne guadagnava 25 mila), fece i bagagli e partì, con un visto di lavoro per tre mesi. Aveva con sé due grosse valige e un baule con gli apparecchi e il materiale fotografico.
Dalla Stazione Centrale di Zurigo alla Stazione Centrale di Milano, Libis fece il viaggio all’incontrario rispetto al grande flusso di lavoratori italiani che cercavano un’occupazione dignitosa in Svizzera. Arrivato alla tutankamica stazione di Milano consegnò i suoi bagagli, come si usava allora, a un facchino che lo avrebbe raggiunto, usando gli appositi montacarichi, all’uscita. Libis trascorse un quarto d’ora di grande agitazione: non vedendolo arrivare, immaginò che gli avesse rubato tutto e che il suo primo contatto con l’Italia fosse all’insegna di una cattiva stella. Quando finalmente il facchino si presentò, riprese fiducia e gli chiese di indicargli un albergo lì vicino, non troppo costoso. Attraversarono assieme il piazzale dove stava sorgendo il bel grattacielo di Gio Ponti. Libis rimase colpito dalla bruttezza e dalla tronfia retorica della Stazione Centrale (venne poi a sapere che, a quel tempo, si accarezzava ancora il progetto di “nasconderla” dietro un muro di alti palazzi).
In fondo a sinistra, dietro al maestoso Albergo Gallia (famoso perché, tra l’altro, vi si svolgeva l’annuale mercato dei giocatori di calcio), oltre la strada, entrarono in un piccolo ma dignitoso albergo. Gli dettero una camera al terzo piano con la finestra che dava sul retro e si affacciava su un altro scalo ferroviario: la Stazione delle Varesine. Era questo il nome con cui veniva comunemente chiamata la Stazione di Porta Nuova, costruita nel 1931 su una propaggine della Stazione Centrale. Nel 1961 fu dismessa, a causa dei lavori di costruzione della nuova Stazione di Porta Garibaldi (inaugurata nel 1963). Al suo posto rimase per anni un desolato sterrato con al centro una spelacchiata collinetta dove c’era il più malinconico Luna Park del mondo: quello delle Varesine, appunto.
Era il lunedì 30 aprile del 1956. Libis contava di sistemarsi e iniziare puntualmente il suo lavoro il giorno successivo. Non aveva calcolato che, essendo martedì il primo maggio, in Italia ci sarebbe stato un “ponte” (termine e fenomeno a lui sconosciuto) per la festa del lavoro. Così, forse anche per l’emozione e il timore della nuova città quasi deserta, per un giorno non mise il naso fuori dalla stanza.
Quando si fece buio e accese il lampadario di porcellana, che calava dal soffitto, vide la sua immagine riflessa sul vetro della finestra, come in uno specchio. Si disse: «Adesso comincia una nuova vita: voglio fissare questo momento per ricordarlo». Cavò fuori dal baule la Rolleiflex, col rullino da dodici foto, e scattò la prima immagine. Un giovane bruno, camicia immacolata abbottonata fino al collo, seduto sul letto con la macchina davanti alla pancia. Una sorta di selfie che però non poteva essere condiviso da nessuno, in quel momento.
La mattina seguente, fece la seconda foto, pressappoco nella stessa posizione. Ma, per un gioco di luci causato anche dall’apertura dei vetri, il soggetto si smaterializzò, divenendo quasi trasparente, come un fantasma. Quasi che la vita e la morte stessero sospese tra quelle due foto, all’inizio e alla fine di una notte incerta di un giovane svizzero dalla complicata identità. Discendente da una famiglia di piccoli nobili polacchi fuggiti dagli invasori russi nel 1848, che avevano cancellato rapidamente, già con suo padre, grafico-illustratore, figlio di un pittore-decoratore, la lingua e la memoria del loro passato. Ricordando oggi quel momento, Libis, che da più di un ventennio si è ritirato nei colli piacentini dedicandosi all’agricoltura, confessa, con un timido sorriso: «È l’unica volta che sono stato patetico con me stesso. Non ho mai fotografato né figli né parenti».
ph. Serge Libiszewski
In quell’occasione Libis scoprì un segreto che terrà ben presente in tutta la sua attività di fotografo: «Il condimento della foto è quello che si introduce a nostra insaputa». Ed è allora che scattò la terza e ultima, stupenda, foto. Dalla finestra della sua camera fissò la scena di sette ragazzini che, nel polveroso cortile, giocano a pallone. Oltre il muro, che divide esattamente a metà l’immagine, coglie uno sgangherato treno dimenticato tra i binari morti della Stazione di Porta Nuova. I palazzi circondano il tutto con le loro incombenti alte ombre e chiudendosi sullo sfondo come a inghiottire il binario che va a perdersi verso un moderno grattacielo. Si era in pieno periodo del Neorealismo: quella foto quasi casuale, che sarebbe piaciuta a Pasolini per il contrasto tra la città moderna e la semplicità di un mondo che da essa verrà cancellato, fissa esemplarmente un’epoca.
Poi, nel 1962, dopo aver lavorato nell’Ufficio pubblicità della Rinascente, Sergio Libis (col nome ormai italianizzato) aprì il suo studio professionale, dedicandosi alla fotografia still-life, al ritratto, alla moda e all’immagine pubblicitaria in generale. Le sue campagne fotografiche commissionate da Olivetti, Pirelli, Alfa Romeo, Giorgio Armani e Prenatal, che lo videro artefice come un regista sul set, furono di grande immediatezza e sorprendente freschezza. Negli stessi anni le sue copertine per la rivista «Annabella» e i suoi manifesti fecero scuola.
Le foto di Libis sono bellissime, vivaci, espressive, a tratti spensierate. Grazie a lui la foto di moda cambia infatti radicalmente paradigma: arditi accostamenti sempre improntati a un grande rigore formale e alla sobrietà stilistica. Lo studio fotografico esce dalle quattro mura e invade la strada, gli spazi pubblici. Con i suoi scatti coglie frammenti di vita e li fissa sulla carta patinata. Le foto dei soggetti, dalle pose spontanee, sono eleganti e graficamente ben strutturate. Libis rappresentò una donna vivace, sportiva, pronta a sedurre, documentando così il grande cambiamento di ruolo che stava avvenendo nella società fra gli anni sessanta e settanta.