“Arrival” / Lo scrittore è un calamaro
In Arrival, il bel film che Eric Heisserer, come sceneggiatore, e Denis Villeneuve, come regista, hanno di recente tratto, con qualche necessaria libertà, dal racconto Stories of your life di Ted Chiang (ne ha già scritto su “Doppiozero” Sergio Di Lino: Cerchi e palindromi), gli alieni paiono enormi calamari. A differenza di quelli del pianeta Terra, i cefalopodi alieni hanno sette tentacoli ed eptapodo è conseguentemente il nome che film e racconto assegnano alla lingua che fa da nocciolo tematico della narrazione. Sono peraltro sette anche le dita, per dire così, con cui (nel film ma non nel racconto) si aprono le estremità dei loro tentacoli in momenti cruciali dei processi comunicativi con gli esseri umani.
Sulle prime, la protagonista, che fa di nome Louise Banks, tenta come linguista di intendere la “ratio” dell’eptapodo. Sopra tale suo carattere professionale ha molto insistito chi ha parlato del film. Si vive del resto in una temperie che nel (presunto) esperto venera uno dei suoi feticci. Non deve essere parso vero potere celebrare, con l’occasione, un’ulteriore “professionalità” che va peraltro oggi per la maggiore, in Italia.
A conoscenza di chi scrive, nessuno ha notato invece che, quando in conclusione il personaggio cui dà le sue sembianze la brava Amy Adams riesce nell’impresa, vi riesce semplicemente come intima ‘parlante’. Si immerge infatti nell’eptapodo e ne viene profondamente intrisa, fino a farne un elemento della sua “Erlebnis” (l’italiano “vissuto” o il francese “vécu” non ne rendono il valore; lo fa meglio lo spagnolo “vivencia”, osservò Jorge Semprún: sulla questione capiterà di tornare). Dottrina e professione ne risultano trascese. Ai nastri di partenza, Louise Banks è una linguista – e in uno stato di risentimento, se non proprio in collera con il mondo. È invece un sereno essere umano che vive dentro sé la lingua aliena a toccare infine il traguardo di una dolorosa consapevolezza.
La prospettiva è ispirata da un’acquisizione cruciale per lo sviluppo del pensiero moderno, di quello, naturalmente, più consapevole e riflessivo. E non solo in riferimento alla lingua, ma la lingua è quanto qui preme e di altro non si dirà, se non in quanto correlato all’esperienza linguistica.
La lingua dà forma a ciò che gli esseri umani pensano e percepiscono, in quanto parlanti e ancora prima di acquisire, in proposito, qualsiasi competenza dottrinale, la linguistica inclusa. Nelle sue diverse e variabili declinazioni, essa dà quindi forma al modo con cui gli esseri umani istituiscono il mondo intorno a se medesimi e si concepiscono in esso.
In proposito, già nei primi decenni dell’Ottocento, scrisse pagine splendenti Wilhelm von Humboldt. Si riflessero, un secolo dopo, in quelle di Edward Sapir, arricchendosi di ulteriori bagliori. Non si tratta di un’idea semplice, si badi bene. La si traspone in un facile relativismo linguistico, con esemplificazioni soprattutto semantico-referenziali e apparentemente sostanziate nel lessico (neve, colori e altri luoghi comuni). Lo fa una divulgazione tanto sussiegosa quanto a buon mercato. Più che divulgare, essa involgarisce ciò che tocca. Racconto e film hanno quindi tutta l’aria d’essere migliori delle prose che li hanno presi a pretesto per rinfocolare simili banalità.
Essi paiono appunto costruiti intorno all’idea di una “innere Sprachform”: nel modo appropriato alle opere d’invenzione, ovviamente, diverso da quello del saggio scientifico o filosofico. E la storia si conclude appunto con l’accesso di Louise Banks a una nuova consapevolezza: l’avere introiettato l’eptapodo le consente di acquisire un punto di vista diverso da quello di una linearità temporale che procede dal passato verso il presente e dal presente verso il futuro. Cos’è d’altra parte una lingua se non un punto di vista? E cos’è un punto di vista se non la metà correlativa di ciò che molti, credendola intera, chiamano realtà con un’ingenuità che sarebbe toccante se non fosse il più delle volte violenta e prevaricatrice?
Alla protagonista non diventa tutto presente: così è capitato di leggere in alcuni scritti di commento al film. “Presente” resterebbe infatti un tempo. Per lei, invece, tutto diventa attuale. E si tratta appunto di una prospettiva modale, non temporale. Tutto, per lei, si presenta d’improvviso sotto il modo attuale. E come attuale Louise Banks vive (dolorosamente) la sua intera “Erlebnis”.
Lo si precisa dal momento che sta qui, concretamente, uno degli snodi concettuali e narrativi intorno al quale ruotano racconto e film. E, di nuovo, sembra che sopra tale snodo si sia sorvolato. In effetti, la storia deflette rapidamente dalla prospettiva di individuare l’“innere Sprachform” nell’aspetto acustico dell’espressione, tanto dell’aliena, quanto dell’umana. Non è parlando con gli alieni e ascoltando la loro parola (se così si può dire) che la protagonista riesce a penetrare nel nocciolo generatore della loro espressione. Come mai?
Anche la fantasia umana che presiede alla composizione di un racconto di fantascienza, anche la fantasia umana più fantasiosa trova lì un limite: umano. Fuori del tempo, l’acustico linguistico non si dà. Il limite è appunto quello della linearità: concetto ovviamente d’ordine temporale e non spaziale. In essa Ferdinand de Saussure aveva appunto individuato un carattere intrinseco dell’espressione umana. Con impeccabile ragionevolezza, racconto e film tengono conto di tale limite. Si dirà che (come si è appunto appena osservato) non avrebbero potuto fare diversamente. Sapere come superare gli ostacoli opposti dalla materia, anche dalla materia del racconto, è però uno stigma dell’arte.
Racconto e film escludono di conseguenza ogni aspetto acustico e non si dilungano sulla lingua parlata (il film, a dire il vero, ancora meno del racconto). Portano invece in primo piano l’eptapodo scritto. Sottilmente, il racconto parla in proposito di un eptapodo B, dalla grammatica diversa da quella dell’eptapodo A. Proprio quanto al processo con cui l’eptapodo si realizza come lingua scritta accade però che racconto e film divergano crucialmente.
Quanto alla scrittura, gli alieni del racconto sono infatti banalmente tecnologici: ficcano un tentacolo
nel piedistallo di una sorta di televisore a schermo piatto e sullo schermo compare ciò che scrivono e che viene definito un logogramma. Fanno una cosa molto diversa e integralmente naturale, se così si può dire, gli alieni del film. Paiono calamari e, del calamaro, hanno il carattere intuitivamente pertinente, per uno spettatore umano: spruzzano un inchiostro. Lo fanno dall’estremità di un tentacolo che nell’occasione si apre (sopra lo diceva) nelle sue sette dita. Così si esprimono, si potrebbe dire, in termini peraltro strettamente etimologici: ‘premere per fare uscire’.
Sulle prime, l’inchiostro spruzzato pare diffondersi come lo farebbe in un liquido, per poi comporsi in circonferenze perfette, dai bordi interni e esterni, però, variamente sfrangiati: ecco un modo grafico per sterilizzare l’idea intuitiva di linearità. La trovata è ovviamente orientata anche a rendere il racconto visivamente più interessante e spettacolare. La sua portata narrativa è tuttavia di grande rilievo. Ha infatti un carattere simbolicamente sistematico e incide profondamente nell’interpretazione di ciò che viene narrato. Forse, dà al film valori che il racconto non ha. Non li ha o deve rinunciare ad averli. Se li avesse evocati, sarebbe diventato troppo esplicito e quindi corrivo. Insomma, come del resto si sa, un’immagine esprime il suo valore segnico meno mediatamente di come lo faccia una parola. Tale immediatezza è però già per se stessa figura e ha di conseguenza la preziosa vaghezza che si richiede all’allegoria. E qui di allegoria apertamente si tratta: una figura che lo spirito d’oggi fa fatica a elaborare, assuefatto com’è al più facile processo mentale richiesto, in senso stretto, dalla metafora.
Si noti di passaggio, a questo punto e anche solo per divertimento, che lo spruzzo sostanzia la figura da cui forse origina l'inglese “squid”, ‘calamaro’, sempre che di figura si tratti e che la parola abbia appunto una parentela con “squirt”: nell'incertezza, vagamente così pare si ipotizzi. La proprietà di contenere inchiostro sostanzia d'altra parte la figura da cui origina (e qui si è certi) il nome romanzo del mollusco. Esso è ovviamente un allotropo di “calamaio”, dal latino “calamus”, ‘penna per scrivere’, con quel diverso esito di superficie che distingue nelle parlate italo‑romanze “notaro” e “notaio”. Viene qui fuori, come comparazione formale, un esempio che torna (solo accidentalmente: ma che importa?) al tema dell’annotazione, quindi della scrittura, e al tema connesso della memoria e della consapevolezza.
Non accidentalmente, del resto, tali temi sono qui richiamati, a questo punto per avviarsi a concludere. Per via allegorica, si scopre infatti che la favola illustra il ruolo (ancora pieno di contenuti arcani) della scrittura e, in modo correlato, di chi la pratica consapevolmente: lo scrittore.
Lo scrittore spruzza il proprio inchiostro: si esprime. Lo dice l’ambigua parola che, nel film, porta quasi la storia verso un esito catastrofico: “arma”. Chiuso l’evo aureo della tradizione orale di una consapevolezza umana ultra-temporale, lo scrittore mette tecnologicamente e ideologicamente all’opera l’“arma” che toglie valore al tempo. Altrimenti, a un dispotico governo del genere sarebbe irrimediabilmente condannata la parola dell’umanità. Poco importa allora che cognizione e consapevolezza che ne conseguono siano impietose e, talvolta, dolorose. È il loro valore, per se medesimo, che conta.
Capita appunto così a Louise Banks in una scena cruciale della pellicola. Dall’immersione viene fuori profondamente mutata. Ciò che raggiunge la sua coscienza non è quanto ha vissuto o vivrà: così ha detto un’interpretazione banalmente e paradossalmente realistica del film, correlata a un’idea ingenua del tempo linguistico. È invece la sua vita tutta attuale, nel modo ultra-temporale proprio nella scrittura e nella narrazione. Ed è già questa una bella illustrazione del pretesto linguistico di ciò che il film racconta, con il sentimentalismo (tendente al funebre) tipico dei tempi e quindi contestualmente scusabile. Non c’è storia che non sia, per via della sua esistenza medesima, storia del raccontare storie e del modo di raccontarle.
Lo scrittore dota allora chi si intride della sua espressione dell’arma che subordina il tempo al modo. Lo mette in grado di avere una diversa cognizione della sua esperienza, di renderla attuale, al di là del tempo. C’è qualcosa in Tacito che non sia attuale? O in Montaigne? E il merito di Primo Levi non è nell’avere prospettato come attuale la sua “Erlebnis”? Ecco tre casi esemplari di calamari alieni. Chi vuole arricchisca il campionario, ma lo faccia con ironica cautela. E, visto che dello scrivere alfine si tratta, tenga presente la distinzione proposta da Roland Barthes. Da non confondere con l’“écrivain” è l’“écrivant”. Di scriventi, non di scrittori sono infatti pieni i mercati della scrittura. Proprio come quelli ittici sono pieni di totani che, agli ignari della differenza, vengono bellamente spacciati per calamari.