Superman a Tor Bella Monaca / Lo chiamavano Jeeg Robot

11 Marzo 2016

Sul finire degli Anni Settanta, in concomitanza con l’avvento del colore nelle trasmissioni televisive in Italia, iniziò la cosiddetta “invasione” dei cartoni animati giapponesi, importati nei palinsesti dei canali pubblici e privati. Erano la novità esotica del momento e, come spesso avviene dalle nostre parti, si passò rapidamente dalla chiusura totale all’apertura totale. Prodotti interessanti e scadenti, senza alcuna distinzione di sorta, segnarono i pomeriggi di almeno un paio di generazioni. Negli Anni Novanta arrivarono i manga, i fumetti giapponesi, secondo un processo inverso a quello che avveniva in madre patria, dove i soggetti di maggior successo passavano dalla carta all’animazione. La generazione che era cresciuta con i cartoni del Sol Levante poteva approfondire la propria passione ritrovando i propri eroi su fumetto. Non erano i primi fumetti “stranieri” a essere tradotti e distribuiti lungo lo Stivale, da alcuni decenni accadeva già con i comics americani della Marvel e della DC, ma con differenti cifre di diffusione. I supereroi erano noti ma non avevano ancora l’attuale esposizione mediatica, mentre serie come Dragonball raggiunsero numeri di tiratura e ristampe simili agli albi bonelliani come Tex o Dylan Dog.

 

Quello italiano è un mercato cinematografico difficile. Ancor prima che per le dimensioni di pubblico, per la pirateria o per il prezzo del biglietto, per ragioni produttive e finanziarie. Fare film in Italia è sempre più difficile, manca una vera e propria industria, manca ciò che un tempo raccoglieva produzioni, autore e maestranze (Cinecittà, ovviamente, oggi per buona parte solamente più sede di set cinematografico); manca, ancora, un sistema in grado di sorreggere i film d’autore con altri di genere, come un tempo accadeva con gli spaghetti-western, i peplum, i poliziotteschi, i musicarelli... Vale a dire, la via italiana al modello hollywoodiano.

 

Queste due premesse storiche sono necessarie per introdurre il discorso su Lo chiamavano Jeeg Robot, pellicola d’esordio di Gabriele Mainetti che segna sia il ritorno di una via italiana al cinema di genere, sia la definitiva consacrazione mainstream di un immaginario collettivo connotato dalle produzioni nippo-americane. Il regista, coadiuvato dal fedele sceneggiatore Nicola Guaglianone, ha scelto consapevolmente di usare i canoni narrativi e tematici delle opere che hanno segnato la sua infanzia, inserendole in un contesto decisamente italiano, anzi romano. È un po’ lo stesso meccanismo che i due avevano intrapreso per i corti Basette e Tiger Boy, e che qui trova pieno compimento in una pellicola matura e priva di sbavature.

Lo chiamavano Jeeg Robot è un film di genere, ma di che genere si tratta? Uno tutto nuovo, nato dalla stratificazione e sedimentazione dei precedenti. Ecco allora che i dogmi del genere supereroistico a stelle e strisce vengono tutti a galla nello sviluppo della trama, e maneggiati con la sapienza ortodossa del fan di lunga data. Abbiamo il protagonista disagiato che riceve dei superpoteri in maniera del tutto casuale, che all’inizio non sa cosa farne e prova a sfruttarli per guadagnarci, un’evoluzione che ricorda molto quella dello Spiderman di Stan Lee. Abbiamo poi un villain sopra le righe, un eccentrico schizoide che si nutre solo di fama e potere, e che nel corso del film finisce pure sfigurato. Qui i rimandi sono tutti per il Joker, l’acerrimo antagonista di Batman.  

 

Ma non siamo di fronte a una mera emulazione di Hollywood. Sia all’interno del titolo (che per alcuni è stato anche fuorviante), sia nel corso delle scene, la citazione-manga è importante e decisiva. E non è un caso che tra i tanti eroi animati che hanno segnato Mainetti (nonché il sottoscritto) sia stato scelto proprio Hiroshi Shiba, colui che, “cuore e acciaio”, può diventare Jeeg. All’interno dell’universo Nagaiano è forse quello che meglio interpreta l’identificazione tra uomo e robot, proprio perché egli stesso è parte integrante e necessaria alla costituzione di Jeeg Robot. Hiroshi è stato trasformato dal padre in un cyborg a sua insaputa, e inizialmente rifiuta il ruolo di eroe che gli è stato assegnato, proprio come l’Enzo Ceccotti del film, che continua a rubare, mangiare yogurt e guardare porno come faceva prima. Il tema del sacrificio, che permea gran parte dell’animazione giapponese, diviene trainante nella seconda parte della pellicola, quella in cui il protagonista accetta di essere Hiroshi, non soltanto agli occhi di Alessia, la giovane vicina di casa che passa le sue giornate ad assistere alle battaglie in DVD tra Jeeg e la regina Himica.

 

Gli ingredienti tematici sono questi, e la declinazione romana fa il resto. Mainetti pesca nell’attualità (Mafia Capitale, il pericolo attentati) e lo fa aiutandosi con un immaginario cinematografico già lastricato da opere come Romanzo Criminale, Gomorra e Suburra. Lo spettatore non può essere stupito di vedere Roma raccontata in questa maniera, né dell’ambientazione di Torbellamonaca o del dialetto romanesco. La sapienza del regista è nel dosare questi accenni di realismo all’interno di un contesto votato all’intrattenimento puro, con punte d’ironia e dramma immersi nel grottesco. Il cattivone con un passato da corista a Buona Domenica che canta Un’emozione da poco al karaoke o che compie una mattanza riprendendosi con il cellulare è esemplare della ricerca stilistica di un’anormale normalità.

Sia chiaro, Lo chiamavano Jeeg Robot ha tutto per essere un caso e per restare un fulmine a ciel sereno. I cinque anni che sono stati necessari a Mainetti per produrlo sono un avvertimento per chi cerca di proporre alternative in un mercato che prevede soltanto film d’autore e commedie.

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