“Il più integerrimo” / Superlativo assoluto
Sulle bocche e sotto le penne dei sì-dicenti, circola non da oggi “il più integerrimo” (si ponga, “magistrato”), sulla scia del già meglio ambientato e quasi florido “il più acerrimo” (si ponga, “nemico”).
Testimone chi scrive, tempo fa, “il più integerrimo” apparve per esempio sulle labbra di un popolare giornalista. In tema di superlativi, proprio uno dei massimi del momento. Il suo “il più integerrimo” orale ebbe corso in una trasmissione che ha come bacino d’utenza la crema del pubblico televisivo. Lo dicono le opportune rilevazioni, che giustificano d’altra parte lo sbardellato compenso accordato al suo conduttore. Nei giorni che seguirono l’exploit, il sismografo delle reti sociali non segnalò movimenti: niente commenti irridenti o vibranti indignazioni. Ideologi del buon italiano, accademici di complemento tacquero.
Del resto, in proposito le grammatiche si sono già pronunciate per il fatto compiuto, tenuto conto dell’irregolarità delle forme coinvolte. Qui non si verserà una lacrima. La lingua del sì non sarà irrimediabilmente sfigurata da simili inezie. Non è il caso di intonare un mesto “De profundis”. Né c’è da temere, per l’inconsapevole miserrimo, che il suo angelo custode (dice di averne uno molto efficiente), mutandosi in angelo vendicatore, lo faccia cosciente d’essere così divenuto “più miserrimo”.
Col pretesto, è interessante osservare però che non c’è norma che non vada a gambe levate quando chi s’esprime non percepisce più cosa vale una forma. Accade quando tale forma si allontana dagli schemi di ciò che, nella lingua, è produttivo. L’andazzo, insomma, tollera le eccezioni ma solo fino al momento in cui non comincia ad averne abbastanza, dell’irregolarità. Forse anche per questo Roland Barthes se ne uscì con la famosa sparata di una lingua ineluttabilmente “fascista”: in proposito, “conformista” è invece la qualificazione necessaria e sufficiente. Per il massimo conformista, “integerrimo” non è più superlativo. Non resta che farsene una ragione: come di parecchio altro.
Poi, c’è la vita privata e quella parte della pubblica che, visto che capita di esprimersi, in qualche modo ne discende. Lì, chi ama l’eccezione e si diverte a coltivarla, può con discrezione tenersi cari i suoi superlativi irregolari, senza cedere, fin quando ce la fa, ai comportamenti corrivi. Con serenità. Sa che la lingua (come la vita) continuerà sempre a produrre irregolarità. È fatta così. L’andazzo ne elimina una, che gli è fastidiosa, e un’altra, imprevista, ne appare poco più in là, magari più fastidiosa: “Non si comprende come dalla pianura | spunti alcunché. | Non si comprende come dalla buona ventura | esca la mala. | Tutto era liscio lucente emulsionato | d'infinitudine | e ora c'è l'intrudente il bugno la scintilla | dall'incudine. | Bisognerà lavorare di spugna su quanto escresce, | schiacciare in tempo le pustole di ciò che non si appiana. | È una meta lontana ma provarcisi | un debito.” È il Montale satirico. Titolo del componimento? “La diacronia”. Chi, amando la lingua, ama farne occasione di riflessione, va in solluchero.