Filosofia, psicoanalisi e altre circoncisioni / Il gesto del sarto. Cosa può un taglio?

29 Gennaio 2017

«Cosa può un corpo?». Questa era la domanda che l’ebreo scomunicato Baruch Spinoza poneva come punto di partenza della sua monumentale architettura degli affetti, e che ad ogni passo insisteva nelle sue parole, doppiando e tagliando con un’urgenza elementare la geometria cristallina della sua opera. Non sappiamo neanche cosa può un corpo. La raccolta di testi curata da Gianluca Solla, Cosa può un taglio? Filosofia, psicoanalisi e altre circoncisioni (Orthotes, Napoli-Salerno 2016, pp. 142) riecheggia esplicitamente la domanda spinoziana, e tuttavia sembra spostarne altrove la questione, nel momento stesso in cui porta la propria attenzione sul taglio – e in particolare sullo specifico taglio della circoncisione –, vale a dire su qualcosa che si farebbe nel corpo, nella carne. È infatti attorno a questa parola, alla suggestione che lascia aperta, che ruota il carosello di testi i quali articolano, ognuno a suo modo, la domanda che non cessa di farsi nei pressi del taglio, e vanno così a comporre un panorama eterogeneo dove sarebbe vano cercare una risposta – che d’altronde non è nell’ottica degli autori, come non era in quella di Spinoza e forse nemmeno in quella della filosofia –, ma dove si ramificano e proliferano altri interrogativi e altre intuizioni.

 

Stando così le cose, diventa impresa assai ardua estrarre la cifra di un simile taglio o pretendere che un solo tessuto intrecci l’ombrello che questo significante spalanca disponendosi, nello stesso movimento, ad usi tanto differenti. Eppure, malgrado tutto, sembra di poter individuare due filoni nel susseguirsi degli interventi e delle scritture: due filoni che tuttavia non si delineano senza contaminarsi l’un l’altro, ma che anche – considerato ognuno dalla sua parte – sembrano caratterizzarsi da una scissiparità che quasi porta a una lotta intestina. Per brevità si potrebbe dire che si avvicendano una concezione del taglio intesa come incisione, cioè come una separazione che non arriva mai fino in fondo; e una come inscrizione, cioè come marca di trasformazione che non si opera senza il resto di una fissità di cui tale marca non può che essere il testimone.

 

Partendo da quest’ultima, è soprattutto la circoncisione antropologicamente indagata come ripetizione cosmogonica a prendere il sopravvento. Il taglio che si inscrive nella viva carne dei corpi da un lato ripropone la mitologia della creazione di un mondo o, per meglio dire, di un ordine del mondo; dall’altro permette l’accesso dei corpi inscritti in questo ordine, da cui prima di quel taglio – così irrilevante, in fondo, e al contempo tanto importante – erano esclusi. Ma così come il kosmos rimanda quasi per necessità a un logos in grado di esprimere la sua organizzazione, tale struttura d’iscrizione non si reggerebbe se già non additasse a una scrittura molto più profonda, molto più tragicamente inevitabile: il taglio appunto in-scrive, scinde il corpo da se stesso facendolo funzionare come un segno significante, e così lo destina al linguaggio, garantendo l’accesso a quello che Jacques Lacan – spesso citato nelle pagine della raccolta – chiamerebbe ordine del Simbolico.

 

Ph Francesco Jodice.

 

Rinunciando alla potenza proliferante di un corpo indifferenziato, il segno individua dei corpi determinati conferendo loro la possibilità di fare senso e di poter parlare, essendo ormai già “parlati” dal marchio che li significa e li consegna all’Altro. E talvolta è un testo specifico quello a cui vengono incatenati i corpi che così si producono: le tavole di una Legge, precipitato dell’operare congiunto di kosmos e logos, che fa del taglio istituzione e garantisce così le distribuzioni nella memoria condivisa fissata da un testo valido per tutti. Eppure tale scrittura di corpo avrebbe anche un’altra possibile interpretazione se si volesse riprendere quell’impenetrabile terzo capitolo de L’anti-Edipo il quale non è che la splendente riscrittura della Genealogia della morale di Nietzsche. Lì si scrive sui corpi, si tagliano i corpi attraverso una vera e propria tecnica e strategia della crudeltà, ma proprio per evitare di sottometterli a una Legge significante che infinitizzi un debito assoluto, e far sì che, al contrario, si frammentino dei debiti singolari, poiché un segno non sarà mai sostituibile con un altro di “pari valore”, in quanto il referente che dovrebbe garantirne l’unità di misura si perde in cento milioni di memorie sempre differenziantesi. Se sono segnati, questi corpi, lo sono in modo non-significante, come quel segno che è la madeleine per Marcel Proust, come quei graffi che vegliano sugli incontri sempre un po’ troppo violenti tra i corpi. E, d’altro canto, è un’operazione simile, seppur con riferimenti assai diversi, quella compiuta in uno dei testi più belli qui collezionati, a firma Davide Caliaro, il quale passa dall’uno all’altro aspetto per gradi quasi insensibili.

 

Che cosa incide il taglio, quando incide un corpo? Prima di tutto, si potrebbe dire, incide una materia. È tramite questa operazione che il corpo “si fa” a partire dalle vibrazioni di un puro flusso di materia che, se non fosse in qual modo inciso, non darebbe a vedere nulla. È questo un tipo di taglio che non può mai permettersi di arrivare fino in fondo, un taglio sul posto, una circoncisione che lungi dallo spezzare il continuum su cui opera, lo ripiega e consente lo stagliarsi di un’immagine, che lasci dietro un po’ di sé per potersi esporre. Un gioco di inquadrature e fuochi, per restare alla metafora fotografica che l’ontologia di Bergson – qui in questione – chiama in causa, per passare da un’immagine all’altra, da una percezione all’altra, senza permettere che esse si risolvano nel possesso di qualcuno o nella coscienza di un soggetto integro. E l’inquadratura in fondo non è che un ri-taglio di realtà senza cui lo sguardo non potrebbe fissarsi, ossessionarsi. È questo che succede, infatti, quando si abbandona la metafora esplicativa dell’ontologia e si cerca di penetrare nelle singolarità metamorfica di quelle vite che non si lasciano accidentalizzare e portano le proprie cicatrici a margine d’occhio, facendo così di ogni cicatrice «l’esperienza visiva di una contrazione, all’interno del presente vivente, di tutti gli istanti che da quella visione ci separano» (p. 68).

 

Proprio come il taglio può essere il “colpo d’occhio” di una macchina fotografica, così non c’è taglio che non sia visto nel suo essere già cicatrice o cicatrice vista nel suo essere ancora taglio, di modo che lo sguardo replica e accoglie in sé questa incisione, in una mise en abîme di taglio e occhio dove si mette in moto tutta una memoria autobiografica mai con se stessa coincidente. Forse non c’è emblema più grande, per restituire questo aspetto, di quel primo capitolo dell’Ulisse in cui Stephen Dedalus, completamente estraneo a ogni considerazione di ordine paterno, accoglie nei suoi occhi tutto il mare che gli si stende innanzi come la ferita della madre – genitivo oggettivo e soggettivo – che, già morta, non smette mai di divenire-morente in sua compagnia. Si potrebbe azzardare, per riassumere questo filone con dei rimandi più precisi ai testi della raccolta, Rocco Ronchi e Riccardo Panattoni: con e contro.

 

Che sia nella forma di un’emersione, di un distaccamento, di un’iscrizione o di un’articolazione, però, sembra che il taglio non si dia a pensare senza il necessario correlato del corpo, di cui pare essere un’affezione o l’affezione per antonomasia. Così come nessun corpo può lasciarsi cogliere senza l’incisione di un taglio che lo consegni, se non all’afferrabilità del concetto o della catena significante, almeno ad una visione. Forse allora il taglio può qualcosa del corpo, come il corpo può qualcosa del taglio e non sono più pensabili l’uno senza l’altro. Così è sempre al corpo che si torna: sia esso il corpo vissuto, il corpo del mondo, il corpo della materia, il corpo del testo, il corpo della voce o quant’altro. In ogni caso e tra tutti questi corpi si tratta di scoprire quel taglio che è anche già messa in comunicazione perché, per giocare un po’ con gli intenti dell’intervento di Federico Leoni e qui collezionato, forse non ci sono corpi e “relazioni di taglio”, ma solo un taglio assoluto e «questo taglio assoluto, che non taglia nulla e non taglia via nulla, crea, questo sì, effetti di corpo e di anima, effetti di godimento e di desiderio, ma quanto a lui è un punto di desiderio come godimento e di godimento come desiderio, un punto di indiscernibilità» (p. 53). E indiscernibilità quindi, anche, tra corpo e taglio, nel moto di un unico gesto – quasi da sarto bricoleur – di cui non si tratterebbe tanto di fare il punto, bensì, piuttosto, con il quale fare punto.

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