Lettere a Romeo Castellucci | Io ricordo
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Il teatro non c’è più. È diventato l’involucro di un’altra struttura scenica che si è gonfiata fino a invaderlo e renderlo invisibile. Un labirinto di cunicoli stretti e bassi. Passaggi segreti. Salite e discese su sentieri coperti di terra. Concave radure che circondano una collinetta di arbusti e metallo. Pareti nere su cui si leggono, in caratteri gotici, i nomi di uccelli di montagna, fanno da confine al percorso chiuso che attraversano gli spettatori di Hänsel e Gretel.
Questa immagine di un teatro cresciuto dentro il corpo di un altro teatro è un buon viatico per chi si accosta al lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio. E significativo è soprattutto il fatto che a essere messo così radicalmente in questione sia lo spazio di un teatro “di tradizione” qual è il Valle, la storica architettura del Valadier proprio al centro di Roma. L’ensemble di Cesena ha scelto di rivolgersi all’infanzia non come un momento laterale, o peggio marginale, della propria ricerca ma come una prosecuzione, e con gli stessi mezzi, di un lavoro che non a caso è volto da sempre al linguaggio del teatro. L’elemento fiabesco si insinua così nella tragedia, quella antica degli Atridi come in quella senza tempo di Shakespeare, mentre intanto vanno a cercare il tragico nella fiaba. Cioè il suo lato buio. La coscienza acuta di un enigma.
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L'Orestea di Romeo Castellucci al Fabbricone di Prato non è molto diversa dall’omonima trilogia tragica di Eschilo. L’immagine di un fuoco si proietta sul velo che separa idealmente gli spettatori dal luogo dell'azione. È il segnale atteso che annuncia ad Argo la fine della guerra di Troia. La sentinella in equilibrio precario su una sedia apre lentamente un ombrello, suo unico riparo, e si lascia dondolare nel vuoto mentre con voce distorta dà sfogo alla propria sofferenza per il lungo anno passato di guardia. I protagonisti della favola arcaica sono tutti lì, dietro i teli grigi che delimitano uno spazio scenico privo di abbellimenti, nella penombra in cui l'attore vive l'attesa dell'entrata in scena: il re Agamennone inconsapevole del proprio destino, Clitemnestra vendicativa e determinata nel fare appello al sentimento, Cassandra disperata per l'indesiderato dono della veggenza.
Nel percorso a ritroso verso le radici del teatro, dopo l'Amleto durissimo di qualche stagione fa, la Socìetas Raffaello Sanzio è giunta a un altro passaggio cruciale, alle origini stesse del teatro nella Grecia del V secolo. Lontano da un’impossibile filologia, il gruppo di Cesena sembra voler scavare ancora più indietro nel tempo, nell’essenzialità del rito originario, nella danza dionisiaca intorno al capro sacrificale che a un certo punto diventa citazione letterale, quando al centro della scena viene issato il corpo dell'animale sventrato: simulacro tragico del re ucciso reso ancora pulsante di vita meccanica da un flusso intermittente di aria compressa, alimentata da quei tubi che penzolano dall'alto, in uno spazio ibridato da una tecnologia anch'essa arcaica di tubazioni flessibili, pompe a stantuffo, boccagli di ossigeno evocanti un futuro archeologico alla Moebius, il grande Jean Giraud.
Ma prima, perché quei fantasmi vivano, c'è da attraversare uno specchio, la soglia fra due diverse realtà, come per gli attori girovaghi dei Giganti della montagna o per l'Alice di Lewis Carrol. Ecco infatti che sulla scena dell'inizio si fa largo un grande Coniglio dal camicione bianco, affannato per il ritardo e ansioso di attaccarsi al cavo di una rumorosa macchina elettrica, capace di procurargli un orgasmo da elettroshock. È lui il corifeo che dà voce a un coro di coniglietti, piccoli e di gesso questi, che esploderanno fragorosamente uno alla volta quando il nuovo potere affermatosi sul corpo straziato del re Agamennone avrà fatta provvisoriamente sua la pelliccia da Venere di Masoch che di quel potere è il simbolo visibile. E sarà ancora il bianco coniglio a evocare le avventure di una Ifigenia in Wonderland, uscita fuori da un'altra favola crudele, che già si era vista bionda e in veste candida offrire il seno posticcio al sacrificio, per il buon esito dell'impresa guerresca; mentre ora una voce da fuori richiama per nome l'attore, Paolo Guidi, che ormai “sta sbagliando tutto”, si è smarrito in un delirio affabulatorio di cappellai matti e lepri marzoline.
Piuttosto che attraverso le parole, spesso stravolte del resto dall'amplificazione o sopraffatte dal rumore, è sui corpi degli interpreti che la tragedia prende forma e una crudele necessità, davvero artaudiana, in un rapporto strettissimo con la materia organica, sangue e merda e latte, che traduce quelle parole. Così a incarnare un'idea di regalità innocente avviata al macello si presenta la spigolosa dolcezza di un ragazzo down, inconsapevole della derisorietà della sua corona fasulla, mentre attaccato a un microfono reitera un vocalizzo o si abbandona a una danza circolare; e la femminilità opprimente di Clitemnestra ha il corpo debordante di un'attrice di lingua brasiliana, balena melvilliana che naviga nella tragedia su un letto rialzato e dice cose terribili con una cadenza cantilenante sempre uguale. E più avanti, alla fine, l'obliquo dio Apollo avrà ali ma non braccia e sarà esposto con la sua duplice mutilazione alla stessa nudità cui sono condannati anche gli altri interpreti.
Tutta la prima parte della trilogia eschilea, l'Agamennone, si dipana in una oscurità fragorosa, carica di tensione e di violenza, nel segno di una crudeltà che trova immagini sconvolgenti. Come il corpo nudo e grasso di Cassandra imprigionato in una teca trasparente che soffoca il suo monologo (e il Coniglio a dirle: ma taci, stronza, stai zitta) e fa da cassa di risonanza ai suoi rantoli e ai pugni battuti e impotenti, quando le arriva addosso una morte invisibile da camera a gas che bagna le pareti di sangue. E ancora un getto di sangue macchia la porta vetrata sul fondo, annuncio dell'uccisione fuori scena di Agamennone, sottolineata da un teatralissimo applauso, mentre una sedia girevole comincia a ruotare da sola al centro di una scena rimasta vuota come quel trono casalingo.
La seconda parte invece, le Coefore, si rovescia figurativamente in un deserto lunare bianco e polveroso e in un silenzio privo di gravità, in cui avanzano i due nuovi protagonisti, Oreste e Pilade. Uguali nei corpi magrissimi dipinti di bianco, come due primitivi guerrieri, ma uno alto alto e l'altro più basso, sincroni anche nei movimenti lentissimi. Il Coniglio che li ha introdotti silenziosamente è sparito dall'azione, una rarefattissima clownerie, attorno a quel capro appeso in croce e ossessivamente pulsante che incombe sul tumulo paterno. Come due clown lunari riappaiono infatti a un certo punto, un Bianco e un Augusto di glaciale luminosità, cappello a cono e naso rosso a palla, per incontrarsi con una Elettra che è una lumachina obesa in tutù che offre il seno e il latte e parole di miele al papà squartato. E lunare è l'immagine che appare più dietro in trasparenza, un Ermes sbiancato che pascola una coppia di asini bianchi.
Condannato al silenzio, questo Oreste è un Amleto che si arresta dubbioso di fronte all'azione, l'uccisione comandata dal dio di quell'enorme corpo materno. E sarà allora il suo compagno a munirlo di una protesi armata, di un braccio pneumatico che meccanicamente azionerà il coltello del matricidio, dietro il siparietto steso a mascherarne l'oscenità ma non gli schizzi di sangue. E che poi, staccato dal corpo e appeso in proscenio, continuerà fino alla fine a ripetere a vuoto quel gesto maledetto, mentre un terremoto squassa la scena su cui è rimasto solo Oreste, naufrago come in un dipinto del romantico Caspar Friedrich. Dopo è di nuovo il rumore e l'imporsi in primo piano di una parete spessa, interrotta da una grande apertura vetrata che imprigiona il protagonista insieme a un branco di scimmie. Come in una lanterna magica alla Bergman, le Eumenidi scorrono via veloci e private di dialettica, in un susseguirsi di apparizioni che fanno balenare sul fondo le figure di Clitemnestra o di Apollo o impongono da ultimo un'Atena dalla grande maschera maschile che viene a dare suo voto determinante in favore del matricida. Non è infatti la nascita della democrazia quella che si celebra in questo processo più simile a un incubo notturno. Piuttosto l'affermarsi di un potere maschile nato dalla violenza che carica di pessimismo questo bellissimo spettacolo.
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A condurre gli spettatori dentro la fiaba dei fratelli Grimm è un narratore che ha il corpo sottile e il volto scavato di Franco Pistoni, tutto vestito di nero, dalla lunga palandrana al cappello a falda circolare, secondo un’iconografia che ricorda i pittori fiamminghi e tedeschi. Siamo del resto in un mondo nordico, freddo e duro, fra i contadini di Pieter Bruegel. Ma le musiche balcaniche, le canzoni armene, i canti di lavoro georgiani scelti a commento dai due demiurghi, Romeo Castellucci e Chiara Guidi, ci ricordano che i motivi narrativi della fiaba non appartengono a un unico paese, attraversano i confini dello spazio e del tempo, possiedono una misteriosa universalità.
È una fuga, dice il narratore mentre accenna con la mano il gesto di seguirlo, da incantatorio pifferaio. È un abisso in cui bisogna lasciarsi cadere, con la stessa determinata incoscienza con cui Alice precipita nella sua allucinatoria Wonderland, con lo stesso senso di precarietà profonda del bambino o dell’uomo che si sente straniero in mezzo alla natura. L’abisso che attraversano i due piccoli protagonisti, Hänsel e Gretel, dal momento in cui ascoltano i genitori discutere di come sbarazzarsi di loro. La prima tappa è nella stanzetta nella casa paterna, un abbaino popolato dai topi, con due lettini alti e stretti fatti di assi di legno in cui dormono coperti da uno straccetto (sono Demetrio e Teodora Castellucci, figli dei due artefici, inseriti in un gruppo che fin dall’inizio ha privilegiato una struttura familiare e qui vede in scena tre generazioni con la nonna Giunta Biserna nelle vesti della strega, mentre i genitori della fiaba sono interpretati da Paolo Tonti e Claudia Castellucci). Che ci sia poco da mangiare lo dicono anche i loro abiti e i visini sporchi. È miseria e non povertà. L’unica ricchezza è forse quell’asino che il padre si tira sempre dietro ma non dà nutrimento. La madre è invece spropositatamente alta, secca e roca, una creatura di un’altra dimensione, ma con la scopa che brandisce come un’arma sembra proprio una strega cattiva.
La crudeltà si taglia a fette. E poco conta che una consolatoria finzione neghi il legame del sangue fra la matrigna e i due ragazzini abbandonati nel bosco per non dividere un pane troppo scarso. Non per questo è meno straziante il loro bussare alla porta di casa, dopo aver ritrovato la prima volta la strada del ritorno, e l’andirivieni di lei che non si decide ad aprire e continua a ripetere “maledizione come hanno fatto” e poi li accoglie a botte di “cattivi, cattivi”. E l’orrore di quei due lettini troppo presto trasformati in tombe, con la croce piantata sopra e ricoperti di una terra che loro disperdono furiosamente urlando un liberatorio “non siamo morti, siamo vivi”.
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L'ariete e la nuvola. La forza percussiva e la leggerezza. Oppure Onan e Psiche, come dicono le didascalie proiettate sul sipario all'inizio simmetrico dei due atti. Il corpo nell'amore e l'anima. Il Giulio Cesare che Romeo Castellucci ha tratto dal dramma di Shakespeare (ma ci sono anche gli storici latini fra le fonti dello spettacolo presentato dalla Socìetas Raffaello Sanzio al Fabbricone di Prato) appare fin dall'inizio diviso fra due poli in cerca di conciliazione. L'ariete oscillante scuote metodico il sipario ancora chiuso da cui una mano spinge fuori la sagoma di una nuvoletta, un fumetto insomma, con la scritta “...vskij”.
Non ci vuole molto a completare quel nome di evidente origine russa. Siamo in un teatro dopo tutto, forse al teatro dell'Arte di Mosca, all'inizio del secolo. O forse alla fine di questo stesso secolo così denso di rivoluzioni teatrali, oltre che di altri orrori, sotto lo sguardo del maestro venuto a dar lezione ai nipotini. Peggio ancora: siamo dentro la sua gola, che un endoscopio mostra ingrandita in un tondo sul fondale, in un prologo che dà già un bella scossa all'azione, mentre vibra di onore e altre belle parole davanti al popolo ridotto a un mucchio di scarpe. E gli farà poi eco un Cicerone grassone, esaltatore dell'arte della retorica e condannato però a ripetere come un disco incantato la stessa parola, quell’‘umano’ che appare ormai davvero troppo umano.
Ma intanto il sipario si è chiuso e riaperto di nuovo, e dietro un ultimo diaframma di plastica semitrasparente è spuntata la geometrica prospettiva di un involucro cubico, racchiuso da tendaggi bianchi destinati poi a cadere per mostrare una parete di mattoni di cemento. Alcuni mattoni sono posti anche sulla scena dove Bruto e Cassio hanno preso a duettare delle sorti della repubblica. Vestiti entrambi di una uguale tunica candida. L'uno giovane, poco più che un ragazzo, l'altro più anziano, paternamente didascalico, Giovanni Rossetti e Lele Biagi.
Perché il Giulio Cesare, questo Giulio Cesare della Socìetas di Cesena, è anche questo: la storia di un altro Amleto, del conflitto di un figlio diviso fra due padri, quello che gli sta accanto e l'altro ancora più vecchio, il Cesare cristologico destinato al sacrificio. Denudato della tunica color porpora e lavato da un catino e asciugato con una treccia di capelli nel gesto antico della Maddalena, prima di essere steso a terra privo di vita. Non l'Amleto autistico di un altro memorabile travestimento shakespeariano della Raffaello Sanzio, simile piuttosto all'amletico Oreste della loro Orestea che si arresta davanti all'atto. E serve allora il regista per richiamarlo alla “linea dell'azione”.
Ha imparato bene l'arte della parola. Ma quando sale sul mattone che gli fa da podio, al centro del cerchio di luce tracciato da una lampadina portata da un braccio girevole, la sua voce viene fuori strozzata da un collare, deformata dal gas che l'attore aspira da una bombola, spostata verso le frequenze più alte, fino a trasformarsi nel verso inconfondibile di Paperino, il disneyano Donald Duck. E tuttavia destinato a soccombere di fronte alla quieta oratoria di un Antonio laringectomizzato ma padrone di un ‘metodo’ (è bravissimo Dalmazio Masini, uno degli attori ‘trovati’ che da tempo danno vitalità al teatro della Raffaello con i loro corpi, come qui Alvaro Biserna, il cereo regista Adam Peter Brien o Ivan Salomoni già visto in Pelle d'asino). Capace di passare dall'appello alla commozione, trasformando un lembo del sipario socchiuso nel mantello di Cesare trafitto dai pugnali dei congiurati, alla nobiltà statuaria che sigla la prima parte dello spettacolo.
All'inizio della seconda parte la scena appare devastata, mentre un maglio ancora picchia nella sua opera di distruzione. Adesso ci si trova per davvero dentro un teatro. (C’era un teatro anche a Hiroshima…) Le poltroncine sono sventrate. Il sipario strappato. Intorno solo rovine. Sul fondo, appena percettibile nella penombra, si muove una figura piccola e scura. Se ne sente soprattutto il rantolo che rompe il silenzio della sala, mentre avanza con un paio di archeologici sci. Si ferma. Si mette in ascolto dei rumori che giungono attraverso le vibrazioni del suolo. Poi il rumore irrompe forte e con la musica entra dal fondo un'altra figura sottile, appesa a un guantone da boxe, ancor più magra della prima e quasi insopportabile alla vista. Bruto e Cassio hanno preso il corpo fragile di due giovani anoressiche, Elena Bagaloni e Cristiana Bertini, che inscenano la fase terminale di un'amicizia. La cerimonia di un duplice addio dalla vita, inframmezzato dal grido di rivolta dell'attrice contro il pubblico, maledetti è tutta colpa vostra.
Il rumore ora è dappertutto. Violento. Martellante. Il buio spezzato solo da una luce intermittente, in un rovesciamento figurativo che tocca l'apice all'apparire dello scheletro di un cavallo là dove c'era stato un cavallo vero. La battaglia irrompe con un suono da videogame. Ma siamo ormai al di là della vita. È una cerimonia magica, demoniaca, l'evocazione di una cultura che appare anch'essa morta. Così fra un gatto del Cheshire che ruota vorticosamente la testa e il passaggio di una volpe impagliata che perde la coda, cala dall'alto un'altra nuvola, pesante come una lapide. “Ceci n'est pas un acteur”, dice. Come la celebre pipa dipinta da Magritte, che appunto non è una pipa. E già prima le chiavi del violon di Man Ray avevano segnato la schiena nuda di Cicerone.
Ma se quel che vediamo non è un attore – cos'è? Dice Romeo Castellucci che non è possibile dire Duchamp e Artaud insieme. Insomma qualche problema, nel rapporto con le avanguardie, c'è. O il rischio di riportare il teatro dentro la gabbia dell'avanguardia, da cui era uscito anche grazie ad Artaud. La retorica del teatro ricomincia con il suicidio di Bruto replicato fra gli applausi registrati, finché non interviene di nuovo l'ombra del regista russo a mostrare come si fa e dunque a morire con un colpo alla nuca. Mentre la ragazza che faceva Cassio si è rialzata e richiama l'altra ancora ferma in proscenio: dai Elena, vieni via. La rappresentazione è davvero finita.
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L’invisibile sala del teatro si rivela all’improvviso nel volume ricurvo a volta di uno sterminato bosco notturno, una foresta pietrificata dagli alti fusti scuri che avvolge i due bambini ormai perduti. Ma chi trova si perde. Solo chi si perde può trovarsi, ammonisce la nostra guida. La caduta nell’abisso diventa un’avventura estrema. Un velo sale come un sipario e in uno squarcio appare l’aia della casa di marzapane, odorosa di zucchero e di fragola, con la finestrina piccina da cui spunta il volto simpatico di una vecchina con la cuffietta bianca delle ragazze di Vermeer e la cadenza di Romagna. Bisogna entrarci. I bambini dapprima un po’ sospettosi e noi dietro, superando l’ultima stretta soglia. Quella della liberazione.
All’interno della casa di marzapane le ingannevoli essenze odorose lasciano il posto alla materialità di un laboratorio di pasticceria. Sacchi di farina ovunque. Farina sul tavolo racchiuso dentro un baldacchino di tulle, pronta per essere impastata. Secondo un ciclo di trasformazione che è l’unica certa legge di natura. Basta un cambio di iniziale e le torte diventano morte. Il letto si trasforma in una gabbia. La dolce nonnina in una strega nera che mangia i bambini. Ma la morte tocca a lei, buttata nel fuoco del forno al suono di un valzer da baraccone, non ai bimbi che hanno ormai concluso il proprio percorso iniziatico.
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In principio è solo un brusio di voci che giunge amplificato, forse un mercato, il magma indistinto che precede la creazione. Poi calano le luci e attraverso il velo che chiude il boccascena appare in trasparenza la facciata di un antico palazzo, su un fondale dipinto, davanti a cui sta un gruppo di uomini in attesa, eleganti e severi in cilindro e redingote. Un’immagine ottocentesca introduce alla prodigiosa Genesi creata da Romeo Castellucci con la Socìetas Raffaello Sanzio. Un prologo ambientato idealmente nel laboratorio di Madame Curie, all’epoca della scoperta del radio, la sola sostanza capace di emettere luce, sottolineano gli artefici. Una luce capace di penetrare i corpi fino alle ossa.
Alla scienziata si rivolge l’uomo atteso che porta il nome di Lucifero, il portatore di luce, e ha il corpo affilato di Franco Pistoni. Ha preso posto accanto al tavolino col microscopio, comincia a parlare con parole misteriose, le parole ebraiche della Bibbia. Bereshit. La parola di dio che le dita dell’uomo in movimento sembrano tenere sospesa in aria. Spinto da un gesto, si avvia alla “porta stretta” costituita da due pertiche ravvicinate. Per passarci nel mezzo è costretto a spogliarsi. Ci riesce con fatica, nel fragore di un urlo lancinante che scuote la sala. La visione si annebbia, per un momento è solo un’ombra che giganteggia sulla tela.
“Dal museo del sonno”, dice il sottotitolo dello spettacolo. La creazione si specchia nel suo contrario, nell’immobilità della morte, fra teche di vetro e ricostruzioni di macchine a fluido. È una Genesi guardata dalla fine quella di Romeo Castellucci, dal lato della modernità. Ha gli occhi del secolo che ha conosciuto l’orrore indicibile del lager nazista, frutto estremo del gesto fratricida di Caino. Ci dice che in ogni nascita è inscritta la sua morte, come il negativo nella fotografia. Oscilla fra gli opposti, come la porta di Duchamp che può chiudere due vani ma ne lascia sempre aperto uno.
Ecco allora tre atti distanti nelle suggestioni figurative e sonore, violentemente opposti ma inestricabilmente legati da una reciproca necessità. Tre ore senza quasi una parola. Non per sfiducia nel valore delle parole, che anzi tutto sembra alludere alla parola su questa scena, ma perché le parole sono già nelle cose se, come insegna la qabbalah, tutto ciò che esiste al mondo è costituito dalle lettere dell’alfabeto e dai numeri primordiali, le dieci sefirot.
Il primo atto è il più vicino a dio. A una percezione della divinità come caos. Nel buio dello spazio scenico si generano immagini oscure, spesso indecifrabili, sommerse dal fragore rumoristico delle musiche composte da Scott Gibbons. Un letto gira su se stesso. Dall’alto cade della polvere, mentre il suolo si solleva come se fosse dotato di vita. Dio è un nudo gigante nero con una calottina dorata, visto sempre di spalle mentre pianta carote nella terra o tira il nastro magnetico di un revox appeso in alto. L’arcangelo Gabriele avanza con la spada infuocata. Adamo è un contorsionista che si contorce dentro una teca. Due pecore si accoppiano sul fondo. Un braccio meccanico verga frenetico delle parole per terra. Quando appare Eva, nuda e mutilata di un seno, ricalcata sulla posa dolente del dipinto di Masaccio alla cappella Brancacci, percepiamo che qualcosa di irreversibile si è compiuto. L’umanità è davvero entrata in scena.
Il secondo atto sembra quello più innocente ed è quello più atroce e demoniaco, giacché maschera l’orrore con una pelle d’agnello. Lo spazio è diventato un luminoso involucro di teli che cadono dall’alto come un tendaggio. Un gruppo di bambini di età diverse in veste e cuffietta bianca (i sei figli di Chiara Guidi e Romeo Castellucci) gioca senza far caso alla voce disturbante di Artaud che gracchiava di “sperma infantile”. Ad allontanarla bastano le melodie che giungono da lontano, in sottofondo, canzoni come “Violino zigano” e “Amado mio”. Dal paese delle meraviglie di Alice è uscito il Cappellaio matto che arriva su un candido trenino a offrire il tè per la festa del non-compleanno, e intanto però il Coniglio dalle lunghe orecchie evoca inumani esperimenti chirurgici di nuovo nel nome di Artaud. Altri segni meno innocenti si manifestano, come la croce appesa a una flebo e colma di un liquido che va acquistando il colore del sangue. Il Coniglio sgozza la bambina con un coltellaccio. Si aprono delle docce. Perché quel luogo si chiama Auschwitz, ci dice l’artefice, col pudore e il tormento di chi sa di pronunciare l’indicibile, cui si può solo alludere con un gesto, come insegnava Kantor. Ma anche stretto dalla sua esigenza, giacché quel nome una volta pensato non può essere revocato.
Il terzo atto è il ritorno al passato, al crimine originario su cui si fonda l’umanità. Il gesto fratricida di Caino che si compie nel silenzio di un pietroso deserto rosso, e dopo il pensiero del lager sembra quasi un atto d’amore. Abele fa ruotare il cerchio di ferro calato dall’alto. Caino ha un braccio malformato e con quello stringe il collo di Abele fino a soffocarlo, lentamente. Ma subito davanti a quell’inaspettato corpo senza vita vorrebbe riprenderlo indietro, il suo gesto, mentre esplode la musica sacra di Gorecki fra gli impulsi sonori. Tenta di rianimarlo, lo prende a calci. Eva ritorna a incoronarlo con le insegne del potere ma poi lo lascia alla sua solitudine, fratello dei cani, direbbe Pasolini, che si sono aggirati indifferenti sulla scena per tutto l’atto. E allora può morire, sulla terra tornata a essere pulsante, ai piedi della scala che si è sollevata verso il cielo, dietro il grande buco nero che si è aperto in faccia agli spettatori.
Fin qui quel che possiamo raccontare, con la consapevolezza che troppo sfugge alla cronaca, che altri percorsi si potrebbero indicare: come quello compiuto dall’enigmatico calzino che attraversa tutto lo spettacolo, quasi una storia parallela. Sfilato al dio nero da un angelo, nel primo atto, sepolto con dentro una zampa di gallina, riapparso nella stanza color panna dei giochi dei bambini, sarà indossato alla fine da Caino. Forse il simulacro della conoscenza che l’uomo vorrebbe rubare a dio, l’uomo artista soprattutto che sperimenta il desiderio della creazione. Giacché è anche della creazione artistica che qui si parla, suggellata dall’ironico applauso meccanico di un robot pneumatico in proscenio. Significativa è l’identificazione dell’artefice con Lucifero, l’angelo dell’arte dannato dal desiderio di essere vicino a dio, figura ricorrente nella cosmogonia della Socìetas romagnola.
Il primo giorno del mondo è anche il primo giorno del teatro. Un teatro, quello della Raffaello Sanzio, immediato nell’impatto emotivo fortissimo delle sue visioni ma capace poi di agire lentamente nella memoria dello spettatore. Disturbante perché lontano da ogni provocazione impone lo scandalo vero, agli occhi delle convenienze estetiche, dei suoi corpi feriti, realmente vissuti. Un grande teatro che ha pochissimi termini di confronto come ormai sanno le scene europee.
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“Mi hanno detto che qui una volta c’era un teatro”, dice la voce ormai lontana mentre ci avviamo verso l’uscita, passando per l’ultima volta davanti alla casa dove i bambini fanno festa insieme all’asino, e una bara lunga lunga dice senza bisogno di dire parole la fine dell’ingombrante matrigna. C’era una volta un teatro che indossò una maschera. Rimossa la maschera, il volto del teatro non sarà più lo stesso.
L’assessorato alla cultura del Comune di Bologna dedica una rassegna a Romeo Castellucci e alla Socìetas Raffaello Sanzio, E la volpe disse al corvo, a cura di Piersandra Di Matteo, con numerosi appuntamenti da gennaio a maggio 2014. Doppiozero ospita alcune lettere di critici, artisti, operatori culturali che raccontano da molteplici punti vista chi sia questo regista-artefice esploratore del contemporaneo (nel catalogo ebook di Doppiozero segnaliamo il prezioso saggio di Oliviero Ponte di Pino Romeo Castellucci & Socìetas Raffaello Sanzio). E trae dagli archivi testimonianze di sguardi storici sul suo labirintico lavoro.
Gianni Manzella è scrittore e critico teatrale del “Manifesto”; ha fondato e diretto la rivista “Art’o”. Gli spettacoli che racconta sono: Hänsel e Gretel (versione 1998 per il teatro Valle di Roma), Orestea (Una commedia organica?) (1995), Giulio Cesare (1997), Genesi. From the Museum of Sleep (1999).
Il prossimo spettacolo della rassegna è Giulio Cesare. Pezzi staccati, dallo spettacolo del 1997, giovedì 27 e venerdì 28 marzo ore 16 e sabato 29 e domenica 30 marzo ore 15 e ore 17 nell’aula magna dell’Accademia di Belle Arti di Bologna.