Il disincanto dei nuovi media

20 Ottobre 2015

Gli Everything But the Girl sono un gruppo pop britannico molto famoso negli anni ’90. In quegli anni ero un fan di Tracey Thorn, la cantante del gruppo, una persona meravigliosa. Tracey Thorn dopo gli Everything But the Girl ha fatto parecchie cose, l’ho persa di vista per un bel po’ ma poi l’ho riscoperta su Twitter e non ho mai smesso di seguirla. Non scrive più canzoni ma parla alla radio ed è diventata adulta. Ma un’adulta sempre intelligente e piena d’umanità (sono un fan, non vale).

 

Qualche giorno fa ha pubblicato un articolo (tradotto qui da Internazionale) in cui faceva i conti con il suo uso di Twitter e sosteneva che era cambiato molto nel tempo. Tracey affermava di aver perso molto dell’entusiasmo originario nello stare dentro Twitter a parlare con degli sconosciuti o a commentare insieme le puntate dell’XFactor britannico: “Non sono più così disinvoltamente critica come un tempo, e non partecipo più a discussioni inutili”. La sua comunicazione si è irrigidita, moderata, si è fatta più attenta alle potenziali reazioni degli altri utenti. L’autoanalisi della mia beniamina mi ha spinto a pensare a come è cambiato il mio rapporto con i social media in questi anni, da quando aprii il profilo di Facebook nel 2007 e quello di Twitter nel 2009. Sono passati 8 anni da quando vivo dentro queste reti sociali proprietarie e semi-pubbliche. È un po’ come se fossimo negli Stati Uniti del 1928 o nell’Italia del 1932, a 8 anni dall’invenzione della radio di massa.

 

Su Facebook ho condiviso e continuo a condividere cose personali, idee e relazioni, su Twitter ho sempre avuto un atteggiamento meno personale, non potendo controllare chi mi legge. Ricordo le dirette Twitter di Andy Carvin e Marina Petrillo che filtravano per noi le notizie più attendibili che arrivavano dalle primavere arabe. Ricordo i primi esperimenti di “twitteratura” e di fiction per Twitter, fatti con Doppiozero nel 2012. Ricordo lo stupore di ritrovarsi a scambiarsi raffiche di opinioni divergenti via tweet con perfetti sconosciuti. Ma sembra già un ricordo lontano, che produce un’eco muta di flussi di parole senza un volto e una voce. Condivido pienamente il cambiamento di Tracey Thorn e credo che sia un po’ il cambiamento di tutti. Passo meno tempo su Twitter, non perdo il fegato a discutere animatamente con degli sconosciuti, non taggo più decine di semi-amici per convocarli alla lettura di un articolo. Non sono più coinvolto come un tempo. Scorro la timeline per scoprire notizie nuove, ma ormai seguo così tanti emittenti che è difficile ritrovare quelli più interessanti. Su Facebook è diverso, c’è più spazio per scrivere e più amici attorno, ma lontani, coi quali è piacevole confrontarsi, anche litigando un po’. Però anche lì ormai ho perso la spontaneità degli inizi, controllo ed edito quello che scrivo, sempre meno mi lascio andare a impressioni non ponderate, tranne magari a tarda notte quando sto ascoltando musica.

 

Siamo passati, Tracey Thorn, io e molti di voi immagino, da un comportamento di “retroscena” a uno di “scena”. Abbiamo imparato a comportarci sul palco dei social media, abbiamo imparato a “segregare le audience”, come diceva il sociologo canadese Erving Goffman, teorico dell’interazionismo simbolico. Siamo sempre in scena, consapevoli di esserlo. E attenti a non rovinare la nostra immagine digitale. Il sé che ci costruiamo sui social media è un sé “editato”, montato ad hoc per essere proiettato sul pubblico che ci segue ed è ormai un processo quasi automatico, non progettato a tavolino. L’effetto della novità dei social media sulle nostre vite si è affievolito fino a scomparire. Ora fanno parte del nostro quotidiano come la radio era ormai oggetto comune nelle sale da pranzo delle famiglie americane di fine anni ’20. Il momento magico ed eccitante dell’introduzione di un nuovo media all’interno della società è già alle spalle. Il famoso e un po’ incompreso McLuhan sosteneva che ogni volta che un nuovo media si innestava sul corpo dei vecchi dava luogo a un ibrido, capace di risvegliare dal torpore, dalla “narcosi”, tutti gli utenti.

 

McLuhan sosteneva che ogni volta che si stabilisce un immediato confronto tra due media (per esempio il web e la radio) siamo costretti a un urto diretto che ci trascina fuori dal torpore. Il momento di incontro dei media è un momento di libertà e di scioglimento dallo stato di trance e di torpore da essi imposti ai nostri sensi. Se pensiamo ai primi periodi di utilizzo di Twitter o di Internet ancora prima, possiamo confermare facilmente questa idea: il nuovo ci aveva sorpreso e stupito e ci aveva aperto nuove possibilità e forme espressive. Poi, a distanza di anni, una volta abituati al nuovo media diventato ormai vecchio, quella finestra di risveglio si è richiusa, per lasciare spazio ad un uso più conservatore del mezzo. I dibattiti estetici intorno al ruolo della radio negli anni ’20 sono tra i momenti di più alta riflessione intorno alla natura del mezzo. Poi in seguito nessuno se lo è più domandato, cosa bisognasse e si potesse fare con la radio, e la trasmissione è diventata molto più ordinaria. Ci siamo riassopiti, abbiamo smesso di farci domande su cosa era Twitter e cosa non era, per cosa era buono e per cosa no. Le prime foto scattate con Instagram erano molto più sincere e originali di quelle che facciamo ora, ormai che abbiamo capito quali filtri utilizzare per massimizzare il piacere dell’audience che ci segue, cosa funziona e cosa non funziona. Ci siamo fatti furbi, ci siamo tutti sintonizzati su uno stile mediamente accattivante, senza picchi, senza sorprese, imitando inconsapevolmente uno lo stile dell’altro.

 

Ogni generazione è legata a un medium di massa dominante, che ha segnato la sua giovinezza e la sua crescita. Per la generazione prima della guerra fu la radio, per i baby boomers la radiolina a transistor e la televisione, per gli italiani nati negli anni cinquanta fu di nuovo la radio, quella libera (poi privata e commerciale). Per chi come me è nato negli anni settanta è stato l’Internet 1.0, per i millenials sono i social media. Ho vissuto momenti “esaltanti” (almeno per me, nerd con la camicia a quadri in una sonnolenta città di provincia), a fine anni ’90, a sperimentare con la web radio e suonare assieme in progetti di streaming collettivi o “streaming happening”, come li chiamavamo allora. Mi sono eccitato ad aprire il mio primo blog, il mio primo Tumblr, il mio primo profilo su Twitter, Facebook e decine di altri social network. Ricordo quando scoprivo la musica su My Space o quando per la prima volta un amico, Luca, nel 2004 o giù di lì, mi fece vedere You Tube. “Broadcast Yourself” era un claim bellissimo, per me che avevo partecipato a Genova 2001 e credevo in Indymedia – Don’t hate the media, Be the media. Allora non capii subito che i nuovi media commerciali stavano assorbendo le forme di comunicazione comunitarie e orizzontali rinate con la rete dentro confini gestibili a livello manageriale e quindi profittabili. Stavamo assistendo, senza esserne consapevoli, a una seconda ondata di “enclosures”, questa volta digitali. Ci siamo ritrovati in pochi anni dentro i recinti di piattaforme create in Silicon Valley che ci offrivano di fare più facilmente quello che già facevamo con Internet prima e i blog poi, solo che in cambio avremmo consegnato loro le tracce delle nostre navigazioni digitali (all’epoca si chiamavano ancora “virtuali”). Ci sarebbe voluto lo scandalo della NSA e il coraggio di Snowden per farci aprire gli occhi su quanto pervasivo fosse questo controllo dei nostri dati, sia per fini commerciali, che per fini di controllo più politici.

 

Abbiamo vissuto, per alcuni anni, nell’effervescenza di una novità tecnologica continua e inarrestabile, da Facebook a Twitter, da Instagram a Whatsapp. Ora che questi mezzi non sono più nuovi, che li abbiamo addomesticati e scoperto i rischi, e che all’orizzonte non appare più nulla di così nuovo da risvegliarci ancora dal torpore in cui siamo caduti, cosa ci attende? Gli ultimi vent’anni sono stati molto divertenti, per chi ha amato Internet e le emergenti culture digitali, ma ora ci stiamo annoiando. Lo spettro delle piattaforme rimaste in piedi e popolate di vita umana si restringe a poche grandi corporation, sempre meno innovative. L’unica grande innovazione degli ultimi 5 anni è rappresentata dalla Sharing Economy, ma anche in questo caso è accaduto ciò che era accaduto dieci anni fa o cento anni fa: corporation come Uber e Airbnb non sono che la versione mercificata della sharing economy, così come il broadcasting commerciale degli anni venti non era che la versione mercificata del broadcasting amatoriale esistente ben prima della nascita delle prime radio commerciali.

 

E anche nel caso della Sharing Economy, dopo una prima fase di eccitazione ci siamo tutti accorti dei rischi di queste nuove “rental economies” o economie “on demand” per il tipo di lavoratori che producono e per la difficoltà a condividere proprio tutto: vedi l’esempio del “trapano”, che Guido Smorto spiega molto bene, in questo articolo per Che Fare, in cui traccia la fine dell’entusiasmo collettivo per le infinite possibilità dell’economia della condivisione. Un articolo uscito su Fast Company qualche giorno fa era intitolato “La Sharing economy è morta e noi l’abbiamo uccisa”. Siamo alla fine di un ciclo di innovazione mediale e ne sentiamo tutta la stanchezza e le mancate promesse in termini di maggiore democratizzazione della comunicazione e migliori industrie creative, meno industriali e più artigianali.

 

Cosa c’è di fronte? Il prossimo ciclo di innovazione si chiama Blockchain e Smart Contracts e porta con sé un nuovo ciclo di promesse, di nuovo in parte potenzialmente democratizzanti e in parte potenzialmente radicali, rischiose, distopiche. Ma ormai dovremmo essere abituati a ricevere i nuovi media del momento, accoglierli, studiarli, eccitarci un po’ e poi disilluderci. L’importante è non perdere la curiosità per esplorarli e capirli, anche perdendo, ogni tanto, la lucidità, come è successo, a me spesso, in passato.

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