Se chiudono gli archivi

5 Novembre 2014

Nell’Alto Medio-Evo, dopo le invasioni barbariche e di fronte al rischio di disfacimento della cultura occidentale, i monasteri benedettini divennero i più importanti centri di raccolta, conservazione e riproduzione di moltissimi testi classici, scampati, in questo modo, alla distruzione. Oggi non ci sono i barbari alle porte, ma una «crisi di proporzioni inedite e di portata globale», come ha scritto Martha C. Nussbaum, assale la cultura umanistica, «una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro». Se è vero, dunque, che non si avvistano orde d’invasori all’orizzonte, tuttavia, i nostri monasteri – archivi e biblioteche – stanno vivendo una crisi profondissima tanto da suscitare previsioni cupe per il nostro immediato futuro.

 

Claudio Parmiggiani

 

La logica aziendale del profitto, l’abbandono dell’istruzione pubblica in favore di un sapere specialistico e applicato, immediatamente spendibile, dunque, su un mercato del lavoro senza regole e tutele, il depotenziamento dei beni culturali, stanno minando alla base il sapere umanistico, una delle fondamenta più solide della nostra società.

La crisi che oggi vivono gli Archivi di Stato non è dunque che la punta dell’iceberg di problemi molto più grandi o, se vogliamo, una delle tante manifestazioni del collasso che sta vivendo il patrimonio storico-culturale del Paese.

Negli anni si sono susseguiti gli allarmi, le denunce e gli appelli: tutti caduti nel vuoto, tutti inascoltati. E d’altronde se i “crolli” di Pompei non hanno smosso le coscienze, figuriamoci che scandalo può suscitare il silenzioso logoramento del patrimonio archivistico nazionale.

 

Nel novembre del 2009 la 2° conferenza nazionale degli archivi, promossa dalla Direzione Generale per gli Archivi del Ministero per i Beni e le Attività culturali, aveva chiaramente indicato i rischi che il Paese avrebbe incontrato se non fossero state adottate misure adeguate per la tutela degli archivi di Stato.

L’Italia, infatti, sembra tagliarsi fuori dagli obiettivi decisi dalla “Strategia di Lisbona”, adottata nel 2000 dall’Unione Europea e incentrata sulla necessità di predisporre riforme che accelerino il passaggio verso una società della conoscenza, chiedendo agli Stati membri un miglioramento delle politiche culturali, di ricerca e sviluppo. Le linee guida per la politica scientifica e tecnologica, decise dal Comitato Interministeriale per la Politica Economica (CIPE) il 19 aprile 2002, sembravano andare incontro a queste direttrici, individuando i beni culturali fra le aree prioritarie d’investimento.

 

Molto poco, tuttavia, è seguito sul piano concreto delle iniziative politiche. Proprio quando, il 6 maggio 2003, il Consiglio d’Europa aveva promulgato una nuova risoluzione sollecitando gli Stati membri alla tutela dei propri archivi, insistendo sull’urgenza di tale compito per divulgare una più profonda conoscenza della storia e della cultura europea e per dotare la cittadinanza di archivi ordinati e accessibili nella prospettiva di un rafforzamento democratico delle società europee. Per fornirsi di strumenti, in altre parole, se si leggono queste misure in controluce, in grado di combattere l’ondata populista e antieuropeista che si stava abbattendo sull’Unione. Un nuova sollecitazione, infine, giungeva nell’agosto del 2006 dalla Commissione Europea per la digitalizzazione e per l’accessibilità on-line dei documenti istituzionali.

 

Di nuovo il CIPE sembrava accogliere questi inviti, all’interno di una piattaforma approvata nel dicembre 2006, in aderenza con le decisioni prese all’interno del Quadro Strategico Nazionale – elaborato dal Ministero dello sviluppo economico, volte a tradurre le direttive del regolamento generale sulla politica di coesione comunitaria voluto dall’Unione Europea. In questa occasione, tra le tante raccomandazioni, veniva sollecitato il sostegno alla formazione della forza lavoro impiegata nella tutela degli archivi e delle biblioteche, nonché il ripetuto appello alla valorizzazione dei beni culturali.

È difficile stabilire quanto la crisi economica apertasi nel 2008 abbia inciso su queste misure o se piuttosto ci siamo trovando di fronte a problemi di lunga durata, oggi, però, esplosi in tutta la loro drammaticità. Certo è che la politica bipartisan di tagli radicali alla spesa pubblica è andata a incidere pesantemente su di un settore già afflitto da difficoltà strutturali.

 

Claudio Parmiggiani

 

Nel 2011 la Società italiana per lo Studio della Storia contemporanea (Sissco) e l’Archivio centrale dello Stato (ACS) avevano dedicato a questi problemi un importante convegno di studi (i cui atti, intitolati significativamente Il pane della ricerca, sono stati curati da Marco De Nicolò e pubblicati da Viella nel 2012). Si trattò di un’iniziativa davvero significativa poiché emergevano – dall’interno – i nodi irrisolti che affliggevano il sistema archivistico e che non sono stati mai sciolti.

 

Per i non addetti al lavoro è difficile immaginare l’enorme mole di compiti che gli archivi di Stato sono chiamati ad eseguire. Basti pensare al materiale prodotto dagli uffici attivi delle istituzioni e poi acquisito dagli istituti archivistici, spesso attraverso una corrispondenza incerta, disordinata e frastagliata. Com’è noto, gli organi centrali dello Stato versano le loro carte all’ACS: tuttavia, da anni, si è affermata la tendenza a costituire una rete di magazzini, al di fuori del controllo e del monitoraggio degli archivisti competenti, nel tempo divenuti veri e propri depositi di carte e documenti che invece dovrebbero essere versati nell’unità centrale.

 

Può sembrare un problema “gestionale”, ma in realtà la tutela, l’accessibilità e la trasparenza dei documenti prodotti dallo Stato sono aspetti fondamentali per il corretto funzionamento della democrazia.

La scarsa disponibilità di spazi per le sedi di archivio diviene, allora, un problema gravido di conseguenze; perché nonostante la dispersione documentaria, i versamenti negli archivi di Stato continuano senza sosta, con km di materiale che aspetta una collocazione. Per quanto gli archivisti si sforzino di intervenire per tutelare il necessario ed evitare sprechi e accumuli di fonti inutili, la mole documentaria è ogni giorno sempre più ingente. La digitalizzazione di testi e carte, la loro accessibilità attraverso la rete, non sembrano poi aver risolto i problemi strutturali che affliggono questo delicato settore della vita nazionale, perché non si è eliminato il problema della conservazione delle fonti.

 

Si rendono necessari, dunque, urgenti finanziamenti per il personale competente e per la conservazione di questi materiali. Il problema è che la gran parte delle risorse sono drenate dentro il buco nero degli “affitti” oltremodo onerosi che gli archivi di Stato sono costretti a pagare per le loro sedi.

 

Lungi dall’essere una questione gestionale, si tratta, anche in questo caso, di un problema più grave, il sintomo di contraddizioni di una nazione che agisce senza alcuna consapevolezza del presente e del proprio futuro. Di fatto è stato impossibile ottenere sedi demaniali per gli archivi, in nome delle privatizzazioni, con il risultato, ad esempio, che l’ACS è costretto a pagare l’affitto all’Ente Eur S.p.a. di cui il Ministero del Tesoro è proprietario al 90%. Lo stesso istituto che poi ha caldeggiato i tagli di spesa per le spese troppo alte delle sedi istituzionali.

 

Claudio Parmiggiani

 

La questione degli affitti è divenuta un cappio asfissiante, che assorbe energie e risorse non solo agli archivi di Stato, ma anche a tutti gli istituti storici e a tutte le fondazioni culturali, di cui in questa sede ci è impossibile parlare. Con lo scandalo delle ex-caserme e delle tante sedi istituzionali vuote e dismesse che potrebbero essere messe a disposizione dei Beni Culturali. Senza l’assegnazione di sedi demaniali, infine, non servirebbe a nulla il lavoro in corso di razionalizzazione delle spese che sta portando alla costituzione di poli archivistici territoriali, in grado di accorpare più archivi e concentrare il personale qualificato.

 

Su questo quadro sconfortante si sta abbattendo la peste del precariato: rispetto agli anni Ottanta e Novanta il personale tecnico operante negli archivi di Stato è stato ridotto drasticamente. Ne sono conseguite disfunzioni di ogni tipo, a danno soprattutto degli utenti. Il personale proveniente dal servizio civile e i contratti per prestazioni occasionali hanno solo peggiorato la situazione, perché l’impossibilità di assumere a tempo pieno ha reso difficilissimo il percorso formativo di chi è in ogni caso destinato a disperdere le poche competenze acquisite sul campo. Per poi ricominciare daccapo, chissà dove. Anche in questo caso, con lo scandaloso paradosso che le scuole di perfezionamento universitario di archivistica continuano ad attrarre tantissimi giovani, poi costretti a lavorare negli archivi come volontari o liberi professionisti, in un contesto professionale, tra l’altro, carico di tensioni tra l’amministrazione e le diverse sigle sindacali.

 

Ne è conseguito il blocco del turn over e soprattutto l’interruzione del passaggio di conoscenze e competenze da una generazione all’altra. Col risultato che il lavoro dell’archivista rischia di esaurirsi nel solo riordino e descrizione delle carte, slegando questo momento dalla ben più complessa riflessione sul nesso tra ricerca archivistica e avanzamento della storiografia. Si sta producendo, in altre parole, una separazione tra le funzioni di chi conosce le carte in relazione al processo di formazione (gli archivisti) e chi le usa in funzione dei loro contenuti (gli storici), quando in passato, invece, le due figure sembravano sovrapporsi e fondersi, come dimostra la biografia intellettuale di Claudio Pavone che proprio sul tema della storiografia in rapporto all’uso delle fonti ha scritto uno dei contributi più importanti in materia.

 

Claudio Parmiggiani

 

Senza retorica alcuna, qui è in gioco la democrazia, la trasparenza delle sue funzioni, passate e future. Per fare qualche esempio: nel 2007, a ridosso della riforma dei servizi segreti, con l’annesso problema della normativa sul segreto di Stato, una delegazione di storici incontrava l’allora presidente del Copasir Massimo D’Alema per affrontare la questione dei documenti di Stato classificati, al termine di una lunga stagione di battaglie, condotte non solo dagli storici, ma dai giornalisti, dai familiari delle vittime delle stragi e del terrorismo, nonché da settori non trascurabili dell’opinione pubblica.

 

Tra le tante difficoltà v’era il problema della gestione e dunque dall’accessibilità di quel tipo di fonti, spesso disseminate negli archivi dei diversi enti produttori, difficili quindi da mappare. È mancata tra l’altro, nel susseguirsi dei governi, la volontà politica di coinvolgere gli archivisti di Stato, che con le loro competenze rischiano paradossalmente di innescare un circuito virtuoso. Senza questa consapevolezza, le dichiarazioni del governo Renzi volte a desegretare i documenti inerenti le stragi e il terrorismo rischiano di non portare a nulla di concreto. Per non affrontare, poi, lo stato di conservazione di altri Ministeri, a partire da quello della Difesa e degli Esteri, lo studio delle cui carte è a tutt’oggi un’impresa ardua.

 

Un Paese che non è in grado di narrarsi è destinato a dissolversi. Una Repubblica incapace di gestire i propri archivi sarà destinata a soccombere. Ne va della coesione sociale, innanzitutto, della fiducia nelle istituzioni e financo della nostra stessa identità: l’equilibrio tra memoria, storia nazionale, storie collettive e individuali è l’unico antidoto alle narrazioni mitologiche ed identitarie, alle falsificazioni e alle invenzioni del potere che i traumi del Novecento hanno insegnato a riconoscere come una delle più gravi minacce per la democrazia.

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