Perché Twitter può dire qualcosa sul futuro dell’editoria e come imparai ad amare la fiction digitale

11 Dicembre 2012

Michele ed io ci facciamo strada attraverso il muro di folla all’incrocio tra la 42esima strada e la Quinta. Siamo in ritardo, perché Michele è voluto entrare a vedere la volta stellata di Grand Central Station. Non puoi nominare nulla di questi luoghi, che subito la mente recupera un fotogramma, una sequenza di qualche film in cui li hai già visti. La scalinata di Grand Central Station per me è subito Revolutionary Road. New York non esiste, anche se sei lì. Non la vedi, perché continui a vederla attraverso tutti gli schermi dei film che hanno parlato di lei. Anche le foto che scatti e che poi condividi su Instagram sono foto già fatte, già viste, un pallido tentativo di imitare un modello, un’inquadratura sopravvissuta in memoria. Le foto piacciono per quello, rassicurano l’immaginario dei follower: “È proprio come me la immaginavo”. Insomma, è tardi. Alle due dovevamo essere già al Margaret Liebman Berger Forum, la sala della New York Public Library dove si svolge l’evento live del primo Twitter Fiction Festival.

 

Dal 1 al 4 dicembre Twitter ha deciso di illuminare un uso marginale ma emergente di Twitter, quello dedicato alla finzione, alla narrazione, all'intrattenimento. Ha selezionato ventinove format narrativi per Twitter su oltre seicento pervenuti, li ha organizzati in un palinsesto e trasmessi sul profilo @twitterbooks per quattro giorni di seguito, come un qualsiasi canale tematico digitale. E ha riunito alcuni degli autori dei programmi selezionati alla New York Public Library per discutere delle potenzialità di Twitter come medium narrativo. Tra questi ci siamo anche noi di doppiozero, con il format #FiabIt trasmesso sul canale @00SerialTw, cento fiabe italiane riscritte da Marco Belpoliti per cento giorni, quasi fosse una performance. Michele Aquila ed io siamo parte della squadra che c’è dietro il programma e partiamo curiosi per New York per incontrare altri autori che condividono con noi la voglia di sperimentare i confini linguistici del medium. La sala del festival ha il soffitto altissimo, pareti in pietra rivestite di legno. Anche qui, tra te e la realtà si sovrappongono decine di schermi di film precedenti. L’immaginario a volte è solo un peso ingombrante. Sembra un’aula di Perry Mason.

 

Il pomeriggio passerà come una festa da ballo delle debuttanti, qualche faccia annoiata con in mano un cocktail e continui giri di valzer da un gruppo all’altro per introdursi nelle conversazioni o svincolarsi al momento giusto. C’è lo scrittore maniaco di Twitter che vuole farti comprare il suo libro, ci sono le lettrici intimidite che parlottano in gruppo senza mai avvicinarsi, ci sono i camerieri italiani, ci sono i giornalisti che spazzolano le riserve alcoliche come nei romanzi di Colson Whitehead. Ad ogni ora @magicAndrew (Andrew Fitzgerald), l’artefice del Festival per conto di Twitter, introduce una manciata di nuovi progetti, per poi lasciare il resto del tempo alla conversazione, all’incontro tra autori, perché il vero motivo dell’evento è questo: far incontrare i nodi della rete, mettere faccia a faccia gli avatar, dare corpo alle voci.

 

In questo valzer di incontri e presentazioni continue, neanche fosse uno speed-dating per nerd, incontriamo alcuni personaggi notevoli e questi sono i loro brevi ritratti. Messi assieme, questi ritratti, formano la mappa dell’universo, in espansione seppur minuscolo, della cosiddetta Twitter Fiction. Una nota sul termine #twitterfiction: mentre in Italia si discuteva di #twitteratura e della possibilità o meno di produrre letteratura su Twitter, nella molto più pragmatica america il problema è stato risolto adottando la molto meno nobile parola “fiction”: con Twitter si può produrre fiction, intrattenimento non basato sulla realtà. A volte forse si fa anche letteratura, vedi il caso di Black Box di Jennifer Egan prodotto dal New Yorker, ma non è questo che importa a Twitter. A Twitter importa far nascere/alimentare un altro stile di consumo/uso del medium.

 

Uno dei primi con cui parliamo è Andy Hunter di Electric Literature (@electriclit), una specie di rivista on line, anzi meglio, come precisa Andy, “un magazine di fiction quadrimestrale pensato per iPhone e iPad”. Una casa editrice che produce contenuti per le nuove piattaforme di lettura. Tra i loro progetti più importanti c’è la produzione di fiction a puntate scritta da Rick Moody solo per Twitter.

 

Poi riusciamo ad intercettare una giovane donna minuta e pimpante, che salta da un gruppo all’altro come un maestro di cerimonie. È Yael Goldstein Love, la Direttrice editoriale di Plympton, una casa editrice fondata nel 2012 che si dedica a progetti di narrazione seriale solo digitale (Plympton è uno dei partner del Festival). Plympton è da poco riuscita a farsi finanziare un progetto da Kickstarter, raccogliendo 56 mila dollari per produrre fiction seriale per media digitali. La squadra di Plympton è fatta di giovani brillanti provenienti dal mondo dell’editoria con laurea Ivy-League. Sembra il set del romanzo del newyorkese Keith Gessen, Tutti gli intellettuali giovani e tristi (Einaudi 2010). Yael è a sua volta scrittrice ed ex-assistente editor della Paris Rewiew. Questo per dire che per il successo di una start up non contano solo le buone idee ma anche il background di chi le mette in pratica. Yael sostiene che la rapida diffusione della piattaforme digitali rende possibile far rivivere e reinventare il venerabile genere dell’intrattenimento seriale. Kindle, iPad, Nooks sono strumenti perfetti per ricevere aggiornamenti periodici di storie a puntate, come una volta lo erano i giornali per Dickens ed Hugo. La fiction seriale ha pure un vantaggio economico in un mondo editoriale trasformato dai lettori digitali. I serial per le nuove piattaforme digitali, tra cui Twitter, forniscono ai lettori un continuo flusso di storie ad un prezzo competitivo con altri contenuti digitali e danno agli scrittori la possibilità di essere pagati per scrivere e nel frattempo costruirsi una base di pubblico per il loro lavoro futuro. Per Yael e Andy la “letteratura elettronica” o la “fiction seriale digitale” sono opportunità per gli scrittori emergenti per farsi conoscere e costruirsi un pubblico prima di fare il salto nell’editoria tradizionale.

 

Scocca l’ora, nuove presentazioni e nuovo giro di valzer. Il format di doppiozero riscuote l’interesse di Ryan Chapman (@chapmanchapman), Direttore marketing della Penguin Press. Non dimostra più di trentacinque anni ed è identico, ma davvero identico al personaggio goffo che in Mad Men dirige il dipartimento televisivo, Herry Crane. Ryan fa parte della giuria che ha selezionato i ventinove progetti ed è curioso di sapere come tradurremo i tweet di Belpoliti in un libro, perché dà per scontato che questa operazione poi si riadatti al formato del libro. Gli spieghiamo che Michele è qui per questo, perché con la sua applicazione, TweetBook, speriamo di fare un libro digitale leggibile al di fuori del flusso inarrestabile di Twitter.

 

Poi finalmente è il momento di parlare con qualche scrittore, non solo con editori e direttori marketing. Elliott Holt (@elliottholt) è un’autrice quarantenne, alta, bionda, elegante ma per fortuna poco algida e molto ironica. Sta per pubblicare per Penguin, non è una grande esperta di Twitter ma per il festival ha scritto una detective story che, se ci fosse stata una Palma d’oro per la miglior fiction, forse l’avrebbe meritata. L’ha scritta da sola, col telefonino, senza l’ausilio di nessuno strumento di programmazione tipo Hootsuite o TweetDeck. Dice che scrivere sul telefonino è stata una fatica costante. Senza essere una geek, ha creato però la storia più adatta al mezzo che sia stata raccontata finora su Twitter. Se Richard Hughes fu il primo a scrivere per la radio un’opera di finzione - Danger!, del 1924 - adatta alla cecità del nuovo medium dell’epoca, il racconto di Elliott è forse il primo a sfruttare a livello narrativo l'interazione col pubblico che Twitter permette.

Non sarà stata la prima a fare fiction per Twitter ma la sua è di sicuro la fiction più twitter-oriented.

Se i bellissimi tweet di Jennifer Egan erano come dei “viaggiatori stranieri che non avevano idea di dove si trovavano” (vedi l’articolo uscito su Slate), quelli di Holt si sono invece adattati all’ecosistema, richiedendo l'intervento dei follower per costruire una narrativa non lineare, collettiva, multipolare. La storia, sulla TimeLine del profilo Twitter di Elliott Holt, inizia così:

 

                               

 

A partire da questi primi due tweet Elliott ricostruisce le ultime ore di vita di Ms. Brown attraverso i tweets di 3 ospiti del party in cui la donna è stata trovata morta - @margotburnham, una hostess; @simonsmithmilla, un londinese mondano che “faccio cose vedo gente”; e @elsajohanssen, uno che si autodefinisce “fashion designer svedese”. La narrazione procede per tasselli di mosaico, aggiunti dai tre ospiti. I lettori, per trovare l’assassino, devono partecipare attivamente al processo di raccolta delle prove, e alla fine la Holt chiede loro di risolvere il caso:

 

                              

 

L’intelligenza collettiva dei follower, scambiandosi le informazioni e i dubbi alla fine sarà capace di risolvere brillantemente il caso. Caso chiuso. Ecco, mentre Elliott ci mostra gli ultimi tweet e fuori viene buio ho di nuovo la sensazione di essere dentro il tribunale di Perry Mason.

 

Infine, prima della fine, compare un giovane nigeriano-americano col cappello da hipster di Williamsburg e occhiali spessi e neri. Si chiama Teju Cole, a febbraio uscirà per Einaudi la traduzione del suo romanzo Open City ed è l’autore più atteso al Festival. Teju chiude il pomeriggio con una breve “lezione”, che qui chiamano “keynote speech”, sull’uso narrativo di Twitter. Sarà perché è molto più giovane di Johnathan Frenzen, ma Teju non odia né internet né Twitter né gli ebook. Su Twitter ha lanciato due progetti di format seriali. Il primo è stato “Small fates”: pubblicava sul suo profilo notizie di cronaca locale newyorkese ripescate dai quotidiani vecchi di cento anni e rimesse in circolo lo stesso giorno. Alcune notizie, accadute cento anni fa, risuonavano come se fossero ancora plausibili, altre contribuivano a mettere in luce nuove letture geografiche, sociologiche, urbane della città di New York. Attualmente Teju sta twittando notizie di cronaca locale pescate dai giornali nigeriani contemporanei.

 

                              

 

Sostiene di voler lavorare sullo spiazzamento temporale (Small Fates) e quello spaziale (le cronache nigeriane) nei confronti del proprio pubblico di followers. Richiama la Leggerezza e la Velocità di Calvino come lezioni per la scrittura di tweet e sostiene che siamo all’alba di un nuovo medium che “non sappiamo ancora cosa sia” e che si presta alla costruzione di personaggi di finzione, di voci che parlino in prima persona, non importa se vere oppure no.

 

                              

 

Le forme che può prendere la finzione su Twitter sono state appena esplorate. Siamo all’alba di un nuovo medium elettronico, così come lo eravamo per la radio nel 1922, un momento ricco di discussioni estetiche su cosa e come raccontare, quel momento magico prima della definizione dei generi e delle pratiche produttive. Al momento, per quel che abbiamo visto durante questa prima edizione del festival, la maggior parte dei progetti si concentra solo sulla scrittura di una storia che avanza per sequenze di tweet. Nel migliore dei casi la scrittura è di alta qualità (vedi il caso di Egan o Rick Moody) ma il format non molto innovativo: siamo ancora al grado zero della twitter-fiction, se si escludono i casi di Holt e Teju Cole. Le pratiche produttive sono ancora artigianali – singoli scrittori che si auto-producono le storie – tranne il caso di @00SerialTw, che ha messo in piedi una produzione in stile broadcasting con dei registi, un autore (Marco Belpoliti), uno sponsor tecnico (@U10) e uno sponsor produttivo (Moleskine). Ma è ormai chiaro che Twitter è non solo uno strumento di informazione ma anche un medium creativo.

 

Ce ne siamo andati dalla Public Library con la sensazione che ci fosse un legame tra Twitter, le altre piattaforme digitali, la fiction e il futuro dell’editoria, che non tutta la Twitter Fiction sia necessariamente buona (la qualità la riconosci su ogni mezzo) e che 140 caratteri, se organizzati in serie e dati in mano ad autori intelligenti, siano uno spazio considerevole per giocare al “come se” del mondo, al “facciamo finta che”. Ce ne siamo andati quando tutti i giri di valzer erano finiti e gli americani in sala si sprecavano in complimenti e “awesome” reciproci. Per gli americani tutto ciò che è vagamente interessante o nuovo diventa “awesome”. Al decimo “awesome” siamo spariti e ci siamo incamminati verso il concerto dei Dinosaur Jr., per fare finta di essere ancora degli adolescenti come nel 1985.

 

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