Si vota il referendum indipendentista / Catalogna: dove è finito Mirò?

22 Settembre 2017

Era da tempo che volevo andare alla mostra permanente di Miró inaugurata a Madrid il passato dicembre. Sapendo che si trattava di una cessione degli eredi per almeno cinque anni non mi ero affrettata a visitarla. Ma in questi giorni ho sentito una specie di urgenza, la necessità di avvicinare qualcuno che mi aiutasse a capire i fatti della Catalogna. 

 

 

Joan Miró è stato uno dei referenti più autorevoli della cultura e del pensiero catalano e punto di riferimento dell’antifranchismo già dagli anni della Guerra Civile fino alla morte nel 1983. Basta ricordare la sua opera – oggi perduta – per il padiglione della Repubblica Spagnola del 1937 a Parigi per il quale Picasso ha dipinto il Guernica.

 


Oppure il disegno del francobollo anche del 1937 come richiesta di un contributo per aiutare la Spagna repubblicana, poi diventato l’emblematico manifesto Aidez l’Espagne.

 


Miró è rientrato in Spagna negli anni ’40 malgrado il regime di Franco. È stato un esempio di esilio interno, lasciato stare dal franchismo benché lo identificasse con i vinti repubblicani, permettendogli di vivere ritirato a Maiorca, dove l’artista ha realizzato il sogno del “grande laboratorio d’arte” con l’amico Josep Lluís Sert, architetto del padiglione di Parigi. Riservato e poco amico delle interviste, faceva intravedere invece il suo catalanismo, il cattolicesimo aperturista e il liberalismo in politica. Posizioni che si sono sviluppate crescendo man mano che il suo successo internazionale aumentava e sono diventate più esplicite dopo il ’68. Da quel momento in effetti Miró si impegna pubblicamente in tante cause politiche e sociali e diventa un’icona della lotta per la democrazia, il catalanismo progressista, i diritti umani, l’ecologismo e, in modo molto militante, contro le ultime condanne a morte firmate da Franco. 

Questa posizione pubblica si traduce nella scelta del supporto artistico: murali, manifesti, illustrazioni di libri. Negli anni ’70 e ’80 Miró si è consolidato come simbolo della lotta della Catalogna per la libertà e la sovranità, diventando anche un mito della lotta dall’interno contro il franchismo, capace di capire la necessità degli accordi che allora si stavano prendendo per trovare un consenso in vista della transizione. È conosciuto inoltre il suo rispetto e ammirazione per il re Juan Carlos, da repubblicano che era, fino alla sua morte avvenuta nel 1983.

Catalanismo e antifranchismo sono praticamente la stessa cosa. Se diamo uno sguardo alla storia, possiamo ripercorre i punti fermi del problema attuale: alla morte di Franco sono state create le autonomie: tre, come era giusto dal punto di vista storico, Catalogna, Paesi Baschi e Galizia. Ma poi, quando nel 1981 sono state accettate le rivendicazioni dell’Andalusia che voleva la stessa autonomia di quelle storiche, il governo ha deciso di rendere tutte le regioni uguali, conferendo a tutte lo statuto di Comunidad autónoma a uguali condizioni.

 

Da allora in poi sono cominciati gli errori. Fermiamoci alla Catalogna dopo la morte di Franco: il primo Estatut d'Autonomia è del 1979. È stato elaborato dal primo parlamento democratico come risultato delle prime elezioni del 1977 in cui nelle circoscrizioni della Catalogna ha vinto la sinistra: 17 seggi per il PSOE (i socialisti); PSUC (i comunisti) 8 seggi; ERC (i repubblicani) 1 seggio; UCD (il centro di Adolfo Suárez che governava lo stato) 12 seggi e Convergència i Unió (il catalanismo borghese conservatore), 8 seggi. Questi parlamentari catalani si sono riuniti per proporre lo statuto, ma il loro progetto ha dovuto accettare i tagli e le modifiche imposte dal governo centrale (le lingue ufficiali erano il castigliano e il catalano, non solo il catalano, come voleva il progetto dei parlamentari catalani: il primo era d’obbligo, il catalano si poteva soltanto conoscere e usare; non si eliminavano le province, che erano ancora in realtà centri di potere franchista; la competenza dell’istruzione pubblica non apparteneva in modo pieno alla Catalogna; si riducevano i contributi statali alla Catalogna e si eliminava il controllo esclusivo della polizia. 

 

Questa proposta di statuto il 25 ottobre 1979 è stata votata in un referendum, ottenendo l’appoggio del 88, 1 %, e solo il 7,8 % di voti negativi, ma con un basso tasso di partecipazione, il 59,6 %, anche perché una gran parte degli immigrati, in maggioranza dell’Andalusia e dell’Estremadura, non ritenevano che la questione li riguardasse.

Si dovrà aspettare però il 2006, con il governo Zapatero, perché l’Estatut del 1979 sia modificato. Dal Parlamento catalano partirà la proposta di definire “nazione” la Catalogna, ma nella versione finale questa problematica definizione figurerà solo nel “preambolo”, sempre all’interno della Costituzione spagnola e sotto la figura di Comunidad autónoma. Nella versione finale si definisce lo spazio politico della Catalogna all’interno della Spagna e dell’Unione Europea, mentre invece la proposta del parlamento catalano era di eliminare la Spagna mantenendo soltanto l’Unione Europea; si considera lingua ufficiale il catalano anche nelle scuole, e inoltre si riconosce l’ufficialità dello spagnolo solo come lingua dello stato spagnolo e non si permette la discriminazione per ragioni di lingua. 

 

Dopo un lungo dibattito Zapatero riesce a far passare la proposta per la modifica dell’Estatut al Parlamento spagnolo con 196 voti contro 146; il 18 giugno 2006 si tiene il referendum; viene approvato con un 73,90 % di voti a favore e il 20,76% di contrari. L’astensione raggiunge il 50,59 % e si raggiunge il 5,3 % di voti in bianco. Il Partido Popular, guidato da Rajoy, presenta un ricorso di incostituzionalità, più contro Zapatero che non contro l’Estatut. Il 28 giugno 2010 il Tribunale Costituzionale dichiara che 14 articoli sono incostituzionali, tra cui importanti questioni di contenuto giuridico, linguistico, finanziario; e dichiara anche la non validità del termine “nazione”.

 

Una volta fermato l’Estatut del 2006, la lotta per l’indipendenza ritrova vigore; la rinvigorisce il discorso “spagnolista” di Rajoy, reso vincente dalla sentenza del Tribunale Costituzionale. Da quel momento in poi, Rajoy, che è al governo dal 2011, ha contribuito a far crescere il sentimento nazionalistico catalano. Le sue posizioni sono salde nella netta affermazione dell’unità della nazione, come definito dalla monolitica Costituzione del 1978, su cui non vuole neppure aprire un dibattito per introdurre un aggiornamento e modifiche che si dimostrano via via sempre più necessarie.

La politica di Rajoy produce una crescita dell’indipendentismo; la domanda è: perché gli altri partiti, la sinistra spagnola in particolare, non sono stati capaci di creare un discorso alternativo a Rajoy? Oggi il partito socialista guidato dal giovane Pedro Sánchez vorrebbe iniziare un dibattito sulla modifica costituzionale, ma anche all’interno del suo partito non tutti sono d’accordo di riprendere lo spirito dell’Estatut del 2006. 

 

L’indipendentismo intanto dilaga, basato su una frattura Spagna/Catalogna che ha fatto il gioco del partito di potere Convergència e Unió, il cui vecchio presidente, Jordi Pujol, è ora sotto processo con moglie e figli per frode fiscale, prevaricazione, traffico di influenze, esportazione di capitali e malversazione. Questo partito è stato spesso un appoggio per il governo al potere a Madrid, addirittura con Aznar. In questo modo Pujol, che ha governato per 23 anni, ha rinunciato alla modifica del vecchio Estatut del 1979 frenando le possibilità di aggiornamento fino al 2006. 

 

“La Spagna ci deruba”, “la Spagna è fascista”, “i tagli nei servizi sanitari e nell’istruzione pubblica sono colpa della Spagna”, “la Spagna è il governo di Rajoy”: questi i messaggi perfettamente costruiti dal catalanismo, che ha nascosto le malversazioni della famiglia Pujol e di chi gli è stato vicino. Questi discorsi sono accompagnati da una narrazione sulla storia fallita di un paese vinto dal re borbone Filippo V dopo l’eroico assedio di Barcellona nel 1714 nella guerra si successione, e da un modello culturale che vuole cancellare ogni riferimento spagnolista (pochi giorni fa uno storico giustificava che la strada finora intestata ad Antonio Machado non poteva avere il nome di uno scrittore che faceva parte del canone franchista, quando proprio Machado ne è stato una delle vittime più note). 

L’erede di Jordi Pujol, Artur Mas, ha incrementato questo discorso, perché gli serviva deviare l’attenzione dalla corruzione di Convergència e Unió. Mas ha capito che portando avanti il discorso sulla lotta per il catalanismo, poteva allearsi con i repubblicani di ERC e con il nuovo partito, la CUP (Candidatura d'Unitat Popular) assemblearista, indipendentista, caratterizzato dalla lotta di quartiere. Il suo partito ha ora cambiato nome: è PDeCAT (Partit Demòcrata Europeu Català). Il cambiamento era necessario perché Mas era troppo legato a Pujol. In questo modo è entrato in campo l’attuale Presidente della Generalitat, Carles Puigdemont. 

 

Il nuovo catalanismo guidato da Pugdemont il 6 e 7 settembre ha bocciato la Costituzione spagnola e ha stabilito la nuova legge catalana per il referendum e la transizione verso la repubblica nel caso vinca il sì il 1º ottobre. Per bocciare l’attuale Estatut ci sarebbero voluti due terzi del parlamento catalano, invece queste leggi sono state votate con la sola maggioranza semplice su 135 seggi. Ha vinto il sì perché 62 seggi sostengono l’alleanza tra PDeCAT e ERC (formano insieme il gruppo Junts pel Sí), che a sua volta conta sui 10 seggi della CUP; il resto corrisponde ai voti dell’opposizione, che ha abbandonato l’aula lasciando i posti vuoti al momento

 

 

dalle votazioni considerandole illegali. Sono 16 seggi del Partito socialista, 25 di Ciutatans (un partito di centro destra che sostiene il governo di Rajoy al Parlamento spagnolo), 11 del Partido Popular e 11 di Catalunya sí que es Pot (corrisponde a Unidos Podemos); Podemos sostiene che il referendum non è legale, ma ritiene che sia importante che i cittadini possano votare, per cui considera il 1º ottobre una mobilitazione cittadina, non un referendum. 

 

Ora la Generalitat ha iniziato la campagna per il sì, e ha un appoggio popolare sempre più forte, perché il governo di Rajoy requisisce manifesti, locandine, schede per le votazioni e taglia i contributi statali alla Catalogna e ordina alla polizia autonoma di Catalogna di perseguitare ogni movimento per il referendum. Fa di tutto per rendere possibile la sospensione della Comunidad autónoma catalana, come prevede l’articolo 155 della Costituzione nel caso in cui questa si trovasse al di fuori di quanto stabilito dall’articolo medesimo.

Questa è la situazione attuale. Siamo in tempo per fermare possibili sviluppi poco desiderati, che possono sfociare addirittura nella violenza? Nessuno può sapere come andrà a finire. La cosa certa è che ci saranno le urne il 1º ottobre, perché i catalani vogliono votare. Il vero problema comincerà il 2 ottobre. I risultati saranno quasi sicuramente di un clamoroso Sì, anche perché l’opposizione e chi non vuole l’indipendenza, non stanno facendo campagna per il No, considerando il referendum illegittimo, e chiedono ai cittadini di non partecipare.

 

La politica di Rajoy, negando per anni ogni sorta di dialogo e non volendo neanche parlare di una modifica della Costituzione, è servita a far crescere esponenzialmente il numero degli indipendentisti. L’indipendentismo ha saputo proporre un programma basato sui vantaggi di un paese laico, repubblicano, progressista e soprattutto senza Rajoy. Ha anche costruito un efficace programma iconografico e simbolico, che prende spunto dalla propaganda catalanista storica, operazione che non ha saputo fare la Spagna di Rajoy, mantenendosi nell’immobilismo e facendo finta di niente, senza compiere nessuno sforzo per sedurre il catalanismo. Se il dialogo fosse stato aperto da parte dello stato spagnolo, gli interlocutori si sarebbero mantenuti sicuramente nell’ambito delle regole del gioco democratico. Non sarebbe stato facile, tuttavia sarebbero stati possibili degli accordi, si sarebbe arrivati a un consenso condiviso, poiché i partiti indipendentisti e i gruppi più radicali come la CUP non avrebbero avuto la forza che hanno ora, sostenuti come sono dal catalanismo borghese e moderato. Questa anomalia è stata possibile perché il discorso nazionalistico è servito come il miglior collante, capace di unire superfici materialmente incompatibili. 

 

Davanti a un futuro incerto, e così vicino, forse servirebbe rifarsi al grande Miró, cercare tra le sale della mostra madrilena un’immagine che possa servire a riportarci a momenti in cui il dialogo è stato possibile. La si può reperire nel Personnage devant la lune del 1976, opera che il pittore ha dedicato al nipote Joan Punyet. Il nonno gli vuole consegnare un futuro sgombro di nuvole: c’è il paesaggio notturno nudo, la luna, le stelle, ma c’è anche la terra, che accoglie la vita degli uomini; c’è la speranza di una vita in armonia, malgrado l’incertezza su come sarebbero andate le cose appena morto il dittatore Fancisco Franco. Il vecchio pittore impegnato è sereno e ha fiducia.

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