Speciale

“I due orfanelli”, 1947 / Un maestro di disobbedienza

18 Febbraio 2017

 

Nelle prime ore del 15 aprile 1967, moriva improvvisamente il principe Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio, in arte Totò. Da quella notte sono passati cinquant'anni, ma la sua figura è più viva che mai nell'immaginario collettivo. Affrontarla significa raccontare una porzione consistente della cultura nazionale, sia “bassa” che “alta”, dal ventennio fascista ai prodromi del '68; ma significa anche, dietro le risate, domandarsi quanto sia ancora in grado di parlare a noi (ma soprattutto di noi), spettatori italiani d'oggi. In occasione di questo anniversario, Doppiozero ha deciso di dedicare a Totò uno speciale in più parti, nel quale le testimonianze d'epoca verranno affiancate alle parole dei nostri collaboratori, ciascuno alle prese con una sequenza, un'immagine o una battuta tratte dagli oltre novanta film interpretati dal grande comico napoletano. Per restituire un ritratto a più voci di un artista rivelatosi, nell'arco di mezzo secolo, davvero inesauribile. Come ogni vero classico.

 

Penso a Totò tutti i giorni, o quasi. Ci penso quando sono malinconico, ci penso quando sono allegro. Degli attori si dice che restano tra noi in eterno attraverso i film che hanno fatto. Ma questo vale poi per pochissimi. Vale per Totò di cui ogni giorno viene trasmesso un film, uno spezzone, ricordata una battuta. In quasi tutti i bar, i ristoranti del Sud o che hanno proprietari meridionali, quindi in tutta Italia, c'è un'immagine, una frase, una fotografia di Totò. Di Totò e di Padre Pio. Io scelgo la religione di Totò. I suoi film sono più o meno riusciti, ma in ognuno c'è almeno una battuta, una mossa, un gesto, che li riscatta. Il giorno di capodanno del 2008, poche settimane prima che mio padre morisse, scacciai la tristezza di quel suo ultimo capodanno guardando Totò a colori (che è bello tutto).

 

1967-2017: cinquant'anni sono quisquilie, pinzillacchere, per l’eternità di Totò. Per l'occasione ho deciso di rivedere I due orfanelli con Totò, Carlo Campanini e tanti bravi caratteristi. Regia di Mario Mattoli, sceneggiatura di Age (socialista), Steno (laico) e Jean-Jacques Rastier (francese). Ė un film del 1947, l'anno in cui De Gasperi estromette i comunisti dal governo, dopo il viaggio a Washington da cui ritorna con la promessa di aiuti del Piano Marshall. La guerra fredda è scoppiata da poco. Il film è una fantasia ottocentesca in cui gli autori attingono a piene mani dai feuilleton d'Oltralpe e le allusioni alla realtà politica italiana sono disseminate ovunque. La ragione per cui ho scelto di rivederlo risiede nella seguente scena: un Totò-Napoleone (quindi un dittatore) passa in rassegna un manipolo di soldati e distribuisce medaglie. Alla fine chiede: «Quanti siamo? Siamo in quindici. Oh, e non facciamo che fra un anno, quando c'è il raduno, si presentano in quarantamila. Ragazzi, siamo quindici», e strizza l'occhio guardando in camera. Allora l'allusione era trasparente ai partigiani della venticinquesima ora, quelli che avevamo cambiato casacca sul finire della guerra, ma la scena vale per l'eterno reducismo italico (dai garibaldini ai sessantottini). 

 

 

A proposito di guerra, nel film c'è uno dei più celebri non sequitur del comico napoletano: «Il denaro fa la guerra, la guerra fa il dopoguerra, il dopoguerra fa la borsa nera, la borsa nera rifà il denaro, il denaro rifà la guerra. Guerra era un corridore ciclista, perciò noi gridiamo in coro: viva Girardengo, viva Edison che scoprendo la bussola disse: "Eppur si muove"». Questo è puro Totò: se vogliamo trovargli delle ascendenze, vanno cercate nel tardo futurismo di Petrolini. In realtà Totò adattava, deformandoli, tutti i materiali che gli venivano forniti. Li mescolava con l'uso disarticolato del corpo, poi, negli ultimi anni, anche solo attraverso la mimica facciale, cosa che lo rendeva unico, inimitabile (solo la voce può essere imitata con una certa efficacia). Improvvisava a partire da un canovaccio, ma a volte proprio dalle situazioni di set. In questo film c'è una scena in cui Totò, che da orfanello è diventato nobile (a ben pensarci è la storia che l'attore raccontava di se stesso), organizza una festa a palazzo. Festa che non riesce e Totò, congedando un gruppo di musicisti: «La festa è finita: buonanotte i suonatori». È un lampo.

 

Sul film soffia il vento della paura comunista, della rivoluzione. Totò - che qualche anno dopo, al Musichiere, se ne uscì con un: «Viva Lauro!» lasciando sbigottito il conduttore Mario Riva - sta dalla parte della conservazione, ma a modo suo. Sempre nei Due orfanelli: «Quando oggi uno si graffia un dito, domani sciopero generale su tutti i tram. A me non me ne frega niente. Perché? Sono pedone». Nel film, "esistenzialista" suona come insulto. Sarebbe stupido però cercare in Totò patenti d'impegno o accusarlo di qualunquismo. A me pare in generale che chiederlo agli artisti sia sbagliato. «Dopo l'impegno viene il disimpegno. Il disimpegno poi non lo utilizzi. Vuoi mettere due stanze e un cucinino. Un cucinino!». È di Totò? Chissà.

 

Totò, nostro contemporaneo, è un maestro di libertà. Troppo solenne! Lo si diceva del concittadino Benedetto Croce. Meglio dire che Totò è un maestro di disobbedienza. Auf Wiedersehen, sempre per citare I due orfanelli.

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