Europe d’Oriente: il Giappone

24 Agosto 2023

Sono tornato a leggere Gino Kirill Piovesana mosso da insofferenza per le retoriche europeiste divulgate, o meglio, sbandierate a seguito del conflitto Russia–Ucraina. Retoriche che, tracciando netti confini “civili” tra Europa occidentale e Russia, e tra questa e alcune nazioni dell’universo slavo, legittimerebbero le scelte politiche “atlantiste” nel conflitto in corso. Vorrei quindi richiamare l’attenzione su due libri di Piovesana perché trattano dell’incontro e confronto culturale con l’Europa di due grandi Paesi posti al suo Oriente: il Giappone e la Russia. Casi molto diversi. Il Giappone, nonostante le specificità culturali che tuttora lo distinguono, viene ritenuto allineato al sistema di vita occidentale, e il suo lontano arcipelago non solleva problemi di frontiera con l’Occidente. La Russia a sua volta, che da secoli si propone e impone come cuore di un mondo slavo incuneato abbondantemente nell’Europa occidentale, mostra invece specificità culturali che sembrano volersi disallineare dall’Occidente, con tutti i problemi di ordine geografico e politico che ne conseguono. Per quanto differenti nei presupposti e negli esiti, in taluni aspetti le vicende moderne del Giappone e della Russia presentano tuttavia processi simili nei fenomeni di migrazione e confronto culturale con l’Europa. È di questi che intendo parlare. Prendendomi qualche licenza letteraria che favorisca anche opinioni diverse, spero che queste note aiutino a interrogarci sui “mondi molteplici” che ci circondano.

Ma andiamo per ordine. Cominciamo dal Giappone, Paese su cui, oltre dodici anni fa, feci una serie di letture. Cercavo informazioni storiche che mi aiutassero a caratterizzare alcuni personaggi di un romanzo che andavo scrivendo, nel quale avevo deciso di dedicare una parte all’incontro tra Europa e Giappone emerso con impeto e altrettanto contrasto durante la Restaurazione Meiji, che, tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, apriva il Paese asiatico all’Occidente dopo secoli di rigida chiusura. Le ricerche svolte a scopo narrativo, per quanto abbozzate, sperano di trovare degli affidabili sostegni storiografici alle loro finzioni. Il principale sostegno al mio romanzo allora in lavorazione (si tratta, devo farmi pubblicità, di La sinfonia delle cose mute, Mondadori, Milano 2012) venne dalla lettura di un libro che mi sorprese e affascinò: Filosofia giapponese contemporanea. Scritto dal gesuita Gino Kirill Piovesana (Treviso 1917 – Roma 1996) e promosso dal Centro di Studi Filosofici di Gallarate, era stato pubblicato dalla casa editrice Patron di Bologna nel 1968, anno in cui Piovesana si avviava a terminare la sua missione a Tokyo. Qui dirigeva da una decina d’anni la Facoltà di Studi Russi da lui stesso fondata presso la Sophia University; dopodiché lo ritroviamo direttore del Centro Ecumenico di Studi Russi presso la Fordham University di New York, per essere infine richiamato a Roma come Rettore del Collegio Russicum e poi del Pontificio Istituto Orientale. Gino Kirill Piovesana era dunque uno studioso di cultura russa, ma ciò non gli impedì, negli anni della missione giapponese, di studiare l’ostica lingua e l’altrettanto complessa civiltà del Paese, studi che riversò in particolare nel libro sopra menzionato, «tuttora la più utile e autorevole introduzione alla filosofia moderna giapponese» – così scrive Giuseppe Jiso Forzani in I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, Bollati Boringhieri, Torino 2006, dove ci ricorda che il libro è stato tradotto in dodici lingue e ne esiste un’edizione inglese sempre in commercio, Recent Japanese Philosophical Thought 1962 – 1994, pubblicata da Routledge, aggiornata agli anni Novanta da un saggio dell’allievo di Piovesana, Yamawaki Naoshi. 

Tanto mi piacque il libro che cercai, sia in quegli anni sia più di recente, di farne pubblicare una nuova edizione dopo quella nel frattempo edita nel lontano 1973 da Morcelliana. Invano. Intanto, però, le preziose fotocopie di cui mi ero munito risultarono imprescindibili per il mio romanzo. Già nel primo capitolo redatto in chiarissima scrittura scoprii la notevole figura di Nishi Amane (1829 – 1897), che, a partire dai primi anni 1860, presso il Centro Studi dei Libri Barbarici di Tokyo (Bansho Shirabe-sho) intraprendeva ricerche sulla filosofia greca ed europea. Come ci ricorda Piovesana, nel 1862 Nishi Amane, il collega Tsuda Masamichi (1821 – 1903) e quindici altri furono mandati a studiare in Europa, soprattutto Olanda e Francia (cui presto sarebbero seguite Germania e Inghilterra), dove Nishi si applicò agli studi giuridici, di filosofia e scienze politiche, riportando anni dopo in patria libri, documenti, elaborati e conoscenze utili ai progetti di riforma istituzionale e di insegnamento universitario per la formazione delle nuove élites di cui necessitava il governo del giovanissimo Imperatore Meiji. All’imperatore Nishi terrà persino, nel 1871, lezioni di storia della filosofia occidentale. Proprio così: lo studioso tenne al giovane imperatore lezioni di filosofia – termine che, «per distinguere questa filosofia dal pensiero buddhista e cinese», riformulò con il collega Tsuda in kitetsugaku, poi contratto in tetsugaku. Nishi, considerato tra i padri iniziatori della filosofia nippo–occidentale e successivamente tra gli animatori del gruppo di intellettuali europeizzanti Meirokusha il cui motto era «Civiltà e Illuminismo», è dunque responsabile anche del neologismo filosofico. Nei due ideogrammi di cui si compone, tetsugaku condensa significati come ingegno, prontezza intellettuale, studio, sapere, ma anche via dell’uomo per chiarire la via del cielo e, temo, ancora altri significati indefinibili al di fuori dei kanji, a riprova di quanto la traduzione sia limitata nello spiegare gli enigmatici sviluppi culturali prodotti dall’incontro del Giappone con l’Europa.

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Nishi Amane è entrato nel mio romanzo come uno dei vari interpreti del racconto incentrato sul Giappone. Il ruolo di protagonista decisi di affidarlo a un suo allievo di mia invenzione – Mori Noboru – che, al pari del maestro Nishi nel frattempo rientrato in patria, viene inviato a studiare in Europa, dalla quale riporterà conoscenze che non risulteranno però assimilabili come quelle del suo mentore. Una figura storica e reale mi è servita a disegnare una figura storica ma di finzione che meglio rappresentasse la “guerra civile” che si scatena ogni volta che la ricezione di una nuova cultura viene sentita come minaccia alla tradizione nazionale. Se infatti Nishi era riuscito a far accogliere, in buona parte, l’Europa del sapere – indicativa al riguardo la sua opera enciclopedica Il legame delle cento scienze –, il suo allievo dovrà affrontare l’accusa di voler introdurre in Giappone un’Europa dell’arte (in particolare la musica), percepita dai tradizionalisti come equivalente a religione, fatto che lo condannerà in conformità alla «legge» storica diagnosticata da Arnold Toynbee (la troviamo riassunta in Il mondo e l’Occidente, Sellerio, Palermo 1992). Secondo questa «legge» storica, «il potere penetrativo di una componente di radiazione culturale è di solito in ragione inversa del suo valore culturale»; per questo «la tecnologia è stata accettata non solo in Cina e Giappone ma anche in Russia e in molti Paesi non occidentali dove fu invece respinta fintantoché la si offriva come parte integrante di un sistema di vita uno e indivisibile che comprendeva fra l’altro il cristianesimo d’Occidente».

Gino Kirill Piovesana

Il Giappone è spesso presentato quale migliore esempio contemporaneo di «buona modernizzazione» al di fuori dei Paesi occidentali. Ma la formula va articolata, specificando che è stata una modernizzazione del sapere cui ha corrisposto anche una peculiare declinazione della modernità della cultura (si vedano a tale riguardo le sempre belle pagine di Fosco Maraini ora raccolte in un Meridiano Mondadori, Pellegrino in Asia, Milano 2007). Sono due dimensioni, modernizzazione e modernità, che nell’Europa occidentale tendiamo a considerare, sbagliando, apparentate nel processo storico, o al più smentite da sacche di resistenza tradizionalista o da “interruzioni” come quelle dei fascismi novecenteschi. Come si ricava dalle osservazioni di Piovesana, modernizzazione e modernità in Giappone si sono espresse piuttosto nelle vesti di un eclettismo fluttuante tra assimilazione e rigetto, un eclettismo riconosciuto e persino coltivato sebbene mai del tutto armonizzato, tanto da produrre fenomeni drammatici quali l’omicidio di uomini politici occidentalizzanti e di cui potremmo eleggere ad emblema il suicidio rituale (seppuku) dello scrittore Yukio Mishima occorso ancora nel 1970. 

Le analisi della filosofia nippo–occidentale contemporanea di Piovesana non indugiano se non di sfuggita sulla conflittualità politica che ha accompagnato tali dinamiche culturali, e non si incaricano di spiegare come l’europeizzazione del sapere (ossia tecnologica, da intendere in un senso più ampio di quello convenzionale) abbia forgiato la crescita a potenza politica mondiale del Giappone, sino ai suoi esiti imperialistici venati di fascismo. Questi scenari storici emergono tuttavia chiari dallo sfondo quando l’erudito autore ci racconta del «perché dal periodo Meiji in poi la filosofia occidentale è stata importata come una nuova forma di sapere, rimanendo tale, senza essere molto nipponizzata, cioè tradotta nelle categorie buddhiste e confuciane». Per poi sottolineare – grazie a uno sguardo “ecumenico” da gesuita sin troppo consapevole della «legge di Toynbee» – come ciò avvenne «seguendo sentieri mai prima esplorati». Scopriamo così una varietà di correnti e scuole filosofiche in cui idealismo, positivismo, empirismo, fenomenologia, esistenzialismo, non vengono semplicemente assimilati o respinti e neppure “tradotti” nel pensiero religioso e morale tradizionale, bensì setacciati, spesso mescolandoli in costrutti sincretici nei quali Piovesana continua a veder pulsare, in modi diversi, uno «spirito nipponico». 

Piovesana – come meglio recita il titolo dato al suo libro in inglese, Recent Japanese Philosophical Thought, e come ribadirà nel titolo del libro su Russia–Europa nel pensiero filosofico russo – parla spesso di «pensiero filosofico». Con ciò egli intende segnalarci, da una parte, che la sua analisi non si limita alla «filosofia professionale», e dall’altra che nella realtà giapponese la «filosofia» che potremmo definire disciplinare si avviluppa molto spesso a un «pensiero» che – diversamente per esempio da quanto accadde nella Grecia antica – non si preoccupa di differenziarsi dalla religione o dal mito, anzi. Di Nishi Amane, che aveva importato Comte, Mill e Hegel, rimarca quanto abbia pesato nell’«evoluzione del suo pensiero l’ispirazione generale dell’esperienza del buddhismo Mahayana e dello Zen». Capiamo così perché al maestro iniziatore della filosofia nippo–occidentale, lungo il Novecento, a riprova di una permanenza della lunga memoria del pensiero religioso e morale nella nuova tetsugaku, si succederanno vari filosofi di diverso indirizzo ma apparentati «nell’aver dato della logica (cioè una disciplina caratteristica della cultura occidentale) una versione tipicamente orientale, la cosiddetta “logica del nulla”». Centrale in tal senso fu Nishida Kitaro (1870 – 1945), intorno al quale si formò la «Scuola di Kyoto», filosofo che spinse ai limiti della comprensione (anche per i suoi allievi) un pensiero combinatorio di dottrine occidentali e concezioni orientali, in una sorta di rinnovato «sincretismo relativistico» che Piovesana ci ricorda operare già nelle coniugazioni tradizionali giapponesi di shintoismo, buddhismo e confucianesimo. Su questa linea di pensiero espressa da «filosofi quali Inoue, Tetsujiro, Kihira e altri», troviamo Mutai Risaku, che nel 1944 ne trarrà le fila pubblicando La logica del luogo, dove, «seguendo Nishida, cerca una logica dello spazio fondato sul kokoro (il coeur di Pascal?)». Kokoro è anche il titolo del romanzo di Natsume Soseki, pubblicato nel 1914, dove si narra del rapporto tra un maestro e l’allievo e nel quale il suicidio finale del primo viene fatto coincidere con la morte nel 1912 dell’Imperatore Mutsuhito – lo stesso cui Nishi teneva lezioni di tetsugaku –, come a dirci che neppure l’Era Meiji dell’apertura all’Occidente poteva sfuggire allo «spirito nipponico», alla «logica del luogo».

Kokoro significa, insieme, anima, cuore, emozione, spirito, mente… un termine tanto prezioso da voler resistere a ogni traduzione, a riprova di come il Giappone non abbia mai “tradotto” l’Europa. L’anima–kokoro e la filosofia–tetsugaku, con la loro enigmatica condensazione semantica (gli studiosi di Giappone e lo stesso Piovesana mi perdoneranno questa «categorica generalizzazione da giornalisti o dilettanti») sembrano così suggerirci l’originale via seguita dal Giappone nel suo incontro con l’Europa e l’Occidente, un incontro fluttuante sulla «logica del luogo» tra assimilazione del sapere e sincretismo della cultura

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Filosofia giapponese