Henry Gee, La specie imprevista / Fraintendimenti sull’evoluzione umana

6 Giugno 2016

Da bambino – dovevo essere in terza elementare – mi è capitato di formulare una previsione a suo modo ingegnosa, anche se nella sostanza vertiginosamente ingenua, sullo studio della storia. In futuro, sentenziai, occorrerà dare più spazio alla storia nell’orario scolastico, perché man mano che il tempo passa il passato si allunga, e quindi ci saranno sempre più cose da imparare. A mezzo secolo di distanza possiamo ben dire che quella previsione è stata smentita su tutta la linea. Non tanto perché nella scuola italiana lo spazio per la storia, lungi dal crescere, sia stato, semmai, ridotto; e nemmeno perché nel frattempo non si siano verificati eventi storici importantissimi – con buona pace di chi aveva annunciato la «fine della storia», idea che rimarrà appesa al collo di Francis Fukuyama come un macigno (La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli 1992).

 

Il punto è che da allora, nella coscienza umana, ad allungarsi è stato soprattutto il passato: il passato remoto e remotissimo della nostra specie, un tempo relegato nella sbrigativa categoria di «preistoria» (termine oggi caduto quasi in disuso), e ora campo d’indagine che appare quant’altri mai fecondo di scoperte. L’origine dell’uomo è un tema che ha qualcosa di magnetico, di ammaliante, sia per gli studiosi, sia per il pubblico dei lettori: lo dimostrano i febbrili sviluppi delle ricerche, il moltiplicarsi delle teorie, il fiorire delle pubblicazioni. 

 

A mettere un po’ d’ordine ecco l’ultima novità libraria proposta dal Mulino: Henry Gee, La specie imprevista. Fraintendimenti sull’evoluzione umana (traduzione di Domenico Giusti, pp. 304, € 19,00). Paleontologo, senior editor di «Nature» per la biologia, Henry Gee è autore già noto al pubblico italiano: giusto dieci anni fa era apparso Tempo profondo. Antenati, fossili, pietre (Einaudi 2006), uno studio dedicato alla cladistica. Questo metodo di ricerca, che si avvale dei favolosi progressi della genetica, consiste nel classificare i viventi misurandone il grado di parentela, tramite la distanza nel tempo dell'ultimo progenitore comune. Anche sul nuovo volume aleggia il fantasma della cladistica (peraltro mai oggetto di trattazione diretta): uno dei temi centrali della Specie imprevista è infatti una serrata critica della paleontologia, o meglio, delle sue pretese di ricostruire la storia del genere Homo sulla base dei reperti fossili. Già da tempo è stata acquisita l’infondatezza dell’immagine di uno sviluppo lineare e progressivo: la familiare sequenza di vignette che parte da uno scimmione e arriva all’uomo moderno, attraverso un numero variabile di ipotetici ominidi via via sempre meno curvi e brutali, sempre meno irsuti, prognati e torvi, sempre più olimpici.

 

All’ottimistico, teleologico ordinamento lineare è subentrato lo schema di un cespuglio, variamente intricato. La verità è che ci sono stati in ogni epoca, e fino a un passato assai recente, molti modi di essere uomo. Ancora cinquantamila anni fa – l’altro ieri, in termini evolutivi – sul pianeta coabitavano, accanto ai Sapiens, almeno quattro specie di ominini: Homo neanderthalensis in Europa e Asia occidentale, Homo erectus in Asia sudorientale, Homo floresiensis nell’arcipelago indonesiano, più il misterioso uomo di Denisova, identificato grazie a ritrovamenti nella Siberia meridionale. Ma le scoperte si susseguono: come ricorda Telmo Pievani nella Presentazione all’edizione italiana, dall’uscita libro di Gee (The Accidental Species: Misunderstandings of Human Evolution, Chicago U.P. 2013) il quadro si è ulteriormente complicato con l’apparizione in scena, lo scorso settembre, del cosiddetto Homo naledi in Sudafrica. Da pochi giorni è poi in libreria una monografia sull’argomento (Damiano Marchi, Il mistero di Homo naledi. Chi era e come viveva il nostro lontano cugino africano: storia di una scoperta rivoluzionaria, Mondadori, pp. 165, € 19,00).

 

Questo è il punto. La documentazione fossile, argomenta Gee, benché in costante crescita, rimane disperatamente esigua e assolutamente casuale. Il destino degli scheletri è di decomporsi interamente, senza lasciare traccia: solo grazie a una straordinaria serie di circostanze ambientali favorevoli qualcuno riesce a fossilizzarsi (tant’è che non abbiamo nessun fossile di gorilla, il nostro cugino primate che non ha mai abbandonato le foreste pluviali). Insomma, se la nostra folta filogenesi assomiglia al disegno di un cespuglio, la documentazione diretta non ci restituisce se non un’avara manciata di trattini minuscoli: briciole, dalle quali è impossibile ricostruire con qualche fondamento un’attendibile «storia». Beninteso, l’esigenza di farlo è fortissima: dipende dal modo in cui la nostra stessa mente funziona, siamo per natura inclini a ravvisare ovunque intenzioni e finalità, e imbastire storie è il modo principale con cui cerchiamo di dare un senso alla realtà.

 

Ma qualunque storia del genere umano fondata sulla sola documentazione fossile assomiglia alle figure delle costellazioni immaginate dagli antichi. L’unico metodo scientifico di affrontare il problema, secondo Gee, è quello offerto dalla genetica: anziché limitarsi a interrogare minimali, opachi residui di un passato lontano, occorre indagare in maniera sistematica l’eredità dei viventi. Dall’incrocio dei dati (come il 4% di origine neandertaliana presente nel patrimonio genetico della popolazione europea) potranno emergere ipotesi meno precarie. 

 

Un altro tema fondamentale del libro è la nozione di perdita («essenziale per una comprensione corretta dell’evoluzione»). Benché lo stesso termine «evoluzione» sia etimologicamente compromesso con l’idea di perfezionamento, di progresso, di acquisizione cumulativa e graduale (evolutio indica in Cicerone l’atto di srotolare una pergamena), nella realtà della dinamica evolutiva sono ben attestati i casi di scomparsa, sia di intere specie, sia di organi. Ciò avviene perché l’evoluzione non ha obiettivi, non ha memoria, non fa progetti, e quindi non premia necessariamente la complessità: tant’è che, se le condizioni ambientali lo rendono vantaggioso, i rettili rinunciano tranquillamente alle zampe (così si sono formati i serpenti) e gli uccelli perdono la capacità di volare, come è avvenuto ai pinguini e agli struzzi, e a tanti altri, che hanno avuto destini diversi a seconda dei casi (il dodo si è estinto, mentre il pollo domestico prospera, almeno numericamente – anche se non sempre conduce una vita invidiabile). 

 

Tra le altre cose, il libro di Gee comprende un’illustrazione particolarmente chiara ed efficace sia del funzionamento dell’evoluzione – un meccanismo di «disarmante semplicità e bellezza» – sia della storia del concetto di evoluzione. Per un certo periodo Darwin preferì usare la perifrasi «discendenza con modificazione»: comincia a parlare di evoluzione solo nell’edizione 1872 dell’Origine delle specie, e nei decenni successivi il termine ha subito una serie di distorsioni e fraintendimenti le cui ripercussioni si fanno sentire ancor oggi. Alla luce di un’idea corretta di evoluzione, appare fuor di dubbio che la presenza umana sulla Terra sia un evento contingente, o – per usare l’aggettivo scelto nel titolo – «accidentale». Non diversamente da quanto è avvenuto alle altre specie di viventi, la formazione di Homo sapiens era solo una delle possibilità in gioco, una delle tante, accanto alla coesistenza con queste o quelle altre specie di ominini, o – naturalmente – alla scomparsa (la stessa marcata omogeneità genetica degli umani moderni potrebbe dipendere da un’estinzione sfiorata).

 

All’idea di contingenza è strettamente legato un altro argomento, forse il principale del libro: la critica all’eccezionalismo umano. Gee batte in breccia tutte le ragioni che vengono normalmente invocate per conferire all’uomo moderno uno status privilegiato, unico tra i viventi. Il bipedismo e l’andatura eretta, ad esempio, sono documentati in specie molto lontane dai Sapiens, e non solo tra gli ominidi: a quanto pare, sono esistite perfino un paio di specie di scimmie (estinte nella notte dei tempi) sostanzialmente bipedi. Oppure la tecnologia: esistono molti animali capaci di utilizzare strumenti, e perfino di produrli, modificando i materiali disponibili. O l’intelligenza. Qui il discorso si fa particolarmente complicato, perché una definizione universale e condivisa di intelligenza non esiste. Un punto sul quale Gee insiste è che, qualunque cosa si voglia intendere con questo termine, l’intelligenza non dipende tanto dalle dimensioni del cervello, quanto dalla complessità delle relazioni sociali in cui il soggetto è inserito. Di qui l’interesse per lo studio del comportamento dei corvidi (animali dall’anatomia cerebrale assai distante dalla nostra) quali cornacchie, taccole, ghiandaie, che fra l’altro appaiono dotati di un’ingegnosità sorprendente. È noto a molti il documentario di sir David Attenbourgh che mostra come in una città giapponese i corvi hanno imparato non solo a fare schiacciare le noci, dal guscio troppo duro per il loro becco, dalle macchine di passaggio, ma addirittura a lasciarle cadere in corrispondenza di semafori, in modo da poter recuperare senza rischi i gherigli quando per le macchine scatta il rosso. 

 

Un po’ meno persuasivo, a mio giudizio, il tentativo di Gee di confutare l’eccezionalità del linguaggio umano, anche se è vero che la nostra ignoranza sulla comunicazione animale è grande. Abbiamo idea di che cosa si stiano dicendo gli uccelli di uno stormo che sembrano cantare tutti insieme? O di quante informazioni, e quanto raffinate, possano essere trasmesse attraverso segnali olfattivi? Questo, a proposito, è uno degli assunti di fondo del libro sul piano epistemologico: ogni incremento delle nostre conoscenze sul mondo ha per effetto di accrescere l’estensione della nostra ignoranza. Più arriviamo ad apprendere, più ci rendiamo conto di quanto sterminate siano le cose che non sappiamo. Così stando le cose, è meglio non affrettarsi a rigettare l’ipotesi che una ghiandaia possa avere davvero (per usare la locuzione corrente fra gli psicologi) una «teoria della mente». Al netto dei nostri pregiudizi, nemmeno della coscienza di sé, dell’autoconsapevolezza, possiamo infatti esser certi che si tratta di un’esclusiva umana. E forse ha ragione Gee quando avanza il sospetto che la distinzione netta fra umanità e resto della creazione sia un fenomeno relativamente recente, a fronte del rispetto e della considerazione verso le «creature non umane» attestati nei miti e nel folklore. 

 

A questa agguerrita, documentata, spesso divertente requisitoria contro la pretesa dell’uomo di rappresentare un’eccezione, un unico elemento sembra resistere: l’inclinazione a raccontare storie. Non a caso, proprio la tendenza contro la quale Gee, per altri versi (come abbiamo visto) ci mette in guardia. Del resto, anche lui a suo modo racconta, e ovviamente ne è del tutto consapevole: raccontare è cosa di cui non sappiamo fare a meno. Quello che Gee vuol dirci – cito di nuovo Pievani – è che ci sono storie e storie. E su questo è davvero difficile dargli torto. 

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