Ritratti d’artista ad alta voce / Francisco de Zurbarán (1598-1664)

31 Dicembre 2021

È stato sette anni fa, alla Galleria Nazionale di Stoccolma, che ho cominciato a interessarmi veramente a Zurbarán. Zurbarán, che in vita, nel corso del xvii secolo, era famoso, ha ripreso a parlarci alla fine del nostro secolo, il xx. Vorrei cercare di spiegarmi perché sia successo.

Il dipinto di Stoccolma che mi ha fatto tornare sui miei passi è stato Il velo della Veronica. (Ne dipinse varie versioni.) Il fazzoletto bianco è affisso a una parete scura. Il suo realismo è tale da rasentare il trompe l’œil. Sul lino bianco (o è cotone?) sono rimaste le tracce del viso macilento e tirato di Cristo, che porta la croce sul Golgota. L’impronta del viso è color ocra e monocroma, come si addice a un’immagine disegnata dal sudore.

 

La tela di Stoccolma mi ha permesso di capire qualcosa che vale, io credo, per qualsiasi opera visiva capace di impressionarci. La pittura deve innanzitutto convincerci – all’interno dell’uso particolare del linguaggio pittorico scelto – di cosa c’è lì, della realtà di quanto rappresenta. Nel caso di Zurbarán, del fazzoletto appeso alla parete. Qualsiasi dipinto che abbia una sua forza offre prima di tutto questa certezza. E poi propone un dubbio. Il dubbio non riguarda cosa c’è lì, ma dove si trova.

Dov’è il volto impresso così lievemente sul fazzoletto? Quale punto dello spazio e del tempo stiamo osservando? È lì, sfiora e addirittura impregna la realtà del tessuto, ma la sua posizione precisa è un enigma.

 

Iaia Forte, ph T. Salamina.


Davanti a qualsiasi dipinto che susciti ammirazione si scopre il medesimo enigma. In un punto della tela la continuità dello spazio (la logica della posizione) si spezza e al suo posto subentra una discontinuità ossessionante. Vale per un Caravaggio o un Rubens, come per un Juan Gris o un Beckmann. Le immagini dipinte sono sempre contenute entro uno spazio infranto. Ogni periodo storico ha un sistema tutto suo di rompere la continuità. Tintoretto, per esempio, crea una frattura tra primo piano e sfondo. Cézanne scambia miracolosamente il vicino con il lontano. Eppure siamo ogni volta costretti a domandarci: ciò che mi mostrano, ciò a cui vogliono farmi credere, dov’è esattamente? La prospettiva non è in grado di dare risposta a questo quesito.

L’interrogativo è concreto e simbolico insieme, giacché ogni immagine dipinta di qualcosa parla anche dell’assenza della cosa reale. Tutta la pittura parla della presenza dell’assenza. È per questo che gli uomini dipingono. La rottura dello spazio pittorico confessa la nostalgia dell’arte.

 

All’origine di quest’opera comunitaria c’è un sentimento di gratitudine. Per l’ospitalità che John Berger ci offre con e nei suoi testi raccolti in Ritratti (il Saggiatore 2018), per la sua scrittura che invita amorosamente a guardare e guardare ancora, con attenzione e sorpresa, per la sua capacità di portarci con sé negli atelier degli artisti e nel mistero del loro fare, nel tempo e nello spazio.

Ascolta la versione integrale del podcast Per John B. su Okta Film. Un progetto a cura di Maria Nadotti.

 

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