Furio Jesi scrittore. A proposito de L'ultima notte
In un testo inedito, una “introduzione” ora in appendice ai Materiali mitologici (Einaudi 2001), Furio Jesi scrive di sé, in terza persona:
L’operazione gnoseologica che si compie in queste pagine è dunque, nelle intenzioni dell’autore [...] di natura paradossale, scientifica e artistica. Alla domanda: Non le viene voglia di scrivere un romanzo? L’autore di questo libro può solo rispondere: Non smetto mai di scriverlo.
La filosofia della cultura di Jesi, critico letterario, storico delle idee e mitologo, assegna alla letteratura un ruolo cruciale: sua una «tecnica di conoscenza per composizione», mutuata da Benjamin, in cui diverse “citazioni” testuali sono schegge che reagiscono reciprocamente e mostrano in nuova o diversa luce il soggetto della scrittura. Tale metodo critico e de-costruttivo, in modo particolare negli scritti degli anni Settanta si mostra una felice risorsa nell'ambito dell'analisi dei materiali mitologici; implica sempre un momento creativo e ri-costruttivo, a partire dal fatto che il recupero di ciò che in ogni testo è morto e passato avviene da parte di un’intelligenza viva e presente. Il suo lavoro sul mito è un interminabile romanzo perché, se il mythos è racconto, anche l’analisi della mitologia è soggetta alla narratività ed è inscritta in cornici narrative – come qualsiasi attività culturale. Di più: riflessione, narrazione e critica risultano solidamente fuse e rientrano in quella nozione di «macchina mitologica» che Jesi considerava il «fondamento oscuro del processo gnoseologico», avanzando cioè l'idea che i processi di conoscenza funzionino in modo analogo a quelli di mitopoiesi. Macchina mitologica, oltre la stretta accezione epistemologica che Jesi ha applicato alla studio della storia della “scienza del mito”, è anche la scrittura: significa saper gestire i meccanismi linguistici che presiedono alla produzione di senso e degli effetti di miticità in termini letterari e produrre nuova conoscenza, abitando e rimodulando la tradizione culturale; come ha fatto Thomas Mann, quando nel ciclo di Giuseppe si rivolge al mito biblico “umanizzandolo” attraverso l’ironia; o in Brecht, dove la precisa scelta, politica prima che estetica, dello straniamento rende possibile la distanza dall’immedesimazione totale e dallo stra-potere emozionale che soffoca la possibilità della critica razionale. In altri termini, si tratta di avere a che fare con una forma-mito che espone gli ingranaggi di funzionamento del suo meccanismo: nell'esibizione della modalità di costruzione della sua miticità, si mostra la sua infondatezza e la contingenza del suo essere artefatto umano, non voce dell'essere o presenza metafisica extra-umana. Inoltre, la scrittura scientifica e artistica trova la sua forma espressiva nel saggio, che meglio si confà a tale modalità conoscitiva perché è via personale, se non autobiografica, per organizzare la realtà. Lontano dal presentismo e dalla tecnicizzazione triviale, Jesi riteneva «inutile, inopportuno e vacuo studiare un testo poetico senza adoperarlo»: intendeva con ciò usare la ri-scrittura come uno specchio per riconoscere il proprio presente. Così, singolare scrittore di idee-immagini, ha eroso le membrane che separano letteratura e scienze umane e ha inteso il rapporto tra testo e critica in termini di osmosi.
Insieme alla saggistica che guarda alla scrittura “romanzesca” esiste il meno noto (e compiuto) sguardo inverso, quello di una fiction che si nutre del vasto mondo di interessi che da studioso ha abitato con grazia e intelligenza. Jesi, che da giovanissimo desiderava essere un umanista completo d'altri tempi, ha scritto prosa e poesia e ha affiancato l’attività scientifica a quella artistica (compreso quella pittorica e musicale d'avanguardia), di volta in volta intrecciandole o sovrapponendole con programmatiche collisioni. Il romanzo postumo L’ultima notte, edito per Marietti nel 1987, è ora ripubblicato da Aragno a cura di Giulio Schiavoni: la nuova edizione è corredata da un saggio di Schiavoni che ricostruisce la stesura del libro, avvenuta in più fasi tra il 1962 e il 1970, e la sua vicenda editoriale, che vede lettori-revisori come Italo Calvino e Guido Davico Bonino nell'Einaudi che ha pubblicato le importanti raccolte di saggi Letteratura e mito (1968) e il già citato Materiali mitologici (1979).
Per L'ultima notte, non pubblicato al suo tempo, Jesi ha elaborato due testi molto diversi, oltre a raccogliere -– come era suo stile – grandi quantità di super-testo che maturavano in cerca di sistemazione in cartelle meticolosamente archiviate. La nuova edizione presenta diverse varianti o parti inedite poi eliminate dalla versione finale, che restituiscono il senso di quell'officina letteraria; figura inoltre un prezioso ricordo del giovanissimo Furio scritto dall'amica di scuola e scrittrice Elisabetta Chicco, che restituisce lo sfondo culturale di una Torino dei tardi anni Cinquanta e soprattutto le avventure creative di geniali adolescenti di allora.
Arduo riassumere il romanzo che il suo autore definiva «vampirico»: dalle cantine riemergono, dopo un millenario esilio, i vampiri, antichi signori della Terra (e della “buona terra”), nobili e eleganti, aristocratici o contadini. Hanno zanne, ali e pelo come di coniglio; impegnati in una antica lotta con gli uomini, sono costretti a vivere nel buio e in luoghi remoti da tempi immemori e ora cercano la riscossa, nel nome del magnifico sire Dracula: infatti un volubile, poco interventista e inavvicinabile Nostro Signore pare deciso a restituire ai vampiri il ruolo di dominazione che spetta loro dopo che gli umani hanno fallito nella cura del mondo, dando il peggio di sé. Nello scenario di una guerra totale che avvampa in ogni dove, gli umani si mobilitano dando vita a una debole e frammentata resistenza contro la sicura e fulminea vittoria che le schiere vampiriche riportano, guidate dalle stelle delle giustizia divina e da una granitica volontà di riscatto. Tra gli umani, perdenti designati, con il consiglio del Grande poeta e sotto la guida del demone Astaróth Samaèl, arcinemico dei vampiri, prende corpo un progetto artistico minimale quanto ambizioso, volto a propiziare la divinità in favore degli umani; nello spettacolo il burattinaio Faraqàt, esperto in teatro d'ombre, assume un ruolo chiave. La scena, frammentata in capitoli-quadro anche molto eterogenei per tono e caratterizzazione, è concentrata in una città – una Torino trasfigurata dal gelo invernale – dove gli scontri sono più duri e dove la battaglia escatologica sembra trovare il suo centro. Il libro è animato di nomi, personaggi, luoghi, genealogie, stendardi, simboli: sono evocati i Carpazi, Costantinopoli, la Torre dei Gattelusi (sull'isola di Samotracia), la rocca di Alamut, Medina, la Bucovina, ma anche il Piemonte, il Midi o il Portogallo e luoghi remoti che sembrano provenire da carte geografiche di antichi imperi dimenticati. Ordini cavallereschi come il Toson d'oro e di Santo Stefano si incrociano con demoni dai nomi proibiti e personaggi mito-storici come il Marchese di Pombal o come la Gorgone, San Tommaso, ognuno nel suo ruolo ma ritratto in situazione improbabili e surreali. Le citazioni e i richiami storici, biblici o classici sono continui e talmente sottili da lasciare sconcertati lettori anche molto preparati, in un pastiche in cui abbondano «attenzione per le sette ereticali, divertissement e gusto della dissacrazione nei confronti della tradizione culturale, religiosa e letteraria» (Schiavoni) con un fitto ricamo di saperi anacronistici che attraversano i secoli, vie di conoscenza arcane che passano per lingue ancestrali, provocazioni espressioniste da anni Venti tedeschi.
Su tutto spicca l'allusione irridente alla dimensione iniziatica, o meglio al suo alone mitico e privo di aura sapienziale, grazie a un dispositivo ironico-surreale di volta in volta irresistibile e spiazzante. Jesi ha qui trasfuso fantasie infantili e adolescenziali divenute nel frattempo oggetti di studio, ha mischiato magia antica e rinascimentale, tradizione alchemica, vagonate di kitsch sacralizzante e immaginazione poetica in una ideale continuazione del lavoro dello studioso altri mezzi: per il conoscitore di Jesi i richiami ricorsivi a una medesima ininterrotta meditazione sono chiari e gustosi. Pennellate di inquietudine tellurica si alternano a meraviglia astrale, riscritture novecentesche si fondono con rinvii ai lirici greci o al carduccianesimo deteriore: ma se i temi sono coltissimi – con sentori che ricorderanno scrittori-studiosi come Borges, Eliade, Eco, Culianu – i trabocchetti si alternano a sprazzi di lirica visionaria, struggente o iperborea, con il tratto freddo e melanconico del filologo che ci ricorda mondi immaginati come migliori. Il mito viene evocato e allo stesso sconsacrato ma, soprattutto, non deve essere preso sul serio. In tempo reale Jesi appariva per temi e modalità di scrittura uno stravagante con fama di interessi occultisti, per dirla con Calvino «uno Zolla che gira a rovescio, a sinistra», interessante nel suo «volare con la scopa». Un'immagine distorta e incompleta che ha dato luogo a fraintendimenti di lungo periodo. A noi che abbiamo imparato ad apprezzare in Jesi il ricercatore che sonda gli sfondi irrazionali della razionalità con strumenti iper-razionali e che stana i tanti volti della “cultura di destra”, colpisce il disagio che la sinistra intellettuale provava per chi studiava l'“irrazionalismo” – nome di comodo per qualcosa di molto più complesso. Senza dimenticare l'odio che le destre tradizionalista ed esoterica continuano a nutrire per Jesi. Ancora Calvino – che invece non amò il tratto parodico de L'ultima notte – rileva che uno dei mood più interessanti del libro sia l'«incubo di lenta apocalisse» che giunge alla fine, nel clima notturno e visionario che circonda la battaglia. Jesi caratterizza il suo racconto attraverso l'ellissi, la divagazione e la scarsa visibilità di quello che avviene, mettendo nel suo libro più auspici, invocazioni, missive, benedizioni, devozioni che azione. In particolare nel tratteggiare i vampiri: «i quali suscitano poche avventure, lungo dolore» (Jesi a Calvino). Inutile cercare la chiave identificativa di una o più allegorie: la tecnica dell'essai cifrato e del fantasma privato distillata lungo il libro – i suoi libri – hanno messo in crisi i lettori ben più solidi di noi e rendono l'impresa inutile. Del resto, i libri di Jesi chiedono al lettore la costruzione di quella familiarità che si ottiene solo nel tempo e con la frequentazione. (Ma ci sono libri che non lo facciano?)
Il lettore apprezzerà alcune inquadrature come quella di una battaglia che si svolge all'interno di una guerra civile, un conflitto in cui in gioco sono identità e visioni del mondo irriducibili l'una all'altra. L'ultima notte è imparentato, per gli anni in cui è stato scritto, con il saggio Spartakus e ne mostra i tratti di famiglia. Il riferimento alla rivolta berlinese del 1919 sfuma nell’“attualità” e pare assumere toni generazionali: come non pensare che Torino è stata teatro di manifestazioni (e scontri) che attraversano la storia della militanza: solo per citare alcuni avvenimenti-chiave proprio tra il 1962, a luglio in Piazza Statuto, e il 1969, nel marzo con la manifestazione contro il “regime dei colonnelli” o in estate in corso Traiano nei pressi della Fiat. Altra potente metafora è quella del vampiro, al centro di un'altra opera di fiction di Jesi, La casa incantata (1982). Una chiave di lettura può essere individuata nel saggio Neoclassicismo e vampirismo e nei corsi universitari 1977-78 a Palermo, dedicati alle figure del vampiro e dell’automa nella cultura tedesca tra Sette e Ottocento: lì è la borghesia che, nel tentativo di autolegittimarsi, recupera il patrimonio mitologico cristiano-medievale e crea il corto circuito tra presente e passato, in termini simbolici ‘vita’ e ‘morte’; la storia delle idee mostra così la «disarmonia nei rapporti vita-morte, presente-passato, [...] uomo-natura» che svela la «situazione di crisi» e di conflitto con l'aristocrazia. Nel romanzo il “vampiro” si sovrappone all’“ebreo”, per via delle persecuzioni e della alterità: vale la pena di ricordare come Jesi, di origine ebraiche e lettore di cabala (e di Scholem), abbia dedicato ampio spazio allo studio dell'antisemitismo e dei suoi stereotipi; in L'accusa del sangue (1973) l'emofagia è intesa come prototipo di ogni stigmatizzazione paranoica dei “diversi”. Ma l'antisemitismo è anche cartina di tornasole del rifiuto della modernità da parte delle forze reazionarie (e rivoluzionario-conservatrici): un rigetto dell’emancipazione degli ebrei, simbolo di ogni emancipazione, in nome della mentalità che accompagna la violenza nazionalista e giustifica il colonialismo razzista. Nella produzione intellettuale di Jesi il vampiro è figura della memoria: come narratore di fiction egli rovescia le ragioni di ogni metafisica dell'identità e mette in luce quella delle culture dell'alterità; al vampiro sono sovrapponibili l’artista, il poeta, il bambino, lo studioso anacronistico, l’eccentrico, il flâneur, il marginale... Tutte variazioni su un soggetto inteso come progetto aperto, in via di costruzione e impegnato nell'autodeterminazione futura, che mette in discussione con la sua stessa esistenza ogni identità cristallizzata e fissa. Come l'opera complessiva, anche il romanzo di Jesi è aporetico e aperto. Se i vampiri rievocano il tempo delle origini, gli uomini portano i segni del tempo del nichilismo. Le figure meglio definite sono quelle anfibie tra i mondi: i personaggi come il Grande poeta, avvezzo al commercio con le tenebre (e devoto della Gorgone), e soprattutto Faraqàt, il burattinaio amico di vampiri e portatore di una infanzia continuata: sono anti-eroi del tempo utopico e dilazionato a cui tocca in sorte forse la fine, forse la costruzione di un futuro messianico. Il loro agire, forse fallimentare, è decisivo ed è la trama di ogni agire politico, che trova nella sua sofferta preparazione interna la sua espressione più radicale.