Gabriel Ferrater, l’ultimo partigiano della felicità
Gabriel Ferrater (Reus, 1922-San Cugat, 1972) è stato un poeta moderno (per favore, il suffisso “post” lasciamolo ai cecchini dell’originalità) e un essere umano eternamente innamorato: un figlio di Eros, insomma, e perciò con un piede sempre vicino alla fossa, alla ricerca costante della felicità amorosa: l’unica posta che possiamo mettere sul tavolo da gioco nella partita contro il tempo. Consapevole che il premio, accidentale come tutto il resto, non è la vita eterna, ma l’intensità dell’istante che non ci libera dalla morte, ma che ci permette almeno di guardarla negli occhi.
Da quando nel corso degli anni Novanta del secolo scorso ne ho scoperto l’opera, il poeta catalano è diventato un fiume alle cui rive, come ha scritto una volta Czesław Miłosz, «quando la vita fa male» ritorno spesso. In Italia non è molto noto. Anzi, credo sia poco conosciuto perfino dai poeti. Ah il silenzio dei poeti! Ignoranza o angoscia da prestazione? Invidia o mancanza di curiosità? Timore di perdere qualche particella di prestigio? Ma non sanno che l’oblio è più forte di tutte le reputazioni? Si tratta forse di refrattarietà a considerare l’altro, qualsiasi altro, come degno di considerazione? Forse aveva ragione un mio amico quando un giorno, mentre discutevamo del libro di Christopher Lasch La cultura del narcisismo (1979), se ne uscì dicendo: “Beh, la diagnosi di Lasch sul nostro tempo è grandiosa, ma per essere perfetta avrebbe dovuto contenere la vita e le opere di molti nostri poeti, creatori mediocri che a forza di isolarsi socialmente e di guardarsi tra di loro allo specchio raggiungono vette artistiche dove l’aria è talmente rarefatta da rischiare loro stessi la pelle!”.
Non si deve mai parlare poeticamente della poesia, ha scritto Witold Gombrowicz, per il semplice fatto che più l’artista è raffinato più deve tenere in conto gli uomini che lo sono meno. E Ferrater è stato un ardente ferdidurkiano per tutta la vita.
In Francia Ferrater è stato presentato e tradotto da William Cliff (1940), un altro poeta poco frequentato qui da noi. Artista belga francofono (Homo sum, 1973; Ecrasez-le, 1976; Immense Existence, 2007), Cliff fu iniziato alla poesia proprio da Ferrater. In Gran Bretagna la traduzione delle poesie dell’autore catalano si deve ad Arthur Terry (1927-2004). Studioso di letteratura spagnola del XVI e XVII secolo, negli anni Sessanta, in piena repressione franchista della cultura catalana, aveva vissuto un periodo a Barcellona, diventando amico di molti poeti della sua generazione. L’antologia delle poesie di Ferrater, uscita nel 2004 con il titolo Women and days, possiede un’introduzione di Seamus Heaney che sempre negli anni Sessanta, a Belfast, grazie al professor Terry, aveva avuto modo di conoscere la situazione catalana (per certi versi simile a quella irlandese) e l’opera di Ferrater. In Catalogna e in Spagna Ferrater è un poeta di culto, tanto da essere diventato, a causa della sua vita “dissipata” e del suo suicidio “programmato” (a trentacique anni, in un caffè di Plaza Prim, a Reus, aveva confidato a un amico, Jaime Salinas, che si sarebbe ucciso prima di compiere cinquant’anni anni: «Non voglio puzzare di vecchio. Quel tanfo mi ha sempre ripugnato»), persino un personaggio romanzesco (si veda Beatriz Miami di José Antonio Masoliver del 1991 e Momentos decisivos di Félix de Azúla del 2000). Il fratello Joan, anch’egli uomo di lettere e curatore delle opere di Gabriel, ne traccia con discrezione un profilo.
Nascita a Reus nel 1922; l’educazione solitaria; gli anni della guerra civile e l’emigrazione (1938-1941) in Francia, a Bordeaux; le letture in originale degli scrittori e dei poeti francesi; il suo interesse per le lingue (legge in inglese e in tedesco) che sfocerà più tardi nella passione per gli studi di linguistica (tradurrà Chomsky e Bloomfield); il servizio militare (venticinque mesi tra il 1943 e il 1946); l’amore per la filosofia (Ortega y Gasset, Husserl, Scheler, Heidegger), la logica (Hilbert, Godel, Russell, Wittgenstein, Carnap, Ayer), la matematica (nel 1947 si iscrive alla Facoltà di Scienze Esatte di Barcellona, ma non terminerà mai gli studi) e per la pittura (alla fine degli anni Quaranta si mette a dipingere e negli anni Cinquanta scrive diversi articoli di critica d’arte); la morte del padre nel 1951; le amicizie con Carlos Barral (poeta e fondatore della casa editrice in cui Gabriel lavorerà come traduttore, fra gli altri di Kafka, e redattore cosmopolita.
È soprattutto grazie a lui se Gombrowicz riceverà, di ritorno dall’Argentina, il Prix Formentor nel 1967) e Jaime Gil de Biedma; l’incontro con uno dei suoi maestri, Carles Riba; le donne (quasi sempre più giovani); il gin; le letture di Catullo, della poesia medievale (March), di Shakespeare e della poesia di lingua inglese (Donne, Hardy, Frost, Ransom, Graves, Auden), ma anche di Brecht (Gabriel dirà che se Shakespeare gli aveva fatto capire che in poesia «si può dire tutto», Brecht è stato colui che per primo gli aveva fatto comprendere che «la poesia può fare a meno di molti lussi»); le donne (sempre più giovani); il gin; la crisi sentimentale del 1958; l’inizio della creazione poetica; i tre libri di poesia: Da nucis pueris (1960), Menja’t una cama (1962) e Teoria dels cossos (1966), poi riuniti nel 1968 in Les dones i els dies; un serio tentativo di fuga ad Amburgo come lettore presso la casa editrice Rowohlt; il ritorno dopo un anno a Barcellona; il matrimonio nel 1967 a Gibilterra con la giovane e bellissima Jill Jarrell (che durerà due anni); l’appartamento di Sant Cugat del Vallès (dove si suiciderà); le conferenze e gli scritti di linguistica (Sapir, il più amato, Bally, Kurylowicz, Meillet, Benveniste); la redazione di una grammatica catalana…
Il ritratto più fedele di Ferrater è tuttavia quello che si trova nelle pagine di F., un memoir romanzesco uscito nel 2003 scritto da uno degli autori più importanti della Spagna contemporanea, Justo Navarro. Più fedele perché costruito come un’interrogazione. Una sorta di rapporto investigativo sulla vita e la morte di quell’enigma longilineo dagli immancabili occhiali neri, straniero in patria, sarcastico e «partigiano della felicità», timido fino alla balbuzie e insolente fino al cinismo, disciplinato come un benedettino in letteratura e autodistruttivo come un adolescente nella vita, nemico in poesia di ogni romanticismo e smisurato nel dilapidare le sue energie nei caffè di Barcellona di nome Ferrater, il quale diceva di conoscere, senza nessuna falsa modestia (questo cane ferito sempre pronto a guaire in ogni scrittore) da dove veniva e come era giunto dove si trovava e che forse proprio per questo affermava che una poesia doveva essere costruita come una lettera commerciale: chiara, lucida, sensata, appassionata (la passione etica che caratterizza chi compie il proprio dovere immaginativo) ed anche divertente, concreta, impersonale (nel senso di storica, non confessionale), ordinaria, fisica, colloquiale, discorsiva (come gli antichi pensava che il contenuto fosse più importante o almeno tanto importante quanto la forma), critica, ironica, avversaria di ogni ideologia, foss’anche quella dell’amore, frutto, insomma, come qualsiasi altra azione umana, di un’operazione intelligente: «Si può perdonare a un poeta di mancare di qualche strumento, ma non riesco a perdonare molti poeti di oggi che riservano alla poesia i loro stupori, tanto che i loro versi offrono un’immagine tanto sciocca degli autori che non può essere quella di nessuna persona viva, poiché una vita non si conserva se non è ben attenta alle leggi del denaro e ai movimenti degli uomini e delle donne».
L’unica antologia poetica di Ferrater in italiano è uscita da poco nella collana Biblioteca di Poesia (Metauro, Pesaro) a cura di Pietro U. Dini e con uno scritto di Jaime Salinas con il titolo Curriculum vitae. Poesie 1960-1968. Pietro U. Dini, forse il più importante traduttore e conoscitore della lingua e della cultura lituane – a lui si deve, ad esempio, la sola antologia poetica (Cinquantuno poesie e una lettera, In forma di parole, 2003) di Tomas Venclova (1937), un poeta che già Brodskij riconobbe come uno dei più importanti della sua generazione – da un po’ si è messo a coltivare altre lingue europee. Lingue apparentemente periferiche, come il catalano. Tuttavia, Pietro, come me, pensa che una cultura davvero universale non può fare a meno di nessuna cultura nazionale: che cosa sarebbe la storia del romanzo mondiale senza le saghe composte tra il XII e il XIV secolo in Islanda, un paese che ancora oggi conta poco più di trecentomila abitanti? Basta che all'appello manchi un solo nome, Ferrater, ad esempio, e la poesia mondiale non è più la stessa.