Speciale

Genova per mare

24 Agosto 2024

“Partirono di notte. [...] Gli sembrava di sognare a occhi aperti. «Dicono che quando ci si accinge a cose gravi si fanno sogni preparatori».

Sul mare ci si sente orfani, il navigante si strugge per tutto ciò che ha lasciato e ricompone i conflitti che a terra dividevano il male dal bene. Si scende in una specie di grande valle, si entra in contatto con l’universo e i messaggi che arrivano da terra sembrano quelli di una cattedrale evanescente. Si getta sul mare uno sguardo che ha sempre qualcosa di perduto. L’uomo di terraferma crede che il marinaio sia felice di andare, non sa che è intessuto di angoscia e sogni e che gli sembra di percorrere una via che non conduce a nessun luogo. Per questo si affeziona agli strumenti che gli fanno tenere le rotte e lo porteranno da qualche parte. Il marinaio non arriva mai nel suo, non ha possessi, il suo sguardo anche più attento è sempre muto. Parla per farsi compagnia, oppure tace, e quando parla, spesso delira, non vuol convincere nessuno. [...]

Ormai l’Hondurian, vecchia carretta che teneva bene, prendeva il largo, proprio adesso che si stava avvicinando alla Liguria, alle sue rive argentate. «Ma tanto, – pensava Edoardo, – avrei cercato ciò che ho già visto, ciò che già conosco». Tuttavia uno sguardo alla costa scoscesa, al Grammondo bianco e perduto nel cielo l’avrebbe dato volentieri.

Si vedevano ancora i fari di Cap d’Armes e di Cap Camarat, entrambi di luce bianca, uno a gruppi di due e l’altro a gruppi di quattro lampi. Poi Cap d’Armes, portata ventitré miglia, sparì nell’orizzonte. Veder scomparire un faro era allontanarsi da un messaggio, da un avviso. E Cap Camarat ormai agonizzava alto, per riflesso, sopra la curva terrestre.

Lasciò il ponte e andò a riposare. Sempre più calmo il rullio della nave: filava liscia come l’olio. Nel dormiveglia (o nel sogno?) gli comparve sua madre. Era seduta su uno di quei poggi di Liguria, di un secco argento in inverno, di un’aria fresca in estate. Sorrideva, anche negli occhi.

– Di che cosa credi che sia morta?

– Ma, non so, il sangue... goccia a goccia...

– No, non è stata l’emorragia cerebrale. Sono morta di malinconia... Hai seminato di lutti il tuo cammino.

Si alzò e tornò in coperta. Su un settore dell’orizzonte soffiava il vento. C’erano alti cirri disposti su lunghe strisce, con aloni dorati. Divergevano da un quadrante verso cui si dirigeva la depressione con nembi carichi di pioggia. Ma nella coda il tempo era già chiaro e lasciava posto a un azzurro ove passavano dei diamanti”.

Nel romanzo Attesa sul mare (1994) di Francesco Biamonti (San Biagio della Cima, 1928 – 2001) Edoardo, il protagonista, deve portare clandestinamente un carico di armi da Marsiglia a Neum, in Bosnia. Edoardo è ligure, come Biamonti. Come anche Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 1888 – Savona 1967), che alla sua terra ha dedicato questa poesia (1922):

LIGURIA

Scarsa lingua di terra che orla il mare,
chiude la schiena arida dei monti;
scavata da improvvisi fiumi; morsa
dal sale come anello d’ancoraggio;
percossa dalla fersa; combattuta
dai venti che ti recano dal largo
l’alghe e le procellarie
– ara di pietra sei, tra cielo e mare
levata, dove brucia la canicola
aromi di selvagge erbe.

Liguria,
l’immagine di te sempre nel cuore,
mia terra, porterò, come chi parte
il rozzo scapolare che gli appese
lagrimando la madre.

Ovunque fui
nelle contrade grasse dove l’erba
simula il mare; nelle dolci terre
dove si sfa di tenerezza il cielo
su gli attoniti occhi dei canali
e van femmine molli bilanciando
secchi d’oro sull’omero – dovunque,
mi trapassò di gioia il tuo pensato
aspetto.

Quanto ti camminai ragazzo! Ad ogni
svolto che mi scopriva nuova terra,
in me balzava il cuore di Caboto
il dì che dal malcerto legno scorse
sul mare pieno di meraviglioso
nascere il Capo.

Bocconi mi buttai sui tuoi fonti,
con l’anima e i ginocchi proni, a bere.
Comunicai di te con la farina
della spiga che ti inazzurra i colli,
dimenata e stampata sulla madia,
condita dall’olivo lento, fatta
sapida dal basilico che cresce
nella tegghia e profuma le tue case.
Nei porti delle tue città cercai,
nei fungai delle tue case, l’amore,
nelle fessure dei tuoi vichi.

Bevvi
alla frasca ove sosta il carrettiere,
nella cantina mucida, dal gotto
massiccio, nel cristallo
tolto dalla credenza, il tuo vin aspro
– per mangiare di te, bere di te,
mescolare alla tua vita la mia
caduca.
Marchio d’amore nella carne, varia
come il tuo cielo ebbi da te l’anima,
Liguria, che hai d’inverno
cieli teneri come a primavera.
Brilla tra i fili della pioggia il sole,
bella che ridi
e d’improvviso in lagrime ti sciogli.
Da pause di tepido ingannate,
s’aprono violette frettolose
sulle prode che non profumeranno.

Le petraie ventose dei tuoi monti,
l’ossame dei tuoi greti;
il tuo mare se vi trascina il sole
lo strascico che abbaglia o vi saltella
una manciata fredda di zecchini
le notti che si chiamano le barche;
i tuoi docili clivi, tocchi d’ombra
dall’oliveto pallido, canizie
benedicente a questa atroce terra:
– aspri o soavi, effimeri od eterni,
sei tu, terra, e il tuo mare, i soli volti
che s’affacciano al mio cuore deserto.

Io pagano al tuo nume sacrerei,
Liguria, se campassi della rete,
rosse triglie nell’alga boccheggianti;
o la spalliera di limoni al sole,
avessi l’orto; il testo di garofani,
non altro avessi:
i beni che tu doni ti offrirei.
L’ultimo remo, vecchio marinaio
t’appenderei.

Ché non giovano, a dir di te, parole:
il grido del gabbiano nella schiuma
la collera del mare sugli scogli
è il solo canto che s’accorda a te.

Fossi al tuo sole zolla che germoglia
il filuzzo dell’erba. Fossi pino
abbrancato al tuo tufo, cui nel crine
passa la mano ruvida aquilone.
Grappolo mi cocessi sui tuoi sassi.

j
Opera di Gustave Courbet.

Anche Eugenio Montale (Genova, 1896 – Milano, 1981) era ligure, e da ragazzo passava le estati nella casa di famiglia, a Monterosso. Di quel paesaggio, di quel mare “scabro ed essenziale” parlano molti dei suoi Ossi di seppia (1925; edito a Torino dal genio di Piero Gobetti). Per esempio questo, che si apre con l’aggettivo “antico” riferito al mare:

MEDITERRANEO

Antico, sono ubriacato dalla voce
ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi la tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarsi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.

Riscritture di Sbarbaro, dei Murmuri ed echi (1912) di Mario Novaro, di Debussy, tra La mer e La cathédrale engloutie; e quell’immedesimazione tra il poeta e il mare (“il piccino fermento / del mio cuore non era che un momento / del tuo”) come se umano e non-umano coincidessero, ben prima che questa idea diventasse un vezzo, un prodotto o una moda.

Qualche anno addietro, Dino Campana (Marradi, 1885 – Scandicci, 1932), offre all’amata città di “Genova, tortuosa di bianchi azzurri palazzi marini elettrica nuda di colli coronata di pietra”, più di un testo dei suoi Canti orfici (1914), e in particolare l’omonimo poemetto che chiude la raccolta. E da Genova Campana era partito, probabilmente nel 1907, per andare in Argentina, passando per l’arcipelago di Capo Verde e approdando a Montevideo, sull’estuario del Río de la Plata:

VIAGGIO A MONTEVIDEO 


Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando

Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzi ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:....
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzi
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave

Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno 

Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna

Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolio di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune

Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume, 

Del continente nuovo la capitale marina.

Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune

Anche Edmondo De Amicis (Oneglia, 1846 – Bordighera, 1908) descrive il viaggio dal porto di Genova a quello di Montevideo, nel suo Sull’oceano (1889): con molta meno furia poetica, ma più dovizia di particolari e un ottimo stile giornalistico, da reportage. Ecco le pagine che raccontano la fine della lunga traversata e l’avvistamento della terra americana:

“Oltre che per l’altre ragioni, si desiderava impazientemente d’arrivare anche per questa, che, in fine d’una lunga navigazione, s’è stanchi irritati da non poterne più di quella perpetua danza di linee, di quel continuo accorciarsi, piegarsi e ritorcersi a cui s’è costretti dall’angustia d’ogni cosa, e da quell’eterno odor di salsedine, di catrame e di legno. Che allegrezza sarà riveder le strade, fiutar l’odore della campagna, e coricarsi fra quattro muri verticali, non sentendo più che la casa che ci ricetta ha un palpito di vita propria, da cui dipende la nostra! Per caso, s’era passati a notte fitta davanti alle isole Canarie e a quelle del Capo Verde, e per la stessa ragione non s’era vista nemmeno quella piccola isola di Fernando de Noronha, del Brasile, che desideravano tutti per veder rotta almeno un momento la monotonia di quell’interminabile mare. Non un palmo di terra dallo stretto in poi, in diciotto giorni. Mi pareva che se ne avessi avuto una zolla nelle mani l’avrei rivoltata e odorata con piacere, come un frutto proibito. Infine, tra poche ore ne avremmo avuto da saziarsi: due pezzi di trentotto milioni di chilometri quadrati, in forma di due belle pere allungate, equivalenti ciascuna a una settantina di Italie. [...]

j
Opera di Gustave Courbet.

Siccome si credeva d’arrivare a Montevideo di pieno giorno, così, fin dalla mattina all’alba, cominciò fra gli emigranti un lavoro di ripulitura generale, affrettato e rude, chè volevano salvare al possibile il decoro nazionale, non presentandosi all’America in aspetto di pezzenti lerci e selvatici. L’acqua dolce essendo distribuita con profusione, per esser l’ultimo giorno, era un lavamento furioso, come d’una folla di cavatori usciti da una miniera di carbone, un tuffar di teste nelle gamelle, una musica di soffi e di sbuffi, e spruzzi d’acqua da ogni lato, che parea che piovesse. Molti spingevano vigorosamente il pettine a traverso a foreste capillari rimaste vergini da Genova in poi; altri, coi piedi nudi, si pulivan le scarpe a sputi e a cenciate; e chi spazzolava, chi sbatteva, chi passava in rivista i suoi panni spiegazzati e spelati. Il barbiere veneto, imitatore dei cani, aveva aperto bottega all’aria libera, vicino all’opera morta di sinistra, dove gli scorticandi, seduti in lunga fila come i turchi sulle piazze di Stambul, aspettavano il loro turno, grattandosi le guance a due mani e motteggiando fra loro. Si vedevano biancheggiare a centinaia colli e braccia nude di bimbi scamiciati e di donne in gonnella. Alcune si pettinavano l’una coll’altra, o spopolavano la testa ai ragazzi; altre rabbriccicavano in furia giacchette e calzoncini, o vuotavano sacche e valigie logore in cerca di panni freschi o di biancheria, e in quell’allegrezza che aveva ravvivato la cordialità, le famiglie si prestavano mille piccoli servizi, con grande ricambio d’insistenze e di ringraziamenti ad alta voce. Un fremito di vita giovanile correva da tutte le parti E al disopra del mormorìo vivo della folla, s’udivan di tratto in tratto delle grida: – Viva l’America! – o dei trilli acuti in falsetto, come li fanno i popolani dell’alta Italia, in fondo a ogni strofa di canzonetta. Alla colazione, rallegrata da un suon di pifferi e di zampogne, fu fatta una distribuzione straordinaria di galletta, di cui tutti s’empiron le tasche, e il «cambusiere» mescè senza possa rum e acquavite come un cantiniere di reggimento il giorno della battaglia. Dopo di che, tutti i passeggieri, appoggiati al parapetto o seduti, si voltarono verso occidente, ad aspettare l’apparizione del nuovo mondo. 

Ma le ore passarono, e la terra non spuntava. Il cielo era sparso di nuvole, ma l’orizzonte sgombro, e il mare presentava sempre la sua linea azzurra nettissima, senza un’ombra di promessa. Dopo il mezzogiorno i passeggieri cominciarono a dar segni di stanchezza. A quella gente che aveva avuto tanta pazienza per tre settimane, non ne rimaneva più un briciolo per le ultime ore. [...]

Il marinaio gobbo [...] lustrava la maniglia d’ottone dell’uscio, canterellando una canzonetta ligure 

Gh’ëa na votta na bælla figgia 

con una voce strascicata e nasale, che mi addormentava. 

A un tratto il canto cessò, come se l’attenzione del marinaio fosse improvvisamente attirata altrove, e udii dalla parte del palco un grido altissimo – lungo – interminabile – lamentevole: 

– L’America! 

Mi corse un brivido per le vene. Fu come l’annunzio d’un grande avvenimento inatteso, la visione immensa e confusa d’un mondo, che mi ridestò tutt’in un punto la curiosità, la maraviglia, l’entusiasmo, la gioia, e mi fece scattare in piedi, con un’ondata di sangue alla fronte. 

Un altro grido, ma di mille voci, rispose a quel primo, e nello stesso tempo il piroscafo s’inclinò fortemente a destra sotto il peso della folla accorrente. 

Corsi sul cassero, cercai all’orizzonte... Per qualche momento non vidi nulla. Poi, aguzzando lo sguardo, distinsi una striscia rossastra che si perdeva a destra e a sinistra in due lingue sottili, simile a una nuvola leggerissima che lambisse la faccia del mare. 

E stetti qualche minuto a guardare, stupito come gli altri, senza sapere di che. Molte esclamazioni proruppero intorno a me. – Estàmos a casa! – Ghe semmo finalmente! – Quatre heures, vingtcinq minutes! – esclamò il marsigliese, guardando l’orologio: – l’heure que j’avais prevue. – Ecco la vera tierra del progreso – gridò il mugnaio. – Il tenore disse semplicemente, con l’aria di dire una cosa profonda: – L’America! – La signora grassa, sovreccitata, chiamava l’uno e l’altro per nome, fraternamente, per pregarli che guardassero, che facessero festa a quel lembo di terra, ch’essa vedeva forse assai più vasto di noi. La sola faccia che rimaneva chiusa era quella del garibaldino, e al vederlo, provai un nuovo senso di ripulsione per lui, parendomi che fosse troppo, che fosse una miseria ignobile alla fine quella di veder tutto l’universo morto perché son morte quattro povere illusioni nel nostro povero cuore”. 

Da Genova, ancora, rispondono le voci di Giorgio Caproni (Livorno, 1912 – Roma, 1990):

SPIAGGIA DI SERA (da Come un’allegoria, 1936)

Così sbiadito a quest’ora
lo sguardo del mare,
che pare negli occhi
(macchie d’indaco appena
celesti)
del bagnino che tira in secco
le barche.


Come una randa cade
l’ultimo lembo di sole.


Di tante risa di donne,
un pigro schiumare
bianco sull’alghe, e un fresco
vento che sala il viso
rimane. 

E di Fabrizio De André (Genova, 1940 – Milano, 1999):

CRÊUZA DE MÄ

Umbre de muri muri de mainé
dunde ne vegnì duve l’è ch’ané
da ‘n scitu duve a l’ûn-a a se mustra nûa
e a neutte a n’à puntou u cutellu ä gua
e a muntä l’àse gh’é restou Diu
u Diàu l’é in çë e u s’è gh’è faetu u nìu.

MULATTIERA DI MARE  Ombre di facce facce di marinai / da dove venite dov’è che andate / da un posto dove la luna si mostra nuda / e la notte ci ha puntato il coltello alla gola / e a montare l’asino c’è rimasto Dio / il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido.

Fonti:

F. Biamonti, Attesa sul mare, Einaudi, Torino 1994, pp. 66 e 68;

C. Sbarbaro, Rimanenze (1955, ma 1922), in L’opera in versi e in prosa, Garzanti, Milano 1985, pp. 97-99;

E. Montale, Ossi di seppia (1925), in L’opera in versi, Einaudi, Torino 1980, p. 52;

D. Campana, Canti Orfici e altre poesie, a cura di R. Martinoni, Einaudi, Torino 2003 e 2014, pp. 56-7;

E. De Amicis, L’America, in Sull’oceano (1889) – ora leggibile su wikisource.org;

G. Caproni, Come un’allegoria (1936), in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1983, p. 21;

F. De André (con M. Pagani), Crêuza de mä, Dischi Ricordi, Milano 1984.

In copertina, opera di Gustave Courbet, Calm sea, 1869.

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