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Nevi

21 Settembre 2024

“Quel mattino lo svegliò il silenzio. Marcovaldo si tirò su dal letto col senso di qualcosa di strano nell’aria. Non capiva che ora era, la luce tra le stecche delle persiane era diversa da quella di tutte le ore del giorno della notte. Aperse la finestra: la città non c’era più, era stato sostituita da un foglio bianco. Aguzzando lo sguardo, distinse, in mezzo al bianco, alcune linee quasi cancellate, che corrispondevano a quelle della vista abituale: le finestre e i tetti e i lampioni lì intorno, ma perdute sotto tutta la neve che c’era calata sopra nella notte.

- La neve! – gridò Marcovaldo alla moglie, ossia fece per gridare, ma la voce gli uscì attutita. Come sulle linee e sui colori e sulle prospettive, la neve era caduta sui rumori, anzi sulla possibilità stessa di far rumore; i suoni, in uno spazio imbottito, non vibravano.

Andò al lavoro a piedi; i tram erano fermi per la neve. Per strada, aprendosi lui stesso la sua pista, si sentì libero come non s’era mai sentito. Nelle vie cittadine ogni differenza tra marciapiedi e carreggiata era scomparsa, veicoli non ne potevano passare, e Marcovaldo, anche se affondava fino a mezza gamba ad ogni passo e si sentiva infiltrare la neve nelle calze, era diventato padrone di camminare in mezzo alla strada, di calpestare le aiuole, d’attraversare fuori delle linee prescritte, di avanzare a zig-zag.

Le vie e i corsi si aprivano sterminate e deserte come candide gole tra rocce di montagne. La città nascosta sotto quel mantello chissà se era sempre la stessa o se nella notte l’avevano cambiata con un’altra? Chissà se sotto quei monticelli bianchi c’erano ancora le pompe della benzina, le edicole, le fermate dei tram o se non c’erano che sacchi e sacchi di neve? Marcovaldo camminando sognava di perdersi in una città diversa [...]”

Difficile non ricordare questo celebre brano di Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, Cuba, 1923 – Siena, 1985), dal fortunato Marcovaldo ovvero le stagioni in città (1963). L’effetto della neve, ci ricorda Calvino, è l’azzeramento del paesaggio come lo si è sempre visto e conosciuto: le linee e i volumi diventano puri accenni, i suoni e i rumori vengono attutiti, ogni cosa sembra avvolta in un alone di magia. Il candore, poi, richiama la purezza, l’infanzia, l’innocenza, la possibilità di immaginare un mondo diverso, forse addirittura un nuovo inizio (non per niente un proverbio contadino recita: sotto la neve, pane). Così, ai versi di Nerina Noro (San Gallo, Svizzera, 1908 – Vicenza, 2002):

NÈVEGA

Nèvega
sora i vivi
e sora i morti.
‘Na mano de bianco
a sto luamaro.
Nèvega.
Dio
che ciaro!

(Nèvega: Nevica. sora: sopra. luamaro: letamaio. ciaro: chiaro)

j

rispondono quelli di Umberto Saba (Trieste, 1883 – Gorizia, 1957):

NEVE 

Neve che turbini in alto ed avvolgi
le cose di un tacito manto,
una creatura di pianto
vedo per te sorridere; un baleno
d’allegrezza che il mesto viso illumini,
e agli occhi miei come un tesoro scopri. 

Neve che cadi dall’alto e noi copri,
coprici ancora, all’infinito. Imbianca
la città con le case e con le chiese,
il porto con le navi; le distese
dei prati, i mari agghiaccia; della terra
fa’ – tu augusta e pudica – un astro spento,
una gran pace di morte. E che tale
essa rimanga un tempo interminato,
un lungo volger d’evi. 

Il risveglio,
pensa il risveglio, noi due soli, in tanto
squallore. 

In cielo
gli angeli con le trombe, in cuore acute
dilaceranti nostalgie, ridesti
vaghi ricordi, e piangere d’amore. 

Anche Anna Maria Ortese (Roma, 1914 – Rapallo, 1998) ha scritto della neve, naturalmente a modo suo:

“[...] Giunsi così ai Giardini, e qui mi accorsi che nevicava veramente, molto. La neve cadeva dal cielo come un turbine luminoso, e, a fissarla, sembrava che risalisse continuamente in alto. Saliva e scendeva. Come era bella! Non toccava terra, sfiorava appena, coi suoi fiocchi larghi e trasparenti, i rami di certi alberi, e dileguava. Sembrava una mano che voglia scrivere una cosa immensa, o accarezzare una fronte, e continuamente si penta, tremi, svanisca. Si provava un desiderio vago e profondo di sentirsi rapiti in quella veste di luce, staccarsi dal nero suolo e fuggire dove tutto è serenità, musica, gioia. Ah, perché non poteva essere?

C’era una panchina, dove m’inoltrai. Mi sedetti, E stringendo intorno al viso il bavero alzato del cappotto, rimasi quietamente a guardare. In quell’andirivieni del turbine bianco, in quella calma magnifica, come se un tappeto di velluto bianco andasse avvolgendosi in fretta intorno al mondo, sentivo un’eco armoniosa e remota di quell’orologio, un canto di ore. Io andavo ricordandomi di molte cose, ma senza febbre: rivedevo mia madre e mio padre, le mattine di sole nel giardino, ascoltavo il rumore incessante del vento di marzo sulla collina. [...] 

Ah, che cosa avrei dato [...] perché tutto rimanesse così, senza forma né nome. Mi alzai dalla panchina, vacillando, fissando lo sguardo, come potevo, davanti a me, mi diressi dove pensavo fosse l’uscita.

Ma l’uscita non c’era più, o almeno non si vedeva a causa della neve ch’era caduta. Molti alberi, invece, si vedevano: uscivano quasi dal suolo con le loro radici nere contorte, e alcuni sembravano uomini che, privi di tutto, alla fine della loro vita, rannicchiati contro un muro piangono. E su questi esseri, in un silenzio puro, assoluto, la neve continuava a scendere. Io camminavo in mezzo ad essi, E avrei detto che, tacitamente, al mio passaggio, si scostassero. Mai, nei Giardini, avevo saputo se trovassero tanti alberi, e così sensibili. La loro vista cominciava ad opprimermi, a spaventarmi. Perché soffrivano? Io stavo bene, molto bene. No, non era per me. [...]

j

Un cartello, di grandi dimensioni, simile in tutto a quelli che si rincorrono sulle autostrade, stava in cima a un paletto infisso nel terreno, e su questo cartello, a lettere gigantesche, di un verde brillante, io vidi scritte queste parole:

«SILENZIO. SPARITI. TRANQUILLITÀ.»

«Spariti» era la parola che fissavo più di ogni altra, abbagliata. Essa svegliava degli echi e dei sospetti così profondi nel mio cuore, che un vero terrore succhiò il caldo della mia fronte, e per un attimo l’immobilità stessa e io ci abbracciammo.

«E ancora» mi dissi a un tratto, uscendo da quell’orrore con un sospiro, «ancora s’insiste a collocare cartelli sui prati, come se non fosse provata la loro inutilità...» E, così dicendo, gli occhi pieni di lacrime di cui non v’era alcuna ragione, mi andarono lontano per un largo spiazzo dove, una volta, c’era stato un monumentino a Cavour. Il monumentino non c’era più, ma, al suo posto, un altissimo albero scintillante.

Questa volta non mi dissi nulla, ma, scuotendomi, ma respingendo l’angoscia che urtava come un uccello impazzito contro le pareti del mio cranio, cercai di vedere in quel solitario altissimo albero di ghiaccio che mi sorgeva davanti, solo un artificioso e puerile albero di Natale. Ma, su quei rami non era che ghiaccio, anche il tronco era coperto di ghiaccio, e la vetta, né vi brillava altra luce che non fosse di ghiaccio. Qua e là dal bianco, uscivano certi unghioli acuminati, del cupo azzurro che ha il ghiaccio, e splendevano.

Una suprema necessità di ignorare il senso di quanto accadeva, mi spinse fin sotto quell’albero per ammirarne, come qualsiasi cittadino, l’invernale trasfigurazione, e stavo lì, sorridendo e piena insieme di freddo e dolore, quando l’albero si mosse, e così carico e scintillante del suo gelido peso, si piegò a sfiorarmi la fronte. Arretrai, e quella creatura si mosse ancora.

Le sue radici erano uscite dalla terra, come zampe, si muovevano debolmente in mezzo alla luce della neve. Si muovevano per seguirmi. Questo era un sogno, naturalmente, benché orrido sogno. Per cui, affrettando come potevo il passo verso il luogo dove immaginavo fossero i cancelli del Giardino, mi misi a ripetere le eterne, monotone storie: «Lavoro, bene; domani, domenica...; telefonare Corrado...; vediamo che altro.» Mentre dicevo questo, nella mia mente indebolita e sommersa, ecco questa apparizione di ghiaccio e di rami strisciare a me vicina con le sue povere radici, ed emettere un suono così vario e profondo e simile nell’insieme al racconto di una vita umana, che voi non l’avreste udito senza piangere.

«Ma scricchiolano davvero questi rami» mi dicevo nella mia ostinata ansia di mentirmi, «ma mai avrei detto che fosse come metallo, la neve. Certo, questo albero è divenuto così leggero, che come una foglia il vento trasporta, mentre imprime ai suoi rami un così incantato rumore...»

Mi misi a correre, così dicendo, verso i cancelli, ch’erano là, li vidi, di fronte a Via Boschetti. Uscii sulla strada, e sempre parendomi di sentire alle spalle quella soprannaturale creatura di ghiaccio, mi fermai perché il cuore stava per rompersi. E vidi che l’albero non c’era più.

Allora, in salvo, provai un mite desiderio di rivederlo e sentirlo, come se in quella luce e in quel dolore fossero nascosti il segreto, il nome, la cosa, tutto ciò di cui io ignoravo la natura, per cui il mio cuore era impazzito, quella sera”.

k

Di nuovo Nerina Noro, allora:

EL MATO

No ghe va ‘rente nissun.
Gnanca ‘na mosca
su l’ala del capelo.
El sole de luio
ghe brusa el çarvelo.
El dise el mato
parlando da solo:
«Lassa che nèvega
e che la vegna alta!
Voio che le galine
vada a becar le stele».

(‘rente: vicino. gnanca: neanche. luio: luglio. çarvelo: cervello)

Lea Quaretti (Rigoso, 1912 – Vicenza, 1981), nata sull’Appennino tosco-emiliano ma vissuta perlopiù a Venezia, fine scrittrice e compagna di Neri Pozza, parla della neve nel suo primo libro, Il faggio (1946):

LA NEVE

“La cavalla grigia camminava davanti e nella chiarità diffusa del cielo stellato la neve riposava di tutti i sentieri: arrivava a me, che ero in sella, fino alle ginocchia.

L’ombra del bosco raccoglieva il silenzio assoluto: aveva lacerato ogni voce e perduto anche il suono di se stesso.

Ad una svolta ebbi la vertigine di tutto quell’abisso candido sotto e sopra di me. Dissi all’uomo che mi seguiva: «Dove va? Andremo giù». Egli mi rispose: «La cavalla vede il sentiero. Non abbia paura».

Strinsi le mani alla sella per difendermi E poi forse sonnecchiai perché il ricordo perduto, che ora è tornato vivo in me, si stacca di nuovo, si ferma.

Questo ricordo fermo, nitido come in un quadro, mi è tornato improvviso nella tempesta di neve quando Elena alzò il viso e disse:

«Guarda, guarda contro la luce!»

Eravamo vicine al fanale e la luce portava il buio ed era respinta intorno a lei che rideva senza suono per lasciare che, libero, il suo riso giocasse coi fiocchi di neve in turbine.

La guardavo assorta: vedevo i fiocchi bianchi, ma la bellezza era in lei. Aveva il viso acceso di colore, le labbra schiuse. Intorno al suo volto i capelli coperti di neve ne facevano una soffice parrucca candida; si chinò, raccolse da terra la neve e, colme le mani unite a coppa, vi immerse il viso.

«È neve asciutta, come quella di montagna», disse e mi prese alla vita, mi strinse, mi lasciò e fece qualche passo avanti affondando il piede, si fermò.

«Ridi, ridi anche tu con la neve».

Ma era lei che rideva per me: io mi sentivo stanca e riposata di un’antica e profonda pace che non cerca più in sé.

«Sei bella», le dissi e i fiocchi di neve le turbinavano intorno.

Il suo lungo cane lupo correva avanti indietro abbaiando breve e affrettato. Una figura raccolta in sé, curva e paurosa, si fermò davanti al cane cercando di ritirarsi.

«Non tema: abbaia di gioia. È felice perché non aveva mai visto la neve».

Chiamò il cane che corse a lei sollevando le zampe sul suo petto, fregò il muso sulla sua guancia china ad accogliere la carezza: ripeteva il nome del cane:

«Anche tu sei felice. Corri Kif, corri».

Il cane si staccò da lei, corse, fermò il muso nella neve, girò su se stesso, tornò da noi a raccontarci e ripartì.

«Tu sei seria, ma mi pare sia da te che mi viene questa possibilità di gioia; sola non l’avrei, lo so. Prova la neve sul viso».

Si chinò e mi porse una mano colma di neve, l’appoggiò alla mia guancia, l’altra mano la passò sul mio viso, lanciò quella rimasta in aria e scosse la testa; la neve scese dai suoi capelli, ma lieve, ma poca, come avesse aderito. Camminammo ancora e lei parlava; la sua voce era spezzata, era turbine, ebbrezza: la notte nel magico gioco della neve, io, il cane, eravamo assorbiti da lei che ci conteneva come la finestra contiene la luce, la terra le ombre della notte, l’estate i frutti.

«Ho le mani gelate» disse alitandovi sopra.

«Vuoi che andiamo a casa?» chiesi.

Camminavo vicino a lei e mi pareva di essere piccola e curva, mi pareva di camminare bambina, portata nell’immenso candore senza sentieri.

k

Mi fermai davanti ad una pietà debolmente illuminata, alzai il viso verso di lei, ma non capiva. Spinsi le labbra e la baciai sulla guancia.

Mi guardò un attimo incerta; una raffica di fiocchi ci batté sul viso accecandoci. Il ricordo fu di nuovo in me e vidi diventare azzurro e lucente il bianco deserto della notte. Passava una barca dalla vela candida altissima, volevo guidare la cavalla nella scia della barca, ma non trovavo le redini perché ero aggrappata alla sella. Allora mi lasciai guidare ancora, sperduta. Vicino a me, sulla barca, c’era il bambolotto rosa che, fino a sei anni, credevo veramente fosse il Cristo Bambino che nasceva nella piccola chiesa del paese, non lontano dalla nostra casa.

«Elena – dissi – è la notte di Natale. Sono tutti lontani».

«Ma vedrai – disse – ho fatto l’albero».

E disse:

«Guarda che trina è diventata questa difesa di filo spinato. È tanto bianca che sembra azzurra», e il gioco della neve turbinò intorno a lei.

«Anch’io ho le mani gelate, e la tua stanza è molto calda. Camminiamo svelte?»

«Di corsa» rise felice.

«Di corsa», risposi ridendo.”

Le nevi non sono tutte uguali. In un passo di Sentieri sotto la neve (1998), Mario Rigoni Stern (Asiago, 1921 – 2008) ricapitola il modo in cui la comunità cimbra dell’Altopiano dei Sette Comuni ne distingueva i vari tipi:

“Ho tante nevi nella memoria: nevi di slavine, nevi di alte quote, nevi di montagne albanesi, di steppe russe, di lande polacche. Ma non di queste intendo parlare; dirò di come le nevi un tempo venivano indicate dalle mie parti: nevi dai più nomi, nevi d’antan, non considerate nei bollettini delle stazioni di sport invernali.

Brüskalan, mi diceva l’Amia Marietta, la zia del nonno; ed era questa la prima neve dell’inverno, quella vera. Nevicava, nevica, anche a ottobre e a novembre, ma la neve autunnale è una neve fiacca, flaccida, che interrompe il pascolo delle vacche sui prati falciati in settembre E il lavoro del bosco quando il terreno non è ancora gelato. Ricordo il fastidio che dava, il Giorno dei Morti, quando le ghirlande di latta e le felci vere di bosco sgocciolavano neve sulle tombe ripulite; e quando nel bosco non ancora del tutto spoglio si andava al taglio del faggio d’uso civico: come malvolentieri si lavorava con le mani che gelavano, e come la neve si attaccava agli scarponi. È così che ho imparato che la neve fradicia raggela più di quella farinosa.

Ma quando brüskalanava era diverso. Il terreno dopo l’estate di San Martino era ben gelato e risuonava sotto le nostre scarpe chiodate con brocche e giazzini. Lo si sentiva nell’aria l’odore della prima neve: un odore pulito, leggero; più buono e grato di quello della nebbia. Di quella nebbia sana, intendo, che veniva una o due volte l’anno al tempo del passo delle allodole.

Alzando lo sguardo verso nord vedevi un tenue grigiore che dalle cime raggiungeva i boschi e si abbassava verso il paese. E la punta del campanile e le campane erano già dentro il grigiore lattiginoso e poi anche la chiesa, i tetti delle case più alte. Sulle strade polverose, sulle cataste di legna, sui cortili e sopra le nostre teste arruffate cadevano le prime stille. Aprivamo la bocca verso il cielo per sentirle sciogliersi sulla lingua.

k

In breve la neve copriva la polvere delle strade, l’erba secca sui pascoli, la segatura di faggio nei cortili, le tombe nel cimitero.

Le voci, i rumori del paese, i richiami dei passeri e degli scriccioli si facevano lievi, e a questo punto la brüskalan diventava vera sneea: neve abbondante e leggera giù dal molino del cielo. E noi si andava trepidanti in soffitta a prendere gli sci e le lame, i nostri slittini monoposto: oggetto e nome che ho trovato identici in Scandinavia e che non hanno nulla a che fare con l’italiano lama.

Si sciava e si slittava sulla strada che scendeva verso la piazza, sfidando la guardia comunale e le sgridate delle madri e delle nonne, che andando a messa scivolavano sulla neve indurita destinata a diventare ghiaccio vivo, che nemmeno lo spazzaneve tirato da dodici cavalli sarebbe riuscito a intaccare.

Questo più di settant’anni fa. Forse avevo cinque anni quando uno zio, che era stato alpino dal 1913 al 1920, mi legò agli scarponi due tavole arcuate che chiamavano skj e io mi buttai giù per la pista, che poi era la neve ammucchiata davanti a casa dallo spazzaneve dalla spalatura dei cortili: un bel mucchio che superava i recinti e i pilastri del cancello e che a noi bambini sembrava altissimo. Con i badili e le palette del focolare lo lisciavamo verso la discesa della strada; per salirci sopra avevamo scavato dei gradini: - Pistaaa! [...]

Quando l’inverno stava per finire la sneea diventava haapar. Sulle rive al sole andava via per la terra in mille e mille gocce, e appariva il bruno del suolo. Era in questo periodo che si sentivano le prime allodole: una mattina ti correva un brivido per la pelle ed era il loro canto alto nel cielo sopra l’haapar.

Con l’haapar veniva l’haarnust. È questa la neve vecchia che verso primavera, nelle ore calde, il sole ammorbidisce in superficie e che poi il freddo della notte indurisce. Neve ottima per escursioni fuoripista, da farsi nelle primissime luci dell’alba e fino alle undici del mattino, in ogni terreno e con gli sci da fondo o da alpinismo, con buona sciolina klister o pelli di foca. Ma anche a piedi quando per l’età non si deve spericolare. Allora si va con comodi scarponi leggeri sopra l’haarnust che sopporta il peso del passo senza cedere: cammini «in alto», come sospeso, sopra pietre e buche, a livello degli apici degli alberi giovani che spuntano dalla neve verso la primavera che incomincia con l’odore della resina, e vai senza fatica, a mezz’aria. Poi, quando tutta la neve sarà sciolta, ritornando su quei passi verrà da dire: «Ho camminato lassù, all’altezza di quei rami!».

Dopo l’haapar e dopo l’haarnust veniva la swalbalasneea: la neve della rondine, la neve di marzo che è sempre puntuale nei secoli. Cade dopo che sono arrivate le rondini: a volte soffice, a volte bagnata, a volte come tormenta, o anche calma in dilatate falde. In una notte può caderne fino a un metro e allora le rondini arrivate quassù ad annunciare la primavera se ne ritornano in pianura per qualche giorno finché l’aria umida o la pioggia o il terreno in amore non avranno sciolto la swalbalasneea.

La kukusneea è la neve d’aprile; non sempre è presente, ma non è nemmeno rara. Sui prati che incominciano a rinverdire e dove sono fioriti i crochi non si ferma molto, perché prima ancora del sole la terra in amore la fa sciogliere. Come la swalbalasneea è la neve della rondine, la kukusneea è la neve del cuculo perché è lui, il gioioso uccello risvegliatore del bosco, che qualche volta la chiama per divertirsi quando si sfalda dai rami delle conifere: per lui che viene dall’Africa, questa cosa bianca e soffice e fredda è rara e curiosa.

Quando i prati si coprono del giallo solare dei fiori del tarassaco e dell’azzurro dei miosotidi, e le api sono indaffarate dall’ alba al tramonto nella raccolta di pollini e nettari, allora può arrivare la bàchtalasneea: la neve della quaglia. Una nube che scende da nord, una ventata, un rapido abbassamento della temperatura ed ecco a maggio la bàchtalasneea. Dura solo poche ore, ma sufficienti per far paura agli uccelli nel nido, dare morte alle api sorprese fuori dall’arnia e preoccupazione alle femmine di capriolo in attesa del parto”.

Infine, le superfici coperte dalle nevi sono anche immacolati fogli bianchi su cui a volte appaiono segni, caratteri, calchi, cripto-messaggi morse, enigmi e geroglifici. Così per Vittorio Sereni (Luino, 1913 - Milano, 1983):

NELLA NEVE

Edere? stelle imperfette? cuori obliqui?
Dove portavano, quali messaggi
accennavano, lievi?
Non tanto banali quei segni.
E fosse pure uno zampettìo di galline -
se chiaro cantava l’invito
di una bava celeste nel giorno fioco.
Ma già pioveva sulla neve,
duro si rifaceva il caro enigma.
Per una traccia certa e confortevole
sbandavo, tradivo ancora una volta.

Fonti:

I. Calvino, Inverno. 4. La città smarrita nella neve, in Marcovaldo, Einaudi, Torino 1966, pp. 32-3;

N. Noro, Pòlvare de ala, Neri Pozza, Vicenza 1994, pp. 122 e 40;

U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi, Torino 1984, p. 413 (Neve è dei primi anni ’30 del ‘900);

A. M. Ortese, L’albero di neve, in L’alone grigio, Vallecchi, Firenze 1969, pp. 124-7;

L. Quaretti, La neve, in Il faggio, Neri Pozza, Vicenza 1946, pp. 95-6;

M. Rigoni Stern, Nevi, in Sentieri sotto la neve, Einaudi, Torino 1998, pp. 73-6;

V. Sereni, Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1965, p. 15.

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