Speciale

Piogge amiche

7 Settembre 2024

“Dunque, il nostro paese pensava all’acqua da centinaia d’anni; ci pensavano i ragazzi che si contendevano il dominio d’un rigagnolo fino a che si mettevano d’accordo a esplorarlo per tutta la sua lunghezza, notando le diverse increspature dell’acqua, vedendovi in miniatura un paesaggio grandioso di gorghi, cascate, e i banchi di sabbia del fondo; anche le donne avevano il loro ruscello, dove attingevano l’acqua per bere: esso saltava giù da una roccia a picco in una valle, la si vedeva spuntare in alto, l’acqua, sulla pietra grigia, ed era un baleno, prima che cadesse col suo assiduo rumore che riempiva la valle. Ma l’estate era più difficile empire gli orci; il ruscello diventava un filo che scendeva per una canna forata in tutti i suoi nodi, e quando la siccità era grande colava un filo prezioso e faceva nella giara un interminabile e mai stanco discorso. All’odore delle piante marcite, della pietra muscosa, che faceva così profonda la primavera, succedeva l’estate quello dei mirti scaldati dal sole; e le voci dei ranocchi negli acquitrini.

In quel tempo si cercavano le altre fonti ai piedi delle montagne che sono tante, disposte a quinte per la valle, e lontane. Gente andava vagabonda qua e là, perché i luoghi delle sorgenti cambiano d’anno in anno. Sono quelli i tempi della sete improvvisa e inesauribile, e l’uomo è tutto un groviglio di radici assetate; tutta la terra sospira all’acqua, la ricordano le grosse piante e i cardi d’un verde ramarro che hanno trovata una linfa sotterranea che li gonfia. Per tutta la contrada si scoprono le vestigia più antiche dell’acqua, come se anch’essa fosse un popolo migrante; una vasca, un abbeveratoio, un condotto scavato nella pietra e inverdito di vecchie ingrommature, o composto d’émbrici messe assieme a canale e saldate con la creta. Vasche e abbeveratoi sono interrati, vi crescono migliaia di piccole piante di semi indistinti, perché dove fu l’acqua rimane sempre non so qual memoria, e il colore della terra, il folto di piante che vi accorrono da ogni parte tradiscono quell’antica presenza. Questa è l’archeologia dei paesi assetati”. 

La sete d’acqua e di pioggia può durare secoli, come nel caso di questo paesaggio calabrese descritto da Corrado Alvaro (San Luca, 1895 – Roma, 1956); o anche solo una stagione, con effetti altrettanto o più devastanti. Più o meno negli stessi anni in cui Alvaro scriveva del suo Sud, ovvero intorno al 1940, Romano Bilenchi (Colle Val d’Elsa, 1909 – Firenze, 1989) raccontava di una terribile siccità in Toscana: 

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“La primavera era alla fine, era stata una primavera afosa, uniforme, priva delle sue solite luci e dei suoi colori, con pochissime piogge, e poco era piovuto anche durante l’inverno, quando venne la siccità. Il sole, insorto sulle maledizioni degli abitanti della città, s’impossessò di tutto. Un terribile mostro si era insediato in cielo e di lassù aveva conficcato i suoi tentacoli nella terra. Uccideva le piante, si accaniva contro gli animali e gli uomini. La morte aveva battuto prima i dintorni della città, spogli d’ogni vegetazione, e si era rovesciata sulle colline come un’onda gigantesca, dilagando ancora nella distesa dei campi e dei prati. Anche i boschi delle colline e quelli più folti delle valli aveva attaccato e risecchito. Sulle colline c’era il podere del nonno, il nostro podere. Andammo io e lui a visitarlo. Le piante erano secche, i frutti neri, appassiti. La casa celeste era diventata biancastra, riarsa, inospitale. Il contadino pianse, e pianse sua moglie. Il nonno li consolò mentre si asciugava il sudore dalla fronte e dal mento. Io pure sudavo per l’emozione. Tornammo subito indietro. Per la strada il nonno si abbandonò a sfoghi disperati, affermando di essere ormai rovinato. Disse che se avesse avuto altri capitali avrebbe tentato di portare acqua dal fiume sulle colline ma poi aggiunse che forse sarebbe stata inutile anche una simile fatica. Tutti gli anni di lavoro nell’albergo sarebbero stati spazzati via da quel disastro. Non avrebbe avuto mezzi per iniziare di nuovo le colture quando la siccità fosse passata. Maledisse il genere umano che con la sua incoscienza aveva attirato la siccità sulla terra e giurò di uccidere il primo che avesse espresso un’opinione qualsiasi sull’andamento del tempo.

Era ancora presto quel giorno allorché rientrammo in città. Il mercato si rianimava dopo la sosta del pomeriggio. Le strade erano diventate biancastre, il selciato e le case parevano ridursi in polvere per il soverchiante calore. Le persone parlavano di giornate lunghe e di giornate brevi, senza smettere d’imprecare. Ma il nonno non rimproverò alcuno. Girò fino a buio per le vie e per le piazze domandando con gentilezza a chiunque incontrasse della campagna notizie sul terreno, le piante, gli animali. Non ebbe che risposte di agghiacciante desolazione. La sera si ritirò nello studio e lesse fino all’alba. Non faceva così da due anni, da quando avevamo comprato il podere. Continuò le sue letture per parecchie sere di seguito. La mattina e talvolta anche il pomeriggio arrivava il suo contadino e gli mostrava, disperato, frutta risecchite, piccole piante e rami gialli bruciati dal sole. Il nonno, il contadino ed io rimanevamo silenziosi dinanzi a quelle cose morte, finché il contadino non se ne andava”.

Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951) ha scritto:

Guardo questo cuore incartocciato.
Abbi pietà di tutto il mio secco.
Vieni pioggia. Hai in pugno
tute le vite, tu.

E ancora:

Una volta nel mondo pioveva, ogni tanto.
Cadevano gocce dal cielo, tante,
velocemente, diritte come fili di vetro,
a volte per obliquo, a volte più fitte più rade.
Allora dicevamo che pioveva e ci pareva
senza significato. Si prendeva l’ombrello
si usciva controvoglia. Si tornava
con piede bagnato o spalla.
Cadevano gocce dal cielo ed era quello
il modo di dar da bere a tutto,
di rimboccare il pozzo, crescere l’animale,
mettere il verde alle foglie, azionare la ronda del fiume
tenere a mollo il bambino nel ventre incantato
della sua mamma, poi gonfiare le tette di latte,
il frutto farlo tondo. E si dormiva in pace
nel ticchettio grandioso del tetto con il cielo
anche quello senza significato per noi
ch’eravamo di pietra.

Antonella Anedda (Roma, 1955), invece, dalla sua Sardegna:

CLIMA, ISOLE, SCORIE
Quanta pioggia che dorme
tra la mandria di nubi quanti
sciami di api pronti a fendere l’estate
e intanto l’isola slitta schiacciata contro il cielo
senza sorgenti e prati, senza colline
di mandorli e noccioli
senza-mai-fiori se non questi – dolcemente
radioattivi – anemoni di mare.

Poi all’improvviso la siccità finisce, come nella novella Alla zappa! di Luigi Pirandello (Girgenti, 1867 – Roma, 1936):

“Il vecchio Siròli da più di un mese sembrava inebetito dalla sciagura che gli era toccata, e non riusciva più a prender sonno. Quella notte, allo scroscio violento della pioggia, s’era finalmente riscosso e aveva detto alla moglie, insonne e oppressa come lui:

– Domani, se Dio vuole, romperemo la terra.

Ora, dall’alba, i tre figliuoli del vecchio, consunti e ingialliti dalla malaria, zappavano in fila con altri due contadini giornanti. A quando a quando, ora l’uno ora l’altro si rizzava sulla vita, contraendo il volto per lo spasimo delle reni, e s’asciugava gli occhi col grosso fazzoletto di cotone:

– Coraggio! – gli dicevano i due giornanti. – Non è caso di morte, alla fine.

Ma quello scoteva il capo; poi si sputava su le mani terrose e incallite e si rimetteva a zappare.

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Dal folto degli alberi sulla costa veniva a quando a quando come un lamento, rabbioso. Il vecchio, ancora valido, attendeva di là alla rimonda [la ripulitura di un albero fruttifero dalle parti secche e dai polloni esuberanti, NdR] e accompagnava così, con quel lamento, la sua dura fatica.

La campagna, infestata nei mesi estivi dalla malaria, pareva respirasse, ora, per la pioggia abbondante della notte, che aveva fatto «calar la piena» nel burrone. Si sentiva infatti, dopo tanti mesi di siccità, scorrere il Drago con allegro fragore”.

Spesso, e negli ultimi tempi con maggiore frequenza e virulenza, a un eccesso succede un altro eccesso, e per esempio un estremo calore siccitoso dà luogo ad alluvioni, tempeste o grandinate:

LA BUFERA

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,


(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)


il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –


e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa...

Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,

mi salutasti – per entrar nel buio.

La bufera di Eugenio Montale (Genova, 1896 – Milano, 1981) era, allegoricamente, la seconda guerra mondiale; oggi “lo schianto rude, i sistri, il fremere / dei tamburelli sulla fossa fuia [ladra di vita, NdR] / lo scalpicciare del fandango, e sopra / qualche gesto che annaspa...” possono alludere ad altro, e non occorre spiegare esattamente a cosa. Anche l’epigrafe di Agrippa d’Aubigné che Montale scelse per questa sua poesia può essere intesa in modo nuovo, aggiornato, mutatis mutandis: «Les princes n’ont point d’yeux pour voir grand’s merveilles, / Leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter…»; e anche qui non serve spiegare proprio niente. Così, la fantasia di Tonino Guerra (Sant’Arcangelo di Romagna, 1920 – 2012) ha immaginato un secondo diluvio universale (per limiti di spazio citiamo solo la versione italiana, chiedendo perdono):

2.

Il diluvio, pressappoco!

Prima una nuvola nera
che saliva dal mare
ha riempito d’ombra la terra
come se fosse inchiostro
sulla carta assorbente.

Poi hanno cominciato a cadere gocce rade
che schioccavano dentro la polvere
e staccavano le orecchie agli alberi.

Fintanto che si è messo a fare
un’acqua noiosa che dopo dieci giorni
straripava dai fossi.

Ma non è che piovesse soltanto qui da noi
diluviava in America e dappertutto
senza che gli venisse voglia di smettere, anzi
per quaranta settimane e più veniva giù un’acqua a secchi
e poi degli scrosci
che parevano fiumi a testa in giù.

Gli alberi si sono distesi a terra
che era diventata molle
con fessure come se fosse una pagnotta calda
spaccata da mani contadine.

3.

Agli uccelli vengono a mancare le punte
dove appoggiarsi e qualcuno prende fiato
sulla testa della gente che cammina
nel fango fino a mezza gamba.

L’acqua dei fiumi cinesi
che viene giù da montagne gialle come zafferano
a Pechino si è fatta vedere in piazza
e poi si è allargata fino a toccare il mare.

A Calcutta le barche sono sui coppi
e i mobili in giro che galleggiano
con cocomeri che sembrano teste affogate.

Nel Caucaso la gente va su in montagna
come se fosse una processione di formiche
che per salvarsi da una caraffa d’acqua
corrono in cima ai muri.

L’America del Sud è sott’acqua
e in quella del Nord si vede la punta dei grattacieli
e attorno galleggia una mondezza
di foglie, barattoli, stracci e animali gonfi
e bastimenti in viaggio: ma dove vanno?

I libri delle biblioteche del mondo
con tutte le storie e le favole
si sono sciolti e le pagine viaggiano bianche
sull’acqua come se fossero
un varco di piccioni addormentati.

Gli uomini che sono ancora in cima alle montagne
chiamano il sole.
Ma il mondo è diventato una palla di acqua torbida
che vola dentro un silenzio che non finisce mai.

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Ogni giorno di più, allora, viene da augurarci, con Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 1921 – Conegliano, 2011):

“Una pioggia che ci sia amica: che, nascendoci alle spalle, ci spinga dolcemente verso un riparo. Sopra una città lontana, studiatamente elegante in tutte le sue parvenze, Sulla città posta tra il lago e la collina della cattedrale, la pioggia estiva si rovescia improvvisa; e dall’alto si vede il lago trascorrere dal verde al grigio, mentre le vele perdono i colori. Il gregge dei tetti acuti continua a salire, screziato dagli abissi discreti delle vie: le vetrine e le finestre cessano per un momento di brillare, abbassano le palpebre per non essere ferite da tanta cordiale furia del cielo. [...]

Sotto la pioggia azzurra gli orologi camminano con i loro battiti verso un tempo astratto e sublime, dove non è più possibile seguirli. E usciranno allora dalle case e dalle vetrine tutte le fanciulle, la cui naturale bellezza apparirà completata dalla pioggia in figure dai rarefatti abbigliamenti di lucida, strillante gomma (di cellofan?). E dagl’involucri d’argento e di cellofan le delicate fanciulle trarranno, per gustarli, i bonbons di cioccolata, che con esse hanno una sottintesa consustanzialità”.

E ancora, quando la pioggia dura, e fa ogni cosa uggiosa:

“Un pomeriggio senza fine, una domenica soffocata dalla pioggia. Tutto è rimasto allo stato di preparativo, tutta la festa è rientrata in se stessa, le nuvole si sono abbassate e si sono unite con il paesaggio, in una sola, continua caligine. La pioggia non cessa di persuadere uomini e mondo all’adattamento, ad arrendersi a questa nuova malinconia. È in questa che il gioco prende un ritmo torturante, quasi inumano.

Si rivelano sul tavolo tutte le carte, ciascuna col suo differente potere, col suo dono di vita o di morte. I giocatori, volti sfatti dalla penombra di una lunga stanza, nulla più sanno al di fuori del destino che vanno tentando.

Ecco i quattro regni delle carte, ciascuno con i propri sovrani, e con gli assi: bandiere e matrici, termiti-regine dalle quali hanno vita i popoli dei denari o dei bastoni o delle spade. Nella vicenda del conflitto passano le ore; le carte si ammucchiano sul tavolo, di volta in volta rapite da una mano frettolosa. Ma i re ed i cavalieri guardano dal loro arido empireo, spiano dalla loro ironica eternità dentro ai cuori assediati dalla pioggia.

Il giorno ha fatto il suo viaggio e i giocatori si ridestano nella luce della lampada elettrica, vittime del suo giallo maleficio. È tardi, è sera; l’acqua precipita ancora, nulla più esiste: e, perché uno spettacolo è terminato, una fioritura nera di ombrelli sulla strada allagata preannuncia le tenebre totali della notte”.

“Verso un tempo astratto e sublime”, per quanto lo accompagni “notturna come un padre”, sembra cadere anche la pioggia di Francesco Scarabicchi (Ancona, 1951 – 2021), in questa poesia tratta da L’esperienza della neve (2003):

LA PIOGGIA

«Torna ancora la pioggia, bagna i vetri,
m’accompagna notturna come un padre,

s’affianca nel silenzio, si fa quieta
la dolce moltitudine che cade

dalle alture del cielo dell’autunno,
da grondaie di nubi chissà dove,

incurante del vento che la spazza
contro l’aria, i giardini, le vie vuote,

figlia del caso che ogni volta sceglie
la città, la stagione, l’ora, il giorno,

nuvole grandi che poi passeranno,
isole solitarie, le mutevoli

che a nessuno lo dicono, ma sanno
l’unica verità che non rimane,

l’eterna che si eclissa con l’aurora».

La pioggia, la “figlia del caso che ogni volta sceglie / la città, la stagione, l’ora, il giorno”, e le “nuvole grandi che poi passeranno”, che “sanno / l’unica verità che non rimane, / l’eterna che si eclissa con l’aurora”.

Non così diversa la lezione di Vittorio Sereni (Luino, 1913 – Milano, 1983), ne Gli strumenti umani (1965):

ANNI DOPO

La splendida la delirante pioggia s’è quietata,
con le rade ci bacia ultime stille.
Ritornati all’aperto
amore m’è accanto e amicizia.
E quello, che fino a poco fa quasi implorava,
dall’abbuiato portico brusìo
romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:
volti non mutati saranno, risaputi,
di vecchia aria in essi oggi rappresa.
Anche i nostri, fra quelli, di una volta?
Dunque ti prego non voltarti amore
e tu resta e difendici amicizia.

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“Dunque ti prego non voltarti amore / e tu resta e difendici amicizia”. Qualcosa che rimanga, dopo il secco e la pioggia, anche a distanza d’anni; qualcosa o qualcuno che non si volti, che addirittura resti e ci difenda. Possibile? Camillo Sbarbaro (Santa Margerita Ligure, 1888 – Savona, 1967):

“Ha piovuto tutta la notte. All’alba, sui fili della luce, come uno spartito, le note bianche e nere delle rondini prime arrivate”.

Fonti:

C. Alvaro, L’acqua, in Itinerario italiano, Bompiani, Milano 1941, pp. 7-8;

R. Bilenchi, La siccità, in Gli anni impossibili, Rizzoli, Miano 1984 (ma 1940), pp. 27-8;

M. Gualtieri, Senza polvere senza peso, Einaudi, Torino 2006, p. 83 e 98;

A. Anedda, Historiae, Einaudi, Torino 2018, p. 7;

L. Pirandello, Alla zappa!, in Novelle per un anno, Vol. 2, Tomo I, Mondadori, Milano 1987 (ma 1902), p. 180;

E. Montale, La bufera e altro, in L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, Torino 1980, p. 189;

T. Guerra, Piove sul diluvio, in La valle del kamasutra. Segni, sogni e altro scelti dal poeta, a cura di S. Giannella, Giunti / Bompiani, Milano 2021, pp. 210-12;

A. Zanzotto, Segreti della pioggia, in Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. Villalta, Mondadori, Milano 1999, p. 979-80;

F. Scarabicchi, La pioggia, in L’esperienza della neve, Donzelli, Roma 2003, p. 32;

V. Sereni, Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1965, p. 24;

C. Sbarbaro, Fuochi fatui, in L’opera in versi e in prosa, Garzanti, Milano 1985, p. 424.

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