Gianfranco Rosi. Sacro GRA

3 Ottobre 2013

Il mito, per essere tale, deve fare torto alla realtà. È anzi suo preciso compito librarsi sopra la sostanza dura e netta della quotidianità strappando quei fili che poi ritesse in un corpo nuovo, ignaro della frammentarietà di composti cui deve le origini. “Sacro” dunque è il Grande Raccordo Anulare di Gianfranco Rosi, non luogo, ma Immaginario dove si depositano le istintive produzioni della mente riguardo la nostra idea di periferia romana, perché solo nei termini di viaggio mentale Sacro GRA può mantenere le originarie residue istanze documentaristiche. La realtà non c'entra, benché non si voglia qui credere possibile suggerire tanto facilmente i parametri del vero: certo è però che manca qualsiasi indizio di complessità del racconto e della descrizione.

 

 

A scuola durante le lezioni di italiano viene solitamente insegnato che esistono due modi di elaborare discorsi. Il primo, il periodo paratattico, predilige l'uso di coordinate – parti che possono anche stare da sole, semplicemente poste una accanto all'altra senza alcun rapporto di dipendenza – mentre quello ipotattico costringe gli enunciati a un rapporto gerarchico. Preferendo il primo tipo di registro, Rosi enuncia frammenti di storie senza che esse abbiano un collegamento fra di loro, concedendo allo spettatore il compito di sceglierne una favorita senza che sia possibile travalicare la distanza posta dai fatti che mutano non appena ci si avvicina loro troppo, e allora via col cambio di scena e personaggi; tutte avrebbero potuto essere tema unica e principale del film, la migliore dei quali forse sarebbe stata l'incessante resistenza di un botanico, novello Davide vs Golia, impegnato nella lotta alla sterminata processione di parassiti dediti solo alla distruzione delle palme di cui si prende minuziosa cura.

 

 

Ma raccontare, invece di mostrare, avrebbe significato rivelare la diversità di motivi che fanno un'esistenza tale, e rischiato così di scardinare il Mito verso cui invece Rosi vuol mantenersi fedele; tanto più quando l'assenza di voci guida fuoricampo e lo sguardo opaco di una cinepresa che vuol consapevolmente essere percepita come silenziosa possono realizzare il miracolo di un idolo che prende vita. Il cattivo gusto, l'umanità a brandelli, rugosa e bruciata dal sole, il dialetto romano intriso sovente di perle di saggezza, le stanze illuminate la sera solo dalle luci di televisioni e computer e una vecchia madre tornata bambina confusa di fronte al figlio, tutto questo è reale e allo stesso tempo non esiste realmente.

 

 

Rimane piuttosto il colore, la macchietta, il Mito, la Roma bella nel suo esser comica e disgraziata, ridicola e sfatta ma “sincera” dato che ormai è opinione consolidata che la verità possa stare solo negli interstizi della materia grezza come se non rischiasse anche questa, una volta consolidata nell'immaginario collettivo, di farsi sterile stereotipo a sua volta, diversamente dal progetto uguale e contrario di Sorrentino, La Grande Bellezza, dove si finiva per distruggere gli idoli romani stringendoli fino a scheggiarli sotto i propri polpastrelli.

 

 

Ma più importante è sottolineare ancora una volta che qui non si intende fare un processo al tema, ai personaggi, alle scene, né che si crede possibile definire su carta quali storie possano essere più “reali” e quali no, quanto ribadire che proprio il modo di Rosi di esimersi dalle responsabilità della narrazione di una storia, lungi dall'appesantire il film privandolo di spontaneità, costringe questa genuinità a dar l'idea che le cose siano proprio come appaiono, senza che null'altro emerga dalla superficie di eventi che l'opera intreccia casualmente uno all'altra.

 

 

Senza mano e scalpello rimane la Roma che piace perché non richiede sforzo e impegno, che si lascia guardare senza costringere a riflettere sulle motivazioni e le origini di ciò che si vede, un'idea di umanità brulicante ma priva di congiunzioni e legami sia fra i propri figli che con lo spettatore: un'umanità di facciata, insomma, che a Venezia hanno creduto potesse bastarci e invece non può, e non deve.

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