Il nuovo è meglio del vecchio / Giovanni Pirelli ricomposto

6 Marzo 2019

Nel marzo 1948, nell’imminenza delle prime elezioni politiche, Indro Montanelli accusò Giovanni Pirelli di “diserzione”, di essere passato dalla parte del nemico in un momento di guerra: “il cadavere di Masaryk è lì a testimoniare”. Sono i giorni caldissimi che precedono il 18 aprile 1948, ma Pirelli non rispose al giornalista toscano, la sua scelta di campo l’aveva già fatta e votò senza pentimenti per il Fronte Popolare. Accadde cinque anni prima: “La mia scala? L’ho bruciata. È successo in Russia, se ben ricordo, c’era la ritirata, faceva freddo. Se ben ricordo, non ho più avuto scale di valori”. Nato nel 1918, Giovanni è il figlio maschio primogenito di Alberto Pirelli, il più importante e capace industriale italiano del suo tempo, e di Ludovica Zambelletti, che proviene da una famiglia di imprenditori farmaceutici varesini. Ha due sorelle, Elena e Ludovica, e un fratello più piccolo, Leopoldo. Ha fatto a tempo a conoscere il nonno Giovan Battista, il fondatore della Pirelli e C.. “Sono cresciuto all’ombra di una grande fabbrica, nel fischio delle sue sirene, nel suo odore; l’odore della gomma quando viene vulcanizzata. Mi si diceva: “un giorno ne diventerai capo, se ne sarai degno”. La mia educazione, la mia formazione morale e culturale si è svolta in hoc signo: se ne sarai degno”. L’educazione, esigente ma aperta, con esperienze di fabbrica nel periodo delle vacanze estive, è messa alla prova nel fuoco della Seconda guerra mondiale. Da alpino è sul fronte francese nel 1940, poi nei Balcani, ha un interludio nella Berlino del 1942 accanto ai lavoratori italiani all’estero, ma vuol stare vicino ai suoi alpini e briga per partecipare alla spedizione dell’ARMIR. Il padre, che come tutti gli industriali è vicino a Mussolini, cerca di proteggerlo da lontano e a Giovanni è risparmiata la marcia a piedi di ritorno dal Don. Il colloquio ininterrotto col padre è stato raccolto in uno stupendo volume di corrispondenze, Legami e conflitti, curato nel 2002 dalla sorella Elena su impulso del fratello Leopoldo. La lettera più drammatica è della primavera 1946, quando è giunto il momento di fare i conti col padre che lo ha educato all’amor di patria, nonostante la patria fosse quella fascista.

 

“Durante la ritirata di Russia percorsi per giorni interi in automobile migliaia di chilometri di pista nevosa: facevo collegamenti, portavo ordini. Lungo quelle stesse piste, in lunghe file nere, sotto il cielo plumbeo, spesso in tormenta, piatto e grigio il paesaggio a perdita di vista da tutti i lati, camminavano, anzi si trascinavano i miei alpini, i fanti delle divisioni decimate sul Don. Molti cadevano per non più rialzarsi, uomini e muli, alla stessa maniera. Io dovevo, per loro, per il loro minor male, proseguire nella mia missione, passare fra di loro in macchina: oggetto del loro odio (...) Nessuno può capire quanto io ho sofferto di poter, per lo meno, soffrire con loro”. Il right or wrong is my country a cui è stato educato non vale più. Giovanni cerca, dopo l’8 settembre 1943, seppur sempre frenato dal padre, una forma di riscatto. Vorrebbe unirsi alla guerra partigiana, nel frattempo, tra bombardamenti e scioperi, lavora in “Ditta”, come è chiamata la Pirelli in famiglia. Ottenuto finalmente il permesso dal padre nel febbraio 1945, combatte gli ultimi mesi di guerra in Val Chiavenna, in un raggruppamento di Giustizia e Libertà col nome di battaglia “Pioppo”. Nella Milano del dopoguerra continua a lavorare in Pirelli, ma frequenta Vittorini e gli ambienti del Politecnico, appoggia, anche finanziariamente, la Casa della Cultura e il Piccolo Teatro, gli esiti più duraturi della stagione ciellenistica. Gli operai della Pirelli, azienda che era stata condotta dopo la Liberazione dai Consigli di Gestione per circa un anno per poi essere restituita alla proprietà, sperano che possa rinnovare il clima aziendale – Giovanni dal 1946 è iscritto al PSIUP – ma nel 1948 compie la scelta definitiva di non lavorare più in Ditta, anche se il rapporto d’affetto con i genitori e i fratelli non verrà mai meno. Gli scriverà il padre dopo la rottura, davanti alle perplessità sulle sue scelte di vita: “mi vince il senso che il mio dovere è di esserti comunque al fianco”.

 

La bella biografia Vita di Giovanni Pirelli (Donzelli) di Mariamargherita Scotti, consente di addentrarsi per la prima volta in una dei più affascinanti percorsi umani e intellettuali del nostro XX secolo.

Dopo la scelta di campo Giovanni vorrebbe coltivare le sue ambizioni di scrittore, incoraggiato da Mario Apollonio, storico del teatro, studioso di Maritain e amico di famiglia, ma il giudizio che conta è quello di Vittorini che accoglie nella collana dei Gettoni il suo racconto lungo L’altro elemento (1952), nonostante il parere contrario di Calvino e della Ginzburg, che accusano il libro di essere un’allegoria autobiografica troppo scopertamente kafkiana. Gli incontri più importanti furono forse altri: con Salvemini ad Harvard nel 1946, che ricavò una buona impressione dal ragazzo, con l’ambiente del neonato Istituto Italiano di Studi Storici, creato da Benedetto Croce con l’indispensabile aiuto di Raffaele Mattioli per tramandare la propria biblioteca e quindi la propria eredità culturale. Non è tanto Croce a impressionare Pirelli (Il m’apparait petit, scrive ai genitori), ma il metodo di studio del direttore Federico Chabod e l’atmosfera seminariale gli consentono di instaurare amicizie che dureranno tutta la vita come quelle con Gaetano Arfé e Giuliano Procacci. Dopo Napoli, attorno al 1950, si trasferisce a Roma, dove frequenta l’ambiente artistico e cinematografico che si ritrova nell’Osteria Menghi ed è qui che conosce la futura moglie Marinella, giovane artista che era arrivata nella Capitale da Belluno, alla ricerca del fidanzato fedifrago Rodolfo Sonego (che rievocò in parte la vicenda, reinventandola nella sceneggiatura di Una vita difficile, il capolavoro di Dino Risi).

 

È a Roma che Giovanni incontra il piemontese Piero Malvezzi che gli chiede di condividere la ricerca che sfocerà nelle Lettere di condannati a morte della Resistenza (Einaudi, 1952), un lavoro pionieristico, compiuto tra mille difficoltà e con scrupolo filologico, origine della storiografia italiana sulla guerra di Liberazione, ma di fatto vangelo della religione laica dell’Italia repubblicana, una ricerca che nasce nell’atmosfera clerico-fascista degli anni Cinquanta. Filippo Sacchi, uno dei primi recensori lo considera un “grande fatto nazionale” perché “quel purgatorio di ferro e di sangue” non è avvenuto invano e da quell’anno zero per l’umanità può nascere un uomo nuovo, migliore. L’enorme successo spinge i due autori a preparare un secondo volume, le Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, che esce nel 1954 con una prefazione di Thomas Mann, nonostante qualche perplessità degli autori per un nome così “olimpico”, ma il libro è un seme gettato per creare una nuova Europa al di là degli schieramenti della Guerra Fredda. Come giustamente scrive la Scotti, la raccolta italiana fu “una vera e propria operazione di pedagogia politica su vicende traumatiche del recente passato o ancora in corso”, una chiamata alla responsabilità individuale nelle scelte di vita o, come scrisse Pirelli: “ognuno di noi può dare un senso alla propria vita, può portare un contributo suo, solamente suo, a un’esistenza migliore per tutti”.

 

 

Le Lettere resero Giovanni sempre di più un punto di riferimento per quella parte della sinistra che non si riconosceva nel PCI e in quegli anni furono importanti gli incontri con Gianni Bosio, con cui lavorarono su un abortito progetto di ricerca sulle origini del Partito socialista, e soprattutto con Raniero Panzieri, l’unico intellettuale italiano che riuscì in quel periodo a rielaborare il pensiero marxista in chiave libertaria, ma l’ortodossia degli anni Cinquanta, la sudditanza psicologica verso il PCI, fecero naufragare i progetti di Panzieri e Pirelli. Nel frattempo è entrato con una quota di rilievo nel capitale sociale della casa editrice Einaudi, che si delinea, alla metà degli anni Cinquanta, come l’iniziativa culturale più importante del Dopoguerra.

Nel 1960, richiesto di autodefinirsi rispose: “di due persone con cui faccio conoscenza una mi chiede se sono il Pirelli delle gomme e una se sono il Pirelli delle Lettere. Quanto al resto, vengo pervicacemente citato tra i giovani scrittori “. Giovanni è molto lucido nell’autoanalisi e per tutta la vita, fatta eccezione, forse, per gli ultimi anni, si considerò una personalità scissa, in attesa di ricomporsi.

 

Nella sua vita non mancò mai l’impegno, lo studio che deve precedere l’agire politico-sociale-culturale, un metodo appreso direi soprattutto dal padre (fondatore dell’ISPI nel 1934). Negli anni Sessanta comincia circolare aria nuova nella società italiana. La contestazione all’intervento francese in Algeria coagula, prima in Francia poi in Italia, una nuova sinistra. Si creano dei gruppi organizzati, i réseaux, che fanno espatriare in Italia clandestinamente i contestatori francesi dell’intervento. Pirelli è tra i finanziatori e organizzatori di questi gruppi (Réseau Janson) e si adopera per pubblicare e curare le Lettere della Rivoluzione algerina (Einaudi, 1963) e i Racconti di bambini d’Algeria (Einaudi, 1963), disegni e racconti dei bambini che vivevano nei campi profughi nei Paesi confinanti con l’Algeria (un esempio che potrebbe essere replicato utilmente oggi). Le lotte anticolonialiste sono lette attraverso il paradigma resistenziale che Giovanni ha contribuito a creare, ma aver conosciuto Frantz Fanon, lo psichiatra di origine martinicana portavoce del Fronte Liberazione Nazionale algerino a Tunisi nel 1961 (che muore pochi mesi dopo negli Stati Uniti), cambia il suo modo di guardare la realtà. L’impegno diviene militanza, in questo momento per le cause terzamondiste, che non escludono neppure l’azione clandestina. Si impegna per far pubblicare a tambur battente I dannati della terra (Einaudi, 1961), l’opera più celebre di Fanon, livre de chevet della generazione che prepara il ’68. Il libro ha un successo mondiale perché propone un’ideologia terzomondista ai Paesi che stanno nascendo al di fuori dello schema Occidente vs. Oriente, ma è allo stesso tempo un antidoto alle sicurezze della società del benessere, un seminatore di disagio. Pirelli è tra i primi, non solo in Italia, ad accorgersene. Per lui, nel pensiero di Fanon, nella sua esperienza di psichiatra eterodosso, è importante l’attenzione al soggetto rivoluzionario come individuo, qualcosa che era assente dalla tradizione del socialismo europeo che faticava a scorporare il singolo dalla massa. L’esperienza della rivoluzione algerina lo avvicina, in modo naturale, ai giovani che fondano le più importanti riviste politiche di quegli anni i "Quaderni rossi" e i "Quaderni piacentini" (con tutti i dovuti distinguo). Coltiva anche proprie iniziative culturali: le Edizioni del Gallo (che proseguono le Edizioni Avanti!), i Dischi del Sole; cerca di disimpegnarsi dall’Einaudi, ma Giulio non glielo consente.

 

Il terzamondismo negli anni Sessanta, prima e dopo il ’68, si coagula contro il nemico ‘imperialista’ e nella contestazione all’intervento americano in Vietnam. Da movimento elitario raggiunge un sempre maggior numero di persone. Pirelli ha fondato a Milano il Centro Frantz Fanon (1963), luogo di studio delle esperienze terzamondiste ma anche di sostegno ad attività clandestine. Scrive la Scotti che sull’esperienza del Centro Fanon “c’è un velo di reticenza difficile da penetrare”, complice la contiguità di qualche elemento con l’eversione degli anni Settanta, ma è anche il luogo di formazione di un grande studioso come Giovanni Arrighi. Pirelli viaggia per vedere da vicino le esperienze rivoluzionarie: Rhodesia, Angola, Cuba, Tanzania, gli Stati Uniti delle Black Panthers, ma non è un “pellegrino politico” e cerca, una volta tornato a casa, di studiare queste esperienze, di discernere quel che c’è di buono e le nuove caste che si vanno formando. 

 

Un’esperienza di avanguardia è la scrittura di un’opera insieme all’amico Luigi Nono, una sollecitazione che Giovanni prende, come sempre, sul serio. L’esito è la cantata A floresta é jovem e cheja e vida di cui Pirelli scrive il libretto e Nono la musica. La Scotti ha, come del resto in tutto il volume, fatto un gran lavoro di ricerca e impressiona, leggendo i materiali preparatori, la necessità che l’opera rappresenti compiutamente l’ideologia ‘terzamondista’ che accomuna i due. Scrive nel 1966 Nono a Pirelli: “È un bell’andare. Tra te e me, quello che uno non modifica, modifica l’altro. Del resto è giusto. Soprattutto per i ripensamenti teorici ideologici”. Tra le carte di Pirelli si trova al proposito questa riflessione: “tutte le lotte oggi in corso sono le forme di una vecchia storia, la coda di vecchi assestamenti, che si svolgono privi di prospettiva eversiva nella misura in cui non s’inseriscono nella situazione più avanzata (…) del capitalismo-imperialismo”. Sono carte private ma anche il suo linguaggio sta cambiando. L’opera fu accolta con qualche scetticismo. Dapprima del Living Theatre che fu ospite di Pirelli a Varese, dove aveva fissato la sua residenza nel 1960, che contrappose il proprio impegno pacifista a quello marxista di Nono e Pirelli, poi dei critici alla prima veneziana.

 

L’opera, una sorta di opera totale con suoni registrati, strumenti di lavoro usati con una funzione musicale, altoparlanti che investono gli spettatori come un “ciclone sonoro”, mentre il libretto scandisce le tappe dello sfruttamento capitalistico, del ripiegamento del movimento operaio, delle speranze terzamondiste, fu giudicata “musica da massacro” da Eugenio Montale. Italo Calvino fu più clemente e commentò l’ascolto paragonandolo all’esperienza auditiva della sua guerra partigiana. Alla soglia dei cinquant’anni Giovanni, che è sempre in mezzo ai giovani, è considerato un maestro, ma è un’etichetta che rifiuta, preferisce essere “un compagno anche per compagni che avrebbero potuto essergli figli” (Piergiorgio Bellocchio), ma più in generale, come scrisse alla sorella Elena, “il migliore educatore è colui che prevarica nella misura minore possibile, che non si propone come modello né propone alcun modello, che nel mostrarsi ai giovani per quello che è (…) non solo riconosce i propri limiti rispetto a quello che avrebbe potuto essere, ma soprattutto riconosce che si può essere diversi, fare altre esperienze, ricercare altri valori: e anche non ricercarne affatto”. Gli anni che seguono il Sessantotto rimescolarono le carte.

 

Ha testimoniato Luisa Passerini all’autrice che erano tempi così affannosi “come se fosse possibile da un giorno all’altro che ci fosse proprio la rivoluzione, che fosse una questione proprio immediata”. Pirelli segue i movimenti studenteschi e le lotte operaie da molto vicino, ma sempre con un certo distacco, come osservatore e come discreto sostenitore, ma è lì e i più giovani bussano spesso alla porta della casa (in realtà una bella villa) che si affaccia sul Lago di Varese in cerca di aiuto materiale ma anche di un confronto politico. Nel 1970 compie un viaggio di sei settimane in Cina, ancora sotto gli effetti della Rivoluzione Culturale. Ne ritorna entusiasta. Fonda con Arrighi, Spazzali e Borelli il Centro ricerche sui modi di produzione (familiarmente detto il ‘crampo’). Nella premessa teorica-ideologica si scrive: “Il proletariato deve lottare su tutti i fronti affermandosi ovunque come la classe in grado di dirigere tutto (…) liberando le sue immense capacità intellettuali e creative” ed evitando di cadere nell’errore di utilizzare “metodi attivistici e spontaneisti o, viceversa, dottrinari e burocratici”. Con gli occhi di oggi pressoché un delirio, ma la speranza di allora fu che i giovani, per la prima volta considerati una classe sociale, potessero saldarsi a un non meglio specificato proletariato, che aveva raggiunto una maturazione politica come potevano far pensare alcune modalità di lotta di quegli anni (il periodo 1968-1972). Concluse in questo modo l’introduzione a una edizione scolastica delle Lettere della Resistenza europea (1969) che intitolò: Lettera a giovani che conosco ed altri che non conosco: “Si possono commettere degli errori, ma una cosa è certa: il nuovo è meglio del vecchio”.

 

Giovanni Pirelli muore il 3 Aprile 1973, a seguito delle ustioni riportate in un incidente stradale, mentre era in compagnia del fratello Leopoldo e si stavano recando in Liguria a trovare la madre Ludovica. I funerali, divisi tra una cerimonia con compagni e amici presso la sede Anpi di Sampierdarena e l’interramento a Cerro, sul Lago Maggiore, con gli stretti famigliari, sono – scrive la Scotti – “il primo atto di quella memoria divisa (e contesa) che caratterizzerà a lungo il ricordo di Pirelli tanto nel dibattito pubblico quanto in ambito familiare e privato”. Merito di questo libro, scritto bene e che si legge con passione, è di aver finalmente ricomposto quella memoria, anche se poi l’autrice si affida a un finale polifonico in cui figli, amici e parenti ricordano il “loro” Giovanni.  A me pare però che le parole migliori le trovò “a caldo” Giorgio Bocca che, ricordandolo, scrisse. “Egli era un uomo duro e fragile e viveva in uno stato di apprensione continua. No, non era risolto, anzi aveva capito, ecco il suo merito intellettuale, che doveva restare ambiguo, che non poteva tagliare completamente i ponti con il suo passato, con il suo mondo, che doveva alternare il lavoro politico ai riposi della villa di Varese, alle serate con Guttuso, Piovene, Isella”. 

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