Gli 80 anni di Caetano Veloso
Caetano Veloso sostiene che in estrema gioventù nutriva del disprezzo per la lingua inglese. A settantacinque anni, e a vent’anni dalla pubblicazione del libro Verità tropicale, fece risalire quel disprezzo all’ignoranza. Veloso vi accenna scrivendo della erre retroflessa dell’entroterra brasiliano che aveva omaggiato nella canzone A otra banda da terra, e che con non poca sorpresa, anni dopo, avrebbe ritrovato in diverse parlate e canti lusitani.
Al lettore che apre per la prima volta Verità tropicale nella sua edizione commemorativa pubblicata nel 2017, capita d’imbattersi, prima ancora che nei dati biografici o nelle canzoni del più raffinato autore e interprete dell’ultimo mezzo secolo di canzone brasiliana, in una dotta digressione sulla possibile origine della erre retroflessa nella lingua portoghese. Prima ancora dei nomi di Antonio Carlos Jobim, João Gilberto, Gilberto Gil, Elis Regina o Baden Powell, sono citati quelli di Lacan, di Deleuze, Heidegger, Nietzsche, Proust, Goethe, Schopenhauer, Pessoa e, soprattutto, del suo eteronimo Bernardo Soares, del quale, nella canzone Lingua, Veloso aveva ripreso il celebre aforisma la mia patria è la lingua portoghese (da Il libro dell’Inquietudine), e del quale, azzardo, avrebbe anche potuto sottoscrivere questo passo: “quel movimento ieratico della nostra chiara lingua maestosa, quell’esprimersi delle idee in parole inevitabili – scorrere di acqua perché esiste declivo –, questo stupore vocalico in cui i suoni sono colori ideali; tutto questo mi offuscò per istinto come una grande emozione politica”.
Caetano Veloso non è soltanto l’autore e l’interprete di canzoni più raffinato che il Brasile ha prodotto nell’ultimo mezzo secolo, anno più anno meno (e il Brasile, in ambito musicale, sforna fenomeni a getto continuo, proprio come nel calcio), è anche, con ogni probabilità, il più colto, il più emotivamente politico per dirla con Pessoa, fra i più incessantemente sperimentali e, al tempo stesso, fra i più intrinsecamente legati alle diverse tradizioni musicali del suo paese e del continente latino americano tutto; un amore, quest’ultimo, dettagliato in particolare in Fina Estampa, dove Caetano rilesse le canzoni che la madre gli cantava da bambino, boleri e rancheras, pasillos e valzer, tanghi e merengue cantati in lingua spagnola, canzoni che s’erano sedimentate in tutta l’America latina, Brasile compreso, grazie alla radio.
Nonostante quanto sopra – la raffinatezza, la cultura, l’intelligenza, la miracolosa capacità di far coincidere emozione e politica, l’innovazione, eccetera – Veloso è anche uno dei cantanti più popolari e amati del Sud America. Possibile? Eccome. In Caetano, come in tanta musica brasiliana – si pensi a João Gilberto, suo punto di riferimento assoluto, artista sommo, un musicista che a vederlo pareva più un agente di cambio che non il tipo da spiaggia solitamente associato al samba, ma capace poi di rivoluzionare la canzone brasiliana facendosi non soltanto ambasciatore della bossa nova nel mondo, ma conferendo alla musica popolare la facoltà di riscattare l’identità di un popolo – intelletto e concetto, per astratti che siano, in Caetano, si diceva, come in tanta musica brasiliana, non hanno facoltà di sfuggire al demone del balanço (lo swing, via, o il modo in cui la garota di Ipanema ondeggiava diretta al mare, nel celebre verso di Vinicius de Moraes: num doce balanço a caminho do mar).
Caetano Veloso può essere avvicinato nei modi più diversi e può essere amato per le ragioni più diverse. Chi scrive ne fu folgorato molti anni fa ascoltando la canzone O Estrangeiro dove, cantando della baia di Guanabara, esordiva mettendo in sequenza i nomi di Paul Gauguin, Cole Porter e Claude Lévi-Strauss, al quale la baia, canta Caetano, apparve come una bocca sdentata. Un antropologo infilato fra un riff di synclavier e le scorticate fucilate elettriche di Arto Lindsay? Fu emozione politica al primo ascolto. Alla fine della canzone per sovrapprezzo spuntavano due versi recitati in lingua inglese (la lingua un tempo disprezzata), una dichiarazione d’intenti che chiarendo il quadro non fece che alimentare la curiosità nei confronti dell’artista:
Some may like a soft brazilian singer
But I’ve given up all attempts at perfection
(A qualcuno potrebbe piacere un delicato cantante brasiliano
Ma io ho desistito dall’inseguire la perfezione)
A un certo punto Caetano, erano gli anni del beat e della british invasion, cominciò a scrivere delle canzoni nella lingua di Shakespeare. O meglio, cominciò a scrivere delle canzoni in una lingua che era consapevolmente e, di conseguenza, politicamente approssimativa, inglese 1.0, una lingua basica come lo era il pop, del tutto sprovvista delle sfumature del portoghese tanto amato. “Se la radio brasiliana” scrisse Caetano “diffondeva più canzoni in inglese che in portoghese, se i prodotti, le pubblicità, i negozi usavano l’inglese nei loro imballaggi, slogan e insegne, noi potevamo restituire al mondo quest’inglese imparato male trasformandolo in uno strumento di protesta contro la stessa oppressione che imponeva a noi“. Inizialmente, confesso, non avevo colto.
Titoli come Lost in the Paradise, pubblicata nel 1969 su un disco eponimo meglio noto come l’Album Branco (il white album di Caetano), con quell’articolo the, grammaticalmente scorretto, oppure Empty Boat, scritta poco prima di partire per l’Europa, e soprattutto la sublime London, London, la canzone dell’esilio, quando Caetano con Gilberto Gil s’era rifugiato in Inghilterra per sfuggire alla dittatura militare, esemplificano bene questo indirizzo e questa intenzione. Più tardi Caetano si sarebbe vergognato delle volontarie storpiature di questi primi abbozzi in lingua inglese, ma ammise anche che l’idea dell’abuso delegittimato dalla dominazione anglo-americana gli venne solo a posteriori, “per giustificare qualcosa che sarebbe stata soltanto ridicola”.
Caetano s’innamorò poi “delle parole di Cole Porter, dello stile di Francis Scott Fitzgerald e della pronuncia di Sinatra” (l’eleganza, la raffinatezza di cui sopra), ma restò in lui, “anche dopo aver letto Shakespeare e Joyce e Stein ed e.e. cummings” il divertimento infantile di porsi, nei confronti della lingua inglese, in posizione subalterna, da perenne scolaro rimandato a settembre, ultimo banco in fondo a destra, affidando all’inglese il disagio suo e del continente latino americano, soltanto per ribadire, non appena tornava a scrivere e cantare in portoghese, la profondità e la ricchezza del poetare nella lingua del cuore e dell’intelletto.
“Per noi” scrisse ancora Caetano in Verità tropicale “abituati a considerare le dolci lingue mediterranee intrinsecamente più poetiche delle aspre lingue del freddo Nord, era divertente pensare che l’inglese – sempre così ‘pragmatico’ e poco metafisico – fosse la più poetica delle lingue occidentali. E non l’inglese di Shakespeare (anzi, questo piuttosto era d’impaccio), ma proprio l’inglese ‘pragmatico’, il prosaico inglese colloquiale. Oggi mi piace riscoprire il potenziale barocco delle declinazioni latine, ammorbidite nell’italiano, nello spagnolo e, ancor più, nel portoghese. E mi colpisce l’idea che l’inglese giornalistico di Hemingway e degli autori di romanzi polizieschi si sia rivelato – quando venne trasformato in un’ortodossia di basso livello che contagiò tutta la letteratura occidentale – una vera deformazione stilistica”.
Fu il paroliere di Rio de Janeiro Nelson Motta a coniare il termine tropicalismo che tanta parte ha avuto nella carriera di Caetano. Il 5 febbraio del 1968 il giornale Última Hora pubblicò un articolo di Motta intitolato A Cruzada Tropicalista, la Crociata Tropicalista. Vi si leggeva quanto segue: “un gruppo di cineasti, giornalisti, musicisti e intellettuali ha deciso di fondare un movimento brasiliano che ha il potenziale di sfondare su scala mondiale: il tropicalismo. Assumere pienamente tutto ciò che la vita dei tropici può offrire, senza pregiudizi di natura estetica, senza pensare al cattivo gusto, semplicemente vivendo la tropicalità e il nuovo universo ancora sconosciuto che racchiude”.
Nel giro di poco il termine tropicalismo divenne la parola d’ordine, e il Brasile, grazie a quel termine e al colorato collettivo di artisti che lo vestiva, scoprì di aver generato una controcultura. Questo accadeva mentre in Brasile il potere era saldamente nelle mani della giunta militare del generale Artur da Costa e Silva. Neanche due mesi dopo la pubblicazione dell’articolo di Motta a Rio de Janeiro la polizia uccise uno studente e nel paese esplosero le proteste (la Passeata dos Cem mil del 26 giugno, un corteo che vide sfilare centomila brasiliani a Rio de Janeiro, la classica goccia che fece traboccare il vaso), fino a quando, sul finire dell’anno, il governo emanò un decreto, l’Ato Institucional Número Cinco (AI-5), che istituzionalizzava la censura di Stato e sospendeva ogni garanzia costituzionale.
Tropicália: ou Panis et Circensis, sorta di Sgt. Pepper’s in salsa brasiliana, il manifesto del tropicalismo, venne pubblicato nell’autunno di quello stesso anno. Portava la firma collettiva di un manipolo di musicisti bahiani (Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa), paulistani (il gruppo Os Mutantes di Sérgio Dias, Rita Lee e Arnaldo Baptista), un carioca come Rogério Duprat e irregolari nordestini quali Tom Zè o Torquato Neto; un gruppo di amici, musicisti, poeti e artisti a vario titolo che avevano l’ambizione di rinnovare la cultura brasiliana nel profondo, centrifugando tutto quanto il Brasile era in grado di offrir loro sul piano musicale – il samba, la bossa nova, le tradizioni delle diverse regioni del paese – con i nuovi suoni e i nuovi ritmi in provenienza dal mondo anglosassone.
Un calderone sonoro che non si poneva regola alcuna se non quella di ingurgitare – cannibalizzare, si sarebbe detto poi, a ricalco del Manifesto Antropófago di Oswald de Andrade – tutto quanto era a portata di mano, per riformularlo su basi nuove, un processo di ibridazione totale che avrebbe dovuto investire la società nel suo insieme, mirando a un rimescolamento radicale e “alla necessaria identificazione con tutta la cultura urbana occidentale”, nelle parole di Caetano. Contro il regime dei militari ma in opposizione anche al progetto nazional-popolare della sinistra: alla persecuzione politica in quanto sovversivi, i tropicalisti si trovarono pure nella scomoda posizione di dover fare i conti con il biasimo della sinistra all’opposizione.
La stagione tropicalista, in Caetano e in molti sodali della prima ora, è durata lo spazio di una vita. Non necessariamente e non sempre in stretta osservanza dei principi che l’avevano ispirata, ma la ricerca di una lingua tropicale, o di una verità tropicale per usare l’espressione cara a Caetano, capace di dare al Brasile e ai brasiliani un’identità diversa, moderna e svincolata dai fantasmi coloniali, dalla sopraffazione politica e culturale, dallo sfruttamento economico, è la linea guida che attraversa l’intera opera di questo straordinario artista. Una ricerca che è passata fatalmente dalla musica, ma in modo altrettanto articolato e urgente anche dalla parola, per segnare nel modo più verosimile i confini della sua patria d’elezione: la lingua come emozione politica.
In Lingua, prodigioso funk-samba-rap, Caetano scrive e canta:
Gosto de sentir a minha língua roçar
A língua de Luís de Camões
(Mi piace sentire la mia lingua sfiorare
La lingua di Luís de Camões)
Gosto do Pessoa na pessoa
Da rosa no Rosa
E sei que a poesia está para a prosa
Assim como o amor está para a amizade
(Mi piace Pessoa nella persona
La rosa in Rosa*
E so che la poesia sta alla prosa
Come l’amore sta all’amicizia)
* Pessoa in portoghese significa appunto persona. Rosa è Noel Rosa, uno dei più importanti e innovativi interpreti di samba d’inizio Novecento.
Vamos atentar para a sintaxe paulista
E o falso inglês relax do surfistas
Sejamos imperialistas!
Vamos na velô da dicção choo-choo de Carmen Miranda
(Attentiamo alla sintassi dei paulisti
E al finto inglese relax dei surfisti
Osiamo essere imperialisti!
Passiamo alla dizione choo choo di Carmen Miranda**)
** Qui il riferimento è alla celebre versione di Chattanooga Choo Choo cantata da Carmen Miranda, artista molto amata da Caetano, dove il choo choo del treno, nel tempo, e nello slang proto-tropicalista di Carmen Miranda, ha finito con l’assumere la connotazione di un vezzeggiativo (sciù sciù piuttosto che choo choo).
A língua é minha pátria
E eu não tenho pátria, tenho mátria
E quero frátria
Poesia concreta, prosa caótica
Ótica futura
Samba-rap
Chic-left com banana
(…)
Nós canto falamos como quem inveja negros
Que sofrem horrores no Gueto do Harlem
Livros, discos, vídeos à mancheia
E deixa que digam, que pensem, que falem.
(La lingua è la mia Patria
E io non ho una Patria, ho una Matria
E voglio una Fratria
Poesia concreta, prosa caotica
Ottica futura
Samba-rap
La sinistra chic con la banana***
(…)
Cantando parliamo come chi invidia i negri
Che subiscono orrori nel Ghetto di Harlem
Libri, dischi, video a profusione
Lascia che dicano, che pensino, che parlino)
*** Chic-left è un gioco di parole che richiama la canzone Chiclete com banana (gomma da masticare e banana), un brano portato al successo da Jackson do Pandeiro e poi ripreso anche da Gilberto Gil, che già evocava un’inedita (ma non necessariamente indigesta) pietanza a cavallo di due culture.
Caetano, un arcipelago. Ogni sua canzone, un’emozione politica. Sta in una categoria a sé. Un artista straordinario la cui lingua madre, quel suo portoghese al tempo stesso così dolce, persuasivo e ricercato, così refrattario alla standardizzazione del mainstream, non gli ha impedito di rivolgersi al mondo intero.
Sempre però con la modestia di chi non ama attribuirsi troppi meriti, se non quello di aver saputo individuare, ben prima di sé, un precursore che consentisse a lui di poter creare in assoluta libertà, attribuendo semmai a lui, al precursore, ogni prestigio e gloria: “il sentiero che porta alla verità tropicale passa dal mio ascolto di João Gilberto come il redentore della lingua portoghese, colui che ha scosso la società brasiliana dalla sua immobilità – dalla sua disumana e poco elegante stratificazione –, disegnatore di forme raffinate che schernisce quanti queste forme ritengono appannaggio delle élite, banalizzandole. Attraverso di me, il tropicalismo ha colto la realtà della musica popolare in Brasile esprimendone la vocazione più ambiziosa: quella che si materializza nel sound di João”.
Caetano Veloso, Lingua
Bonus track: Cucurrucucu Paloma (dal film Parla con lei di Pedro Almodóvar)
Bonus track 2: Luna Rossa
Bonus track 3: O leãozinho (il “leoncino”, scritta per il figlio Moreno, e qui interpretata dai due)
Bonus track 4: Autoacalanto, dall’ultimo disco Meu coco
Bonus track 5: Bésame mucho (con João Gilberto)