Maryam del Teatro delle Albe / Gli anatemi di Ermanna Montanari
Di Maryam, passata alla storia come madre del figlio del Dio cristiano, si legge nella Sura 19 del Corano, uno dei tanti anelli di congiunzione tra due delle più importanti religioni monoteiste. Proprio a partire da questo anello il romanziere e giornalista Luca Doninelli, dopo aver assistito allo spettacolo di una lunga fila di donne islamiche che rendevano omaggio alla madre di Gesù nella Basilica dell’Annunciazione a Nazareth, ha scritto un testo per il Teatro delle Albe (il secondo sodalizio, dopo l’adattamento di Martinelli de La Mano nel 2005). Lo spettacolo, che ha debuttato la settimana scorsa al Teatro Elfo Puccini di Milano per la regia di Marco Martinelli e Ermanna Montanari, è una partitura in quattro movimenti: tre preghiere di tre donne, e una apparizione finale della Madonna stessa. In scena Ermanna Montanari, da sola, passa da una figura all’altra caratterizzando ciascuna a mezzo della sola voce sulla musica elettroacustica di Luigi Ceccarelli, in un mescolio di dentro e fuori, di riverberi dello spirito e spazi esterni, tra motivi esotizzanti, soundscapes urbani e echi di guerra.
Su un velatino in proscenio scorrono preghiere in arabo, mentre le luci di Francesco Catacchio proiettano sul fondo e sul pavimento i giochi iridescenti che il sole produce attraverso le vetrate intarsiate dei luoghi di culto. In questo confessionale appena illuminato, Zeinab chiede a Maryam di fare da intermediaria con Allah perché Abdallah il vigliacco, l’uomo alto e magro con le dita gialle che ha usato violenza contro la sua amica Sharifa, la bella dagli occhi di fuoco, si ammali di un cancro fetido, perché quel demonio sempre ubriaco che tiranneggia in una casa di donne e bambini disarmati muoia sgozzato dai suoi stessi amici. Intisar, invece, implora la madre di Cristo di impedire una vita felice a coloro che, nella testa di suo fratello che sognava di fare l’ingegnere per costruire ponti e strade di pace, hanno instillato la follia che lo ha reso un kamikaze. Dhouha la scongiura di spiegarle il senso della morte di suo figlio dodicenne, il piccolo Alì, annegato in una traversata della speranza verso l’Italia, mentre vediamo proiettati sul fondo gli occhi di questa madre disperata sul meraviglioso volto di Khadija Assoulaimani. Di tanto in tanto, la luce isola la Montanari e la colloca dentro le immagini proiettate, ammassi di uomini lungo confini murati dal filo spinato o rovine e macerie di guerra, non tanto per sottolineare una voce di donna che si leva dalla devastazione per riscattarla con la plasticità dell’umano, quanto piuttosto per definire il punctum del quadro di morte, il dettaglio che illumina l’insieme, rendendo le macerie più visibili, proprio perché personali, ravvicinate, singolari.
A tre donne dilaniate, che pregano solo per maledire, Maryam risponde di non avere parole neppure per il suo stesso dolore di madre davanti a un figlio morto sulla croce; dice di non aver mai perdonato Dio per aver lasciato che morisse, e che nell’onnipotenza dell’amore di chi tutto sa sta anche l’impotenza; dice che Lui conosce tutte le loro lacrime perché sono anche le sue, poiché fin dai primi istanti della creazione quell’amore sconfinato si riempì di pianti. Ma Maryam, soprattutto, risponde che senza tutto questo dolore, senza tutta questa incomprensibile fragilità, non esisterebbe neppure l’amore. “Se avessi potuto compiere il prodigio di togliere mio figlio dalla croce, cosa sarei io per voi, oggi? Fortunata, quella. Beata lei. Questo direste di me, senza amore”.
Davvero dunque l’amore nasce solo dal dolore? Davvero possiamo amare solo per consonanza di ferite? Davvero Dio si è fatto impotente perché è nella sofferenza che si produce la compassione che rende umani e lo scollamento che rende vivi?
Domande così laiche, di fronte a uno spettacolo come questo, non sono pertinenti. Credere in un Dio tanto onnipotente quanto impotente di fronte al male è proprio il grande mistero della dottrina cristiana. Il mistero di coloro che, sebbene abbiano sofferto tutto l’odio, il dolore, lo strazio del mondo, hanno fede in un Dio che di quella fede è degno proprio perché si fa uomo, sangue del loro sangue, carne della loro carne, perché ha patito il loro stesso senso di solitudine, di perdita e di abbandono. Da questo punto di vista ha ragione chi ha scritto che la figura di Maryam, venerata dai cristiani e dai musulmani, getta un ponte tra due religioni e due culture oggi così drammaticamente lontane.
Ma è su alcuni caratteri della drammaturgia che vorrei soffermarmi perché è lì che mi sembra di rilevare alcuni nodi. Nei grandi drammi epico-didattici delle Albe come gli ultimi Pantani e Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, il movimento, la qualità drammatica, teatrale del testo, è nello svolgersi progressivo dell’indagine su una dinamica storico-politica. L’accadimento, anche quando è già tutto successo, è l’analisi dei fatti in cui è trascinato lo spettatore. Gli inserti lirici sono appunto inserti, affondi verticali in opere orizzontali, respiri individuali e profondissimi – di cui è generalmente portatrice la Montanari –, che destabilizzano e rendono plastiche e vibranti le complesse architetture dialettiche di Martinelli. A caratterizzare i migliori lavori corali delle Albe è proprio questa capacità di intersecare con sapienza e controllo le due dimensioni di spirito e storia.
Nel dittico di soli in lingua romagnola scritti da Nevio Spadoni, invece, – Lus con Ermanna Montanari e E’ Bal con Roberto Magnani –, la struttura portante, pur in presenza di abbozzi di dialogo e di racconto, è quella lirica: la materia drammatica, il movimento, è l’essere qui e ora della sofferenza, sulla scena e di fronte allo spettatore. La strega Belda cerca disperatamente la luce con le mani nel buio del palcoscenico, il suo sentire di “non esserci neppure tutta” è nei suoni di Daniele Roccato e Luigi Ceccarelli che la mandano fisicamente in frantumi. La Ezia di E’ Bal corre, le scoppia il cuore, le vien meno la voce, le esplode la testa proprio mentre il musicista, Simone Marzocchi, fa stridere uno strumento su una placca di metallo.
I lavori delle Albe riescono quasi sempre a innescare degli accadimenti, pur con tutte le strategie e gli espedienti di cui un drammaturgo deve armarsi in assenza sia di una intersoggettività dialettica che mandi avanti una trama a forza di novità e di sviluppi, sia di un nonsense superato che annida significati nei silenzi e negli interstizi.
In Maryam Doninelli utilizza la forma della preghiera-maledizione, che di per sé, come slancio verso un alto, altro, altrove, ha una natura lirica e potrebbe facilmente prestarsi a una vibrazione nell’hic et nunc della scena, ma in certi momenti sembra quasi che i caratteri epici, narrativi, di cui è caricata, finiscano per indebolirla. La preghiera diventa un espediente per avviare il racconto delle storie, il contenitore di brevi cronache dalla Palestina. Gli epiteti: “l’uomo dalle dita gialle”, “la bella dagli occhi di fuoco” sono formule tipicamente narrative che servono a produrre immagini per raccontare a chi non sa. Ma chi prega non riporta dettagli, nomi e caratteri dei personaggi, le preghiere dànno per scontato che Dio sappia già ogni cosa. Non a caso i momenti che funzionano di più sono le chiuse, il lancio delle maledizioni, che avviene, quello sì, di fronte a noi; si tratta degli unici momenti in cui Montanari si muove: con uno scatto stacca le braccia dal corpo, scioglie la posa immobile del racconto e invece di congiungere le mani in preghiera, le apre per scagliare l’anatema.
Ma c’è qualcosa che lascia perplessi anche dentro i nuclei narrativi. Ogni personaggio esplicita di volta in volta la propria identità: un’amica, una sorella e una madre. Però il punto di vista dei personaggi non sempre trova riscontro nella sostanza narrativa, la quale rende conto del sentire e del sapere di chi racconta, ma anche di chi è raccontato, come nel caso di Zeinab che riporta la vicenda di Sharifa per come la conosce e vive, ma anche quanto accade tra le mura della casa dell’amica, e perfino dentro il cuore di sua madre. Come può sapere che, per esempio, questa madre mangia per paura la pizza imposta dall’aguzzino di sua figlia? Chi sta parlando allora? L’amica di Sharifa o un narratore onnisciente? La sensazione, insomma, è che la forma non sia del tutto figlia dei contenuti, e che questo testo ibrido finisca per dire quello che dice, senza pori né squarci, e soprattutto che non produca movimento, accadimento, come dovrebbe essere in teatro, ma opinione, come in un articolo di giornale.
Ora, in bocca a un’attrice qualunque queste parole avrebbero potuto generare contraddizione, perché un’interprete si smarrirebbe nel rincorrere, e a vuoto, certi vettori ciechi imposti dal testo. Tuttavia, va detto, Doninelli questo testo non lo ha consegnato a un’attrice qualunque, ma proprio a Ermanna Montanari, la quale trova una via sorprendente: delle quattro donne ne fa una sola, sempre la stessa, lei, ieratica, nera, vestita con una giacca di pelle rossa col cappuccio che potrebbe essere sua e non di scena. L’unità d’azione dello spettacolo è la sua opinione, la sua relazione con queste storie, la sua cattiveria, la sua maledizione feroce, con quella voce polmonare che viene dalle viscere, più umana dell’umano, che mette sempre volontariamente in sofferenza l’apparato fonico perché nulla produca di naturale.
Montanari dà voce al dolore di quelle tre donne, non terrigno e vibrante come quello di Belda in Lus, ma neppure santo come quello di Aung San Suu Kyi: è un dolore che non sta accadendo, fermo, innaturale, senza strazio, che non commuove chi lo prova, perché è già oltre il sentire. Cosa rende ancora vive queste donne? In Belda, Aung Saan Suu Kyi, Tonina Pantani, batteva un male palpitante, un desiderio, un sogno. In Maryam non si muove niente e l’unico sollievo è un abbraccio non umano: una voce che arriva dal fondo della platea e cinge tutti alla fine dello spettacolo. Una voce più grande, più alta delle altre, che intona un canto, e ci lascia nel silenzio, senza dialettica, del mistero.
In scena a Teatro Due di Parma il 17 e 18 febbraio.