Gli avventurosi viaggi di Christoph Ransmayr

16 Dicembre 2023

Con L’inchino del gigante, pubblicato elegantemente – come sempre – da L’Orma a cura di Marco Federici Solari, raccolta di Cinque brevi viaggi e metamorfosi Christoph Ransmayr (1954) torna a confrontarsi con i temi che gli sono più propri, quelli sostanziati da esperienze di viaggio che si trasformano in scrittura. L’autore austriaco è noto soprattutto per il suo per il secondo romanzo, suo insuperato capolavoro, Il mondo estremo (Feltrinelli), scritto nel 1988. Ma già il primo romanzo importante, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre (Feltrinelli), apparso qualche anno prima nel 1984, era rivelatore delle sue più caratteristiche più peculiari. Si trattava del resoconto della spedizione austro-ungarica del 1872-1874 nell’Artico, in anni in cui tali viaggi erano ancora avventurosi col rischio della vita. Il racconto prende lo spunto dalla reiterazione del viaggio da parte di un discendente di un marinaio dell’equipaggio del 1872, Josef Mazzini, un austro-triestino. In questo romanzo Ransmayr segnala la sua sigla: avventure, viaggi in ‘mondi estremi’, sostenuti da una grande ricerca bibliografica. 

Non a caso – proprio in uno dei racconti dell’Inchino del gigante – l’autore ci fa entrare nella sua officina: la biblioteca nazionale austriaca a Josephplatz a Vienna, nella celebre Sala dei Mappamondi e Planisferi, nonché nella Collezione cartografia dell’Archivio dell’imperialregia Marina. In un’altra occasione Ransmayr, che ha studiato all’Alma Mater viennese etnologia e filosofia, raccontava di essere stato assiduo lettore della biblioteca specialistica annessa al Museo dell’Esercito all’ Arsenal. Per altro era anche un tenace frequentatore dell’annesso Café. Insomma, a differenze degli altri grandi scrittori, per es. Bachmann, Bernhard, che preferivano i caffè ‘letterari’, come Hawelka e Bräunerhof, lui se ne stava abbastanza isolato nel caffè del Museo dell’Esercito. Sempre Café e sempre Vienna certo.

È che in quelle biblioteche viennesi si era gradualmente formato lo spessore culturale di questo scrittore esotico, ma molto colto, un montanaro, che scrive molto di mari, di grandi fiumi e di navigazioni, mentre non descrive mai le sue montagne né con amore né con odio come fa Bernhard a ogni piè sospinto. Semmai Ransmayr preferisce descrivere le coste irlandesi, dove ha vissuto per anni, come ricorda lo splendido incipit dell’Inchino del gigante, ovvero La terza aria o Un palco sul mare. La scrittura di Ransmayr è particolarmente erudita e la fantasia si accende su manoscritti e volumi rari, come mostra Il mondo estremo, Die letzte Welt, che era nato sotto una strana costellazione. Hans Magnus Enzensberger, che aveva già notato il giovane austriaco, gli aveva proposto di curare una nuova edizione delle Metamorfosi di Ovidio per la sua «Altra Biblioteca» e Ransmayr si era subito applicato con risultati interessanti che a un certo punto subirono – poteva essere altrimenti? – una metamorfosi: Ransmayr riscrive, o meglio s’inventa una strana ricerca: il poeta latino viene esiliato da Augusto a Tomi (l’attuale Costanza sul Mar Nero) all’estremo del mondo conosciuto, ancora dominato da Roma. Durante l’inaugurazione di un nuovo stadio Ovidio aveva tenuto a microfoni spiegati un’allucazione che aveva suscitato l’irritazione dell’imperatore: il poeta si era rivolto direttamente ai romani e non al sovrano.

Tanto era bastato per sbatterlo all’estrema periferia del mondo civile. In realtà tutto il romanzo è un’invenzione plurima, caratteristica del gusto postmoderno degli anni Ottanta. Microfoni, giornali, film, proiezioni, automezzi, motori, ciclostile (oggi già desueto), sirene (quelle portuali, non quelle omeriche) insieme all’ottusa mentalità dei sudditi dell’Impero. Alla ricerca del poeta e del suo capolavoro, entrambi scomparsi, parte da Roma Cotta, discendente di una famiglia patrizia, che dopo un lungo viaggio per nave sbarca a Tomi ed è la fine del mondo, dove tutto è in decadenza, con un’umanità esasperata, brutale e abbruttita, un paesaggio roccioso, sassoso, primordiale, stravolto da valanghe e calamità naturali senza bellezza, squassato dalla violenza degli elementi. Di Ovidio quasi nessuna traccia, benché Tomi sia abitata da figure che sono a loro volta orrende metamorfosi di personaggi mitici che animano il poema latino. Ogni tanto affiora una rimembranza, uno straccio, una banderuola con un brano trascritto dal poema.

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A Cotta viene raccontata di un’altra, presunta opera del poeta, Libro delle pietre, che descrive questo universo senz’anima, ripugnante e sconvolto, sottoposto alle regole aspre degli atavismi. Questo mondo estremo vacilla, nelle raffigurazioni, tra distruzioni immani e sconvolgimenti inarrestabili all’insegna – assai ovidiana – che «nulli sua forma manebat», insomma tutto muta. Le metamorfosi che avvengono sono tutte deprivate dal sublime soffio che ispirava il poeta romano, che tuttavia a Roma aveva osato con la sua opera sfidare l’ideologia di Augusto. Infatti alla sua cacciata, nella sua casa: «bruciavano i libri di Nasone, no, tra le fiamme dei manoscritti bruciava un solo libro. Già il titolo di quel libro era stato un atto di arroganza nella città residenziale dell’imperatore Augusto, una sfida per Roma, dove ogni edificio era un monumento di dominio che alludeva alla stabilità, alla durata e all’immutabilità del potere. Metamorfosi, trasformazioni, aveva intitolato Nasone quel libro, espiandolo col mar Nero». Dunque come sempre una tragedia del potere.

Ransmayr dà una prova straordinaria di quel «lavoro al mito» che era l’intuizione della visione storica di Hans Blumenberg, confermando col romanzo una delle più innovative ricezioni dell’antico nella modernità, nonché creando un mirabile esempio di come letteratura produce letteratura. Il romanzo è corredato da un repertorio finale coi personaggi del racconto e quelli del poema, in una strabiliante sinossi. Chissà che ne avrà pensato Hans Magnus Enzensberger con la «Die Andere Bibliothek» che avrebbe dovuto ospitare la nuova riscrittura del poema di Ovidio. Il romanzo, infatti, era diventato uno dei titoli più rappresentativi della collana, che così era veramente diventata ‘un’altra biblioteca’.

L’altro grande romanzo, dalla scrittura sottile, raffinata, matura, di Ransmayr è Cox o il corso del tempo (2016). Questa volta siamo trasportati nel Seicento nel Celeste Impero. Insomma a Ransmayr piace descrivere le vertigini che si percepiscono negli Imperi (non ci si forma invano a Vienna). Il Signore dei 10.000 anni, Qiálóng, l’imperatore sublime, ordina all’artigiano inglese Alister Cox, famoso in tutto il mondo, e ai suoi più stretti collaboratori di recarsi nella Città Proibita – e successivamente nell’appartata residenza imperiale estiva – per costruire vari orologi. Uno deve segnare il tempo della vecchiaia, un altro dell’infanzia e infine il sovrano chiede al suo straordinario artigiano londinese un orologio che non debba mai arrestarsi, il perpetuum mobile, la grande utopia del tempo. Cox e i suoi accettano la sfida, lavorando alacremente con un sottile senso imitativo dei parametri estetici cinesi in un’atmosfera rarefatta, minacciosa, impalpabile, onirica, che lentamente si trasforma in un perfetto manierismo, imitando il ritmo quasi impercettibile dello scorrere di un tempo sempre uguale, che si avvicina al suo arresto.

Torna in mente un capolavoro della narrativa tedesca, La scoperta della lentezza di Sten Nadolny pure del 1988. È che nella letteratura tedesca agisce ancora la grande magia della manniana Montagna Incantata, il romanzo del tempo e sul tempo. Come Cotta, come Josef Mazzini, anche Cox si allontana dal racconto, che sfuma con un finale aperto, lasciato alla sapienza interpretativa del lettore, invitato a queste esplorazioni avventurose da un autore che continua a viaggiare, solitario avventuriero della letteratura austriaca. Nel 1985 Ransmayr aveva pubblicato Nell’angolo cieco. Notizie dalla Mitteleuropa, una raccolta di saggi di vari autori, tra cui Claudio Magris. Qui Ransmayr percepisce la sua appartenenza a una modalità particolare della letteratura tedesca, quella che unisce Vienna ancora a Praga fino a Trieste. E da Trieste si parte ancora per nuovi mondi e avventure.

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