"Gli italiani non capiscono"
L'Italia appare come una terra inospitale per l'advertising. Sintesi, semplicità di pensiero, umorismo leggero, imprevedibilità, orrore dei cliché e del ricatto sentimentale: nessuna di queste caratteristiche sembra appartenerle, e l'elenco potrebbe continuare.
C'è però un aspetto in particolare che separa questo paese dalla buona pubblicità, e non solo da quella. L'idea di pubblico. Per capirlo, basta osservare con attenzione nei break pubblicitari nostrani la lampante differenza tra gli spot prodotti all'estero e quelli invece realizzati in Italia. I primi sono spesso eleganti, di ottima fattura, non di rado divertenti, mentre dei secondi, quelli locali, quasi sempre si può dire solo il peggio o sbadigliare.
È evidente, sono stati pensati per platee diverse. Le campagne estere presuppongono cioè un pubblico del quale si teme il giudizio, il cui consenso va guadagnato. La pubblicità prodotta in Italia, invece, sembra pensata per un pubblico privo di strumenti, una massa passiva che non chiede originalità. Quello italiano risulta un pubblico che non capirebbe.
Non c'è pubblicitario italiano che non abbia incontrato sul suo cammino questo dogma, asserito nelle aziende e nelle agenzie come verità incontestabile, anche se in nessun altro paese occidentale si verifica questo continuo evocare casalinghe di Voghera, sciure marie e compatrioti minus habens.
Gli italiani non capiscono. Ecco la vera ideologia della nostra classe dirigente, l'unica nella quale tutti credano, che accomuna cioè non soltanto la stragrande maggioranza dei comunicatori, dei decisori di linguaggio, ma chiunque arrivi a occupare un posto di comando.
È lì che nasce la grande impostura: a chiedere un così brutto spettacolo sarebbe il suo stesso pubblico, il quale non accetterebbe nient'altro e anzi, non vedete?, approva consumando. Sarebbero cioè gli italiani stessi, i mandanti.
Bugia. Se così fosse, l'attuale calo di consumi avrebbe dovuto provocare più di un cambiamento. Davanti a un pubblico in fuga si dovrebbero cercare nuovi linguaggi, almeno un cambio di registro. Invece niente, neanche ora che le cose vanno male. Una sordità che dimostra quanto davvero ci si trovi davanti a uno schema ideologico.
No, la pubblicità è fatta da chi la produce, non da chi la riceve. È fatta da chi la crea, la commissiona, la firma. La decadenza della réclame italiana è semplicemente colpa della sua mediocre classe dirigente, pubblicitaria e aziendale, aggrappata al credo di un'audience poco sapiens per giustificare la propria modestia.
Attenzione, però. La rappresentazione perenne di una massa italiana che non capisce, e soprattutto: della quale chi parla non è parte, ha permeato ormai l'intera scena pubblica e assume le forme più diverse.
Quando per esempio si arriva a dire che la pubblicità sessista induce alla violenza sulle donne, non si fa che perpetuare questo schema. Si intreccia cioè la sacrosanta protesta
contro la mancanza di civismo di quelle campagne con la visione paternalistica di un pubblico debole, influenzabile da qualunque stimolo. Difendendolo, lo si accusa d'essere privo di senno.
Quando più in generale si denuncia la pubblicità come forma di manipolazione, non si fa che descrivere implicitamente gli italiani come creta plasmabile. Alla nostra réclame vengono sempre ricordati i suoi doveri pedagogici. Il che è comprensibile, ma rivela anche il vizio di fondo, l'idea di gregge. Mai che si invochi più fantasia, più immaginazione, più dialogo tra pari.
Il fatto è che la visione dell'italiano che non capisce ha una lunga storia di potere, e certo non riguarda soltanto la pubblicità. A ripercorrerla, si può anche finire in piena Controriforma, a quel popolo per l'appunto "considerato come un gregge da mantenere docile o come un fanciullo destinato a non diventare mai adulto" al quale fornire "una cultura premasticata e innocua" (Adriano Prosperi).
Oggi questa visione antica è egemonica, accettata a destra come a sinistra. Giustifica la spazzatura per le masse, ma anche la produzione di "qualità" autoreferenziale per le élite. Spiega comodamente il consenso per Berlusconi, che sarebbe ottenuto grazie ai mass media turlupinatori, così come motiva le battaglie per il controllo della Rai, a loro volta ritenute cruciali per agire sull'opinione pubblica.
Vive persino nei discorsi di Grillo: "Gli italiani guardano la televisione e le credono, non hanno anticorpi, pensano di vivere in una democrazia". Esempio, quest'ultimo, di come l'ideologia dominante si sia ormai diffusa fino a toccare anche il singolo spettatore di un comizio, il quale, per il fatto stesso di ascoltare il comunicatore, in quel momento è tra chi capisce. Qui sì siamo all'unicità su scala mondiale. In quale democrazia la classe dirigente definisce i cittadini incapaci di essere liberi?
Durerà? Come spesso accade, il linguaggio pubblicitario lo saprà prima di altri. Ricordiamo su Bill 1 un'intervista ad Ali Ali, grande firma dell'adv egiziano. Fu lui stesso a raccontare che prima della rivoluzione, quando proponeva le sue bellissime idee pubblicitarie, si sentiva rispondere dai clienti: “Il consumatore è troppo stupido, non capirà”. E le proposte venivano bocciate. Quando però un giorno arrivano i moti di piazza Tahrir, la caduta di Mubarak e le elezioni, all’improvviso, quegli stessi clienti davanti alle proposte del nostro pubblicitario rispondevano: “Attento, i consumatori sono più in gamba di quanto si pensi”.
Anticipazione dal nuovo numero di Bill in edicola oggi 5 luglio e interamente dedicato alla pubblicità italiana e ai suoi dintorni. Qui il sommario