Gli USA nel WC

13 Aprile 2011

Una cosa che unisce gli Stati Uniti è la fabbricazione dei bagni pubblici: ogni WC è racchiuso da quattro pareti, alte poco più di una persona in piedi e sospese a circa trenta centimetri da terra. Queste esagerate misure di sicurezza, che rendono fuorilegge i sigillati bagni europei, non tengono conto tuttavia della privacy, bene assai prezioso in tali occasioni, come mi rendo conto in un museo dopo uno sfortunato pranzo Tex-Mex.

 

Pulita meticolosamente la tavoletta, creato uno strato di carta igienica a lasagna, assumo una posizione innaturale quanto efficace allo scopo. Ma durante i preparativi qualcuno entra nella cabina adiacente. Con tutto questo spazio da terra, parte dei suoi pantaloni sconfina nella mia proprietà. Poiché ha il cellulare legato alla cintura, se dovesse squillare farei prima a rispondere io e a passargli la chiamata. Le piastrelle bianche del pavimento tirato a lucido hanno una fastidiosa qualità riflettente che mi restituisce l’immagine distorta del mio vicino immobile e della sua cravatta penzolante. Ricoprire di carta igienica l’interno del WC sarebbe inutile, perché i capienti water americani sono ripieni d’acqua, che genera quello schizzo di ritorno che fa le veci del bidet. Né posso tirare lo sciacquone in sincronia con l’Opera, essendo il sistema regolato da sofisticati sensori. La situazione mi inibisce del tutto quando mi rendo conto infine che tra la porta e lo stipite – come in un saloon da far west – c’è una fessura abbastanza larga per vedere il paesaggio esterno: i lavandini, lo specchio e gli altri utenti, persino dal defilato bagno per handicappati in cui mi sono rifugiato. Sullo specchio distinguo la mia ombra accucciata e sospesa in un silenzio da sagrestia, in cui ogni movimento rimbomba.

 

Presagendo di fare molto rumore in questa sala linda senza alcuna scritta al muro per distrarsi, aspetto fiducioso, come un gong, qualsiasi sciacquone che attutisca un minimo le dinamitarde azioni. Finalmente qualcuno entra per usare il lavandino. Lo tengo sott’occhio dalla fessura come da dietro un cespuglio ed egli, accortosi delle due scure presenze umane alle sue spalle, sembra abbassare leggermente lo sguardo in segno di fraterno rispetto. Come si azionerà la ventola dell’asciugatore elettrico, rimugino, partirò alla carica. Allungo il collo, spingo la testa lontano dal corpo, sollevo l’osso sacro, gli occhi sbarrati, i muscoli delle gambe tesi e tremanti, le mani non più sotto il mento ma ancorate al sedere. Così conciato sento che potrei persino spiccare il volo. Un paio di profonde respirazioni addominali mi predispongono al meglio. È in quel momento che sento lo sfilare secco delle salviette di carta: in questi fottuti bagni americani non ci sono neanche gli asciugatori elettrici. Chiudo gli occhi e sento il dolce rombo di un aereo, vedo un prato deserto e verdi foglie per pulirmi, mentre ripenso al racconto tragicomico di un turista che doveva cacare durante i funerali di Giovanni Paolo II. Nessun cenno di vita, nel frattempo, dal mio vicino, che aspetta da me un chiaro segnale prima di offrire il suo assolo. Mentre la disperazione sale, mi fisso una seconda scadenza non ulteriormente dilazionabile: lo sbattere della porta d’ingresso, ormai vicino. Uno, due, tre, casino!

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