Hiroshima: per non dimenticare

1 Novembre 2013

Shinichi Tetsutani aveva tre anni e stava giocando nel giardino di casa con il suo triciclo quando apparve la pika, luce di morte. Nella teca del Memoriale a Hiroshima il suo triciclo, assieme a un elmetto, sembra un'opera d'arte.

 

 

Lo splendido diario di Machihiko Hachiya – tradotto, sulla base del testo ufficiale inglese di Neal Tsukifuij del 1955, da Francesco Saba Sardi - si comprende fino in fondo solo dopo avere visitato il Memoriale. Dove sta il piccolo triciclo devastato di Shinichi, in una teca, insieme a tante altre memorie. Quel triciclo non è opera d'arte, è opera umana, ma non appartiene a un autore. Sembra esserlo, come la pika. Chi l'ha veduta la descrive come un bagliore:

 

All'improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro. A volte, di un evento, si ricordano i più minuti particolari: rammento perfettamente che una lanterna di pietra nel giardino si illuminò di una luce vivida, e io mi chiesi se fosse prodotta da una vampa di magnesio, o non piuttosto dalle scintille di un tram di passaggio. (Hachiya, p.13)

 

Descrizione di un momento, come nella poesia ermetica. Subito dopo qualcosa ti trapassa da parte a parte, dissolve la carne nel nulla, scambia le cause con gli effetti, per cui chi è più grave dopo l'esplosione sopravvive più a lungo di chi appare non aver subito danni.

 

Hachiya e moglie, 1959

 

In tutta la devastazione successiva una buona notizia, per noi moderni un paradosso, il salvataggio del ritratto dell'imperatore. Colui la cui voce non si è mai sentita parla alla radio dichiara (con un linguaggio arcaico, incomprensibile) la resa del Giappone. Mentre, dopo la bomba, la gente per strada cerca di salvarsi, di salvare l'Altro, in silenzio.

 

Il triciclo di Shinichi non è un'opera d'arte, ma è sublime. Un oggetto “contro cui soccombiamo fisicamente, ma su cui ci eleviamo moralmente”, direbbe Schiller. Ma Schiller non fu testimone del Novecento. La frase andrebbe ribaltata, soccombiamo moralmente dopo la Shoah, dopo Hiroshima, soccombiamo moralmente. Anche se restiamo vivi.

 

Mai come in questo diario – scrive Elias Canetti – sono riuscito a conoscere un giapponese. Per quanto abbia letto, già prima, su di loro. Solo ora, per la prima volta, sento di conoscerli realmente.
(E. Canetti, in Diario di Hiroshima, postfazione, p. 250)

 

La convivenza tra la venerazione di un imperatore quasi evanescente (come l'Essere di Duns Scoto, o il dio di Bonhoeffer) e l'accoglienza piena e profonda delle istanze dell'altrui persona. Una venerazione ineffabile, come la pika, luce, che vista da fuori non può altro essere che pikadon, luce e tuono. Qualcosa di differente, che non può essere testimoniato che da dentro, che viene comunicato all'altro come un paradosso, che produce la reversibilità del tempo, si scaglia contro il secondo principio della termodinamica. Solo luce.

 

Hiroshima

 

La vera ragione per essere contro il nucleare. Non si tratta di discutere se sia vero che senza il nucleare si ferma lo sviluppo, oppure che il nucleare “pulito” inquini meno di altre fonti. Può anche essere tutto vero. È vero? Ma allora perché, quando lo dici, assumi quell'aria di mostruosa stupidità tipica dello scienziato progressista! Il tuo volto dice che stai mentendo!

 

Di fronte a Hiroshima, il problema non è quello degli effetti del nucleare, son fin troppo evidenti.

 

Non ci sarebbe stato neppure bisogno di Fukushima. Il problema è se ha ancora senso definirsi progressista. Qui il nucleare è invincibile perché è un fantasma, non ha niente a che fare con la realtà là fuori, è la viva testimonianza di migliaia di persone morte.

 

Sebbene Hiroshima e la Shoah siano differenti, c'è un aspetto comune: i testimoni sono sommersi, la testimonianza arriva dai minuti particolari, che sempre e continuamente riemergono dalla memoria, come il triciclo di Shinichi.

 

Dopo avere visitato Hiroshima, sarei contro il nucleare anche se avessi la certezza assoluta che la sua energia, tenuta sotto controllo, non fa alcun danno; è proprio l'idea del controllo che atterrisce! A Hiroshima tutto era sotto controllo, perciò fu scagliata la bomba il 6 agosto 1945 alle ore 8.15 precise. Qui a Hiroshima c'è una convinzione radicata: si trattava di testare la bomba, un esperimento scientifico.

 

Hiroshima

 

Non so se ciò dipenda da Hiroshima e Nagasaki, oppure da questo imperatore quasi inconsistente, ben più rarefatto delle dinastie reali europee, o da qualche altro dettaglio: quando sei là, in Giappone, ti stupisci. Da un lato le vestigia di una tecnologia ancora vitale, in via di decadenza, la più bassa natalità del mondo, la velocità della camminata media dei cittadini di Tokyo, le migliaia di colletti bianchi che vedi guardando dall'alto di un treno al decimo piano di un enorme open space; dall'altro bambini felici, che giocano per strada, dappertutto, parchi giochi, ritrovi, piscine alte mezzo metro, adulti che dedicano loro il tempo, che li portano in giro, mostrano loro il mondo.

 

Oggi, davanti a questa civiltà delle buone maniere, noi europei – che non abbiamo più nulla da insegnare – si rimane come esterrefatti, sbigottiti.  Oggi Shinichi avrebbe una settantina d'anni, avrebbe figli e nipoti cui dedicarsi, racconterebbe la sua vita. Muore per un non senso il 6 agosto 1945 a tre anni, quale la differenza? Qui sta il senso della fine: come sarebbe il mondo se quelle bombe non fossero mai state lanciate? Chi sarebbe Shinichi Tetsutani? Quale il suo mondo possibile?

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