Hypothesis

7 Gennaio 2016

Hypothesis di Philippe Parreno (Orano, Algeria, 1964) non è una tradizionale mostra antologica, ma un’esperienza dove ogni cosa è sia causa sia conseguenza di qualcos’altro. Invita a entrare in una partitura plurisensoriale, in una dimensione percettiva di notevole portata, per mettere in atto un’estensione dei limiti fisici, per uno spostamento temporale, tra luci, ombre, suoni e immagini in movimento. Il titolo intende segnalare che è più vicina all’ipotesi di un lavoro aperto, a un’esperienza mutevole e fluida, all’interno di uno spazio in cui si alternano eventi diversi. È un esperimento memoriale, anche, fondato su innumerevoli possibilità di creare connessioni: “Se è vero, come afferma Tino Sehgal, che il formato-mostra sia solo un’invenzione del XVII secolo, allora questa concezione deve essere superata, fin da ora, a partire da Hypothesis. Vorrei che le persone, attraversando il percorso, provassero a ricomporlo a modo loro creando una nuova memoria, una nuova connessione con le mostre precedenti e quelle successive in relazione a qualcos’altro che deve ancora venire. […] Secondo una nuova connessione, ogni lavoro di altri artisti, riproposto secondo un percorso ulteriore, regala alla mostra un principio di conversazione che allarga i confini dell’autorialità, svelando gli scambi che si sono sviluppati”.

 

 

Parreno lascia intendere che ogni mostra accade contemporaneamente in un momento preciso della storia, sia personale sia collettivo, in rapporto continuo con ciò che è accaduto prima e ciò che avverrà dopo, sia con lo spirito del luogo scelto per esporre, sia con i lavori realizzati lungo l’intera carriera dell’artista, sia con le idee di altri interlocutori. All’inizio dell’esposizione, i sette props (elementi di scena) trasparenti di Jasper Johns, ideati per la performance Walkaround Time (1968) di Merce Cunningham, riproducono le immagini tratte da La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (Il Grande Vetro) (1915-1923) di Marcel Duchamp, ovvero una delle opere più complesse e misteriose del XX secolo. Il rimando induce a pensare che forse l’esposizione deve essere messa a nudo dai suoi fruitori, anche, per innescare una trasformazione continua. E già qui viene suggerito il leit motiv della mostra, il rapporto di sospensione tra vari tempi e tra varie intuizioni, entro i fili conduttori che alimentano proiezioni continue, tra memoria e apertura al futuro, immediato e prossimo. Viene data molta importanza alla possibilità di immaginarsi come potrebbero essere le mostre se gli artisti e i fruitori fossero sempre meno interessati alle singole opere, agli oggetti, al loro valore. E apre anche al valore aggiunto di un dialogo e confronto con il lavoro e le idee di un curatore con lo sguardo evoluto come Andrea Lissoni. I ruoli dell’artista e del curatore qui sono diventati un corpo unico. Le parole chiave per aprire le porte invisibili di Hypothesis sono verbi come “interagire”, “connettere”, “collaborare”, “collegare”, “conversare”, “trasformare”, “ricombinare”: “Ho scoperto l’opera Set elements for Walkaround Time (1968) durante un lavoro con Carlos Basualdo a Philadelphia. La mostra si chiamava Dancing around the Bride. Mi piace il fatto che quest’opera sia frutto di una collaborazione. La mostra era una produzione di cinque artisti (Jasper Johns, Merce Cunningham, John Cage, Marcel Duchamp e Robert Rauschenberg) e il tutto ruotava intorno all’interazione fra questi artisti, e il fatto che la forma non appartiene a una firma ma a una conversazione poetica che questi personaggi – gli scapoli – riuscirono a instaurare.

 

 

Quest’opera è interessante dal momento che fu progettata da Jasper Johns per una coreografia di Cunningham, ma è anche una rivisitazione del Grande Vetro di Marcel Duchamp. Loro cinque da soli avevano instaurato una vera connessione, che mutava e si spostava fra differenti generazioni. Questo sì era interessante. La coreografia Walkaround Time di Cunningham inizia con i ballerini che si scaldano in presenza degli spettatori e c’è una traccia musicale un po’ vaga, ma la performance dei ballerini è incredibile. L’opera è un movimento nell’arco di una vita. Il tempo è un momento che condividiamo e non è prestabilito. Non c’è nulla nel tempo che assomigli a una timeline. Il tempo è un respiro, non c’è una struttura, per cui un’opera può essere lunga o corta, ma non è delimitata o prestabilita in base a una composizione. La ragione di questo sta anche nel fatto che il tempo che dedichiamo alla visione di un’opera è una nostra scelta. Si tratta di questo”. Parreno lavora assiduamente per cercare di far scomparire l’opera egoica, segnalando una sorta di drammaturgia in azione: “Alla base di Hypothesis c’è l’idea che una collezione di opere sia molto più di un insieme di oggetti artistici, in quanto capace di produrre da sola una sorta di drammaturgia. Quindi l’atto di mettere in mostra è anche un atto di produzione di forme”.

 

 

È un’esposizione che contiene altre esposizioni, come fosse una parola-valigia in scatole cinesi, mettendo in discussione il concetto di autorialità. Avviene continuamente un prelievo da lavori precedenti, anche di altri artisti, per far in modo che si venga a creare un sito di produzione e non un luogo chiuso e definito da contemplare dopo la sua inaugurazione: vi sono lavori sonori di Nicolas Becker, Agoria, Rob A.A. Lowe, Mirwais, Antony Hegarty, degli Antony and the Johnsons, di amici e collaboratori di Parreno, che, per diversi anni e in altre mostre, sono entrati nello spirito del progetto, creando materiale che è stato utilizzato nell’Hangar Bicocca di Milano. È riprodotta anche una performance sonora di Tino Sehgal. Il film Anywhere out of the Word (2000) deriva da No ghost just a shell, un progetto in collaborazione con Pierre Huyghe, dove la protagonista è un personaggio manga, libero da copyright. A Liam Gillick è affidato il compito di ricreare un sole artificiale che si sposta da est a ovest, attraversando lo spazio espositivo con binari sospesi. Il potentissimo faro proietta anche le ombre dei cavi e dei sistemi di allestimento che sorreggono le opere sospese, ricreando una emozionante fantasmagoria in bianco e nero. Il titolo è Another day with another sun (2014), che si mette in relazione diretta con l’installazione site-specific Danny the street (2006-2015), proveniente anch’essa da una mostra precedente, così che la luce artificiale proietti ombre attorno, andando a muoversi sui corpi degli spettatori e sulle pareti e colonne dell’Hangar. Danny è il nome del personaggio creato da Grant Morrison e Brendan McCarthy per la DC Comics, e l’installazione è costituita da diciannove sculture poste parallelamente al suolo, composte di plexiglass, luci e suono.

 

 

C’è un tempo scandito da questo “altro sole”, per fare in modo che il pubblico si possa muovere in uno spazio che pare seguire il ritmo delle rivoluzioni dei pianeti in un sistema solare. Continua a muovere qualcosa, spostando l’attenzione dei fruitori ora sulle proiezioni di quattro film o sulle ombre delle diciannove Marquees (riprese dai tabelloni luminosi che negli anni ’50 riportavano il programma di un cinema all’esterno, annunciando regista e attori, e qui diventate segnalatrici del vuoto che rimanda solo a se stesso) nella lunga parete bianca, ora su un’esecuzione del pianista Mikhail Rudy, sulla musica proveniente da due pianoforti Disklavier, che determinano la sequenza temporale di tutta l’esposizione, e sembrano suonare da soli o da fantasmi, ora su un brano di elettronica dance o sullo scorrere del sintonizzatore tra le voci e canzoni delle radio. Le forme appaiono, scompaiono per poi riapparire di nuovo, in loop, cangianti o in bianco e nero, tra silenzi e suoni del quotidiano. È una mostra percorsa da presenze ultrasottili, ectoplasmatiche, dove vite precedenti e attuali convivono allo stesso tempo. I linguaggi sono molteplici, attingono alle soluzioni formali della scultura cinetica, all’interdisciplinarità delle neoavanguardie americane, al cinema sperimentale strutturale, all’arte concettuale, alle pratiche “relazionali”. È messo in visione il riuso di opere del passato, che assumono una forma nuova. Siamo portati entro una mostra sinfonica e corale, non determinata nel tempo. Non solo lo spazio, ma anche le immagini sono in costante divenire, senza un inizio o una fine, in grado di favorire associazioni molteplici e non definibili a priori: “Oggi non esistono più belle immagini, ma piuttosto catene di immagini. […] Con “catena” intendo una struttura dinamica che produce forme; pre-produzione, produzione, post-produzione: queste istanze narrative dipendono l’una dall’altra”. Anche i quattro film scandiscono una concatenazione di immagini collegate, dove aleggiano presenze fantasmatiche, mostri dell’oscurità infantile, masse in stato d’ipnosi, rimandi extraterrestri. The Boy From Mars (2003), cortometraggio girato nel villaggio di Sanpatong in Tailandia, ripercorre i cambiamenti di intensità luminosa emanata dalla Battery House ideata dall’architetto François Roche, ovvero una sorta di shed che genera energia elettrica mediante un sistema di pulegge, attivato dalla forza di alcuni bufali da tiro, e si sofferma su presenze luminose nel cielo, lasciando il dubbio che siano presenti navicelle spaziali o lanterne infuocate che ascendono nella notte. In Invisibleboy (2010-2015), un bambino cinese immigrato a New York, probabilmente non documentato da un censimento giuridico, è immerso in una moltitudine soffocante di oggetti che si accumulano negli spazi angusti di un piccolo appartamento. Il bambino immagina o vede esseri mostruosi aggirarsi tra le stanze e nelle vie di Chinatown, quasi fossero presenze aliene o figure invisibili come lui. In Marilyn (2012) il fantasma della Monroe si muove nella suite dell’hotel Astoria di New York, ancora, come fosse negli anni Cinquanta. In realtà tutto è finzione, girata in in un set cinematografico vuoto, dove la sua voce è un algoritmo, il suo sguardo è la macchina da presa, e la sua scrittura è riprodotta da un robot. Nel rinnovato The Crowd (2015) centinaia di persone sono radunate attorno a un’area luminosa, forse attirate dal suono di un pianoforte. L’esecutore non si vede. I passaggi dei corpi in movimento paiono divenire ombre, entrare in nubi di particelle sospese o in masse di fumo, evocando fantasmagorie, come se gli individui fossero stati proiettati in un’esperienza forse ultraterrena. Questi cortometraggi insinuano la sensazione che i confini tra presenza e assenza siano evanescenti, come pure quelli tra chi osserva e chi è osservato, nel passaggio sottile tra l’impalpabilità della luce e il mondo delle ombre. E da buona opera aperta questa mostra sinfonica continua a muoversi nella memoria di chi l’ha vissuta, lasciando sedimentare e vibrare i suoi impulsi e le innumerevoli suggestioni visive e sonore, in attesa che riverberino nella coscienza sotto forma di altre possibilità immaginali, per “sapere andare oltre le forze esistenti della vita con un istinto ritmico”.

 

 

 

La mostra:

Philippe Parreno. Hypothesis, a cura di Andrea Lissoni

dal 22.10.2015 al 14.02.2016, HangarBicocca, Milano

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