Una mostra al MAST di Bologna / I lavori della fotografia

2 Marzo 2022

I terreni arati delle colline marchigiane e un braccio robotico, paesaggi invasi dalle ciminiere e un uomo immerso in un’elegante piscina di un appartamento di lusso all’ultimo piano di un grattacielo: la mostra presso il MAST di Bologna riesce a collegare tra loro questi elementi, lasciare per terra un filo rosso in grado di collegare ciò che è appeso alle pareti di quello che pare il labirinto – così si presenta la mostra al visitatore – della storia che ha generato la nostra epoca. La visita presso “The MAST Collection – un alfabeto visuale di industria, lavoro e tecnologia” potrebbe a primo impatto dare qualche vertigine: ci si ritrova, infatti, del tutto e di colpo immersi in quel tracciato, dalle prime scintille del processo di industrializzazione all’attuale ricerca tecnica e tecnologica, ovvero di quel percorso iniziato nel XIX secolo e tuttora in atto.  

 

Ci si sente chiamati in causa, in qualche modo, fin da subito: “voi siete arrivati da tutto questo, ora vi trovate qui, le prospettive sono queste”, pare essere la voce costante e sotterranea che permea la visita. 

Il percorso è composto da 500 immagini di più di 200 fotografi, tra anonimi e grandi maestri – da Nino Migliori a Mimmo Jodice, da Bill Brandt a Robert Doisneau e ancora da Herbert List a Sebastião Salgado – che danno vita a un panorama vasto e a una rete molto articolata di suggestioni storiche e contemporanee delle molte sfumature che riguardano il lavoro e la produzione. L’obiettivo dichiarato della mostra, infatti, è quello di far emergere la correlazione intrinseca al concetto di lavoro di tutti i suoi significati: per questo il percorso di visita è stato diviso in 53 capitoli corrispondenti alle lettere dell’alfabeto, ognuna associata alle parole chiave (in lingua inglese) legate ai numerosi temi correlati al mondo produttivo. 

La prima immagine della mostra, posta come dichiarazione in partenza, è “Senza Titolo” di Florian Maier-Aichen del 2007: un paesaggio montano a colori di cui si vede nettamente il percorso che disegna la valle tra le due catene montuose, un sentiero zigzagante: come la mostra che si andrà a visitare dopo di esso. 

 

Florian Maier Aichen, Senza titolo.


Lo spettatore, infatti, sebbene sia guidato dall’avanzamento alfabetico e dalle frecce sul pavimento, potrebbe potenzialmente seguire un percorso alternativo senza intaccare il significato della mostra. 

Il curatore, Urs Stahel, zurighese, ha così impostato il percorso di visita in un modo innovativo, slegato dal solito modo di concepire esposizioni fotografiche: ha, ovvero, razionalizzato centinaia di fotografie, album di autori anonimi e opere di videoarte appartenenti alla collezione della Fondazione (che conta circa 6000 opere, acquisite negli ultimi anni) cercando di spostare l’attenzione dal “chi”, per lasciare spazio solo al “cosa”, al contenuto del discorso. L’obiettivo è stato quello di restituire una panoramica quanto più precisa del concetto di lavoro, più che sottolineare l’autorialità dell’occhio che l’ha documentato, intendendo il materiale fotografico soprattutto come testimonianza storica e non principalmente come opera d’arte. La fotografia è stata in qualche modo riportata alla sua antica ambivalenza, tra la registrazione pratica della realtà e la lettura autoriale, quindi artistica, di essa. 

 

 

Ci si troverà, così, di fronte a una panoramica di grandi dimensioni di Josef Koudelka sotto la sezione /I/ di Industrial Landscape, oppure, sotto la /A/ di Architecture, alle famose immagini di architettura industriale dei coniugi Becher, preludio diretto a quelle che seguono di Gabriele Basilico. 

 

 

Camminando negli spazi della mostra ci si accorge di essere sollecitati da tutti i fronti, ricevendo informazioni costanti, sapendo che l’unica logica con cui si muovono può paragonarsi a quella a mosaico, senza dare cenni sulla forma finale che andranno a comporre, richiamando quasi il meccanismo industriale. Pur contenendo in sé un filo narrativo, trovando infatti fotografie e documenti dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri, l’allestimento per temi fa in modo di mettere lo spettatore nella posizione di ricostruire quel filo, dandogli però in cambio il significato che ha avuto, nel tempo, ogni tema trattato. Sbilanciandosi leggermente, si può dire che questo tipo di allestimento procuri quasi l’effetto di un brano di musica atonale: l’avanzamento, non avendo una sequenza temporale e vedendo accostate immagini di più epoche insieme, visivamente strutturate in modi molto diversi tra loro, crea lo spaesamento tipico che genera una nuova logica con cui dover prendere confidenza. 

 

“La fotografia è figlia dell’industria” ci dice Urs Stahel: ciò che si evince dalla mostra è che ogni suo componente lo è, dal tipo di supporto alle tecniche utilizzate per realizzarla. Per un fotografo, questa mostra magari non metterà in risalto la singola poetica di ogni autore, né proverà a dare la propria chiave su “come” rappresentare determinati soggetti, bensì metterà di fronte a un tanto già rappresentato, a tanti “come”, dalla nascita della fotografia ad ora. 

 

Quei terreni arati delle colline marchigiane, che appartengono all’occhio di Mario Giacomelli, entrano quindi in dialogo diretto col braccio robotico di Peter Fraser su più piani: ogni singolarità dell’immagine giacomelliana, dal formato alla carta, dal supporto alla composizione che tanto ancora doveva alla pittura informale, è lo specchio dell’epoca in cui è stata prodotta, tanto quanto il contenuto. Così come quella di Fraser, in cui il braccio viene immortalato in una inquadratura assai più semplice che vede il soggetto bene a fuoco che spicca su uno sfondo magenta, risultando molto vicina alla più recente cultura dello still life pubblicitario. 

 

Peter Fraser, Robotic arm with degrees of movement.


In entrambi i casi, poi, la figura dell’uomo rimane invisibile, celata dietro al risultato che ha raggiunto e che le fotografie ci mostrano: l'agricoltura e l’intelligenza artificiale. 

Questo accade anche nello scenario che pure pare possibile nell’opera di Thomas Demand, “Space Simulator” ed è, inoltre, significativo che l’autore in questione sia famoso per le sue riproduzioni di ambienti impossibili partendo dalla riorganizzazione di informazioni reali: la tecnica per la realizzazione delle immagini, seguendo di pari passo la crescita nell’ambito tecnologico, fa avverare la frase di Stahel e mette la fotografia nel ruolo di poter, velatamente, parlare di se stessa. 

 

Thomas Demand, Space simulator.


Un'altra impressione generale della mostra è che sia “super partes”: non mancano, infatti, tra i temi toccati, gli aspetti più dolorosi della storia del lavoro industriale, come il lavoro minorile, così come l’inquinamento e la salute danneggiata dall’intrusione degli stabilimenti nel tessuto urbano abitato, come ben rappresenta l’immagine del 1936 di Hans Peter Klauser “Bagnanti felici sulla Sihl”, in cui giovani donne e uomini in costume da bagno vivono il loro pomeriggio di svago con tre enormi ciminiere fumanti sullo sfondo. 

 

Hans Peter Klauser, Bagnanti felici sulla Sihl.


Il discorso della mostra pare quindi essere più una neutra ed esaustiva panoramica che lascia allo spettatore lo spazio per determinare l’esito del ballottaggio, un’eventuale decisione, le riflessioni finali. Si viene messi di fronte a tutto, non si hanno condizionamenti morali, né si viene guidati verso una specifica direzione. Contemplando ogni possibilità del tema, la mostra pare porsi come figlia legittima del proprio tempo storico, che vuole comunque sentirsi legata al retroscena che l’ha generata, riassumendo le orme della propria genealogia.

Si tratta allo stesso tempo di una mostra divisa in due: sul percorso storico quanto sul suo attore principale, e destinata allo stesso che in qualche modo l’ha generato: come già accennato, la figura umana non sempre appare, e quando appare è quasi sempre nelle vesti di vittima di quel processo di cui si sta narrando e giustificando l’esistenza, come nelle immagini delle manifestazioni torinesi di Paola Agosti, o come nell’iconica immagine della madre migrante di Dorothea Lange. 

 

Dorothea Lange, Madre migrante.


A questo proposito, se l’immagine iniziale serve come preludio, come primo suggerimento, l’ultima fotografia sembra il finale ad effetto dopo una lunga sinfonia, l’ultimo monito: nota come una delle immagini iconiche del grande lavoro di reportage sul caso Minamata di W. Eugene Smith, si tratta di “Tomoko and mother”, del 1963, in cui, in una stanza caravaggesca, eliminata dal suo stesso buio, si vede solo una madre sorreggere il figlio giovanissimo e gravemente invalido in una vasca (piena d’olio, ci spiega il curatore) in quella che potrebbe essere una “Pietà” moderna, mostrando il figlio in questione carico delle conseguenze dell’epoca di cui abbiamo seguito l’evoluzione. 

 

Eugene Smith, Tomoko and mother.


Sotto il capitolo della /W/ di Wealth (salute) e sotto il quale si trova anche l’immagine di W. Eugene Smith, ci si imbatte, infine, in un video particolarmente eloquente: di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, “Discarica di Dandora” del 2018 mostra la lenta camminata di un uomo di spalle tra i meandri di una discarica delle dimensioni di una città, in cui l’orizzonte dell’inquadratura mostra sempre e solo altre curve invase dai rifiuti. 

Anche questa ultima scena in cui si viene trasportati può servire ad agganciarsi al percorso a serpentina della fotografia iniziale, quello invece naturale e incontaminato: come ultimo slancio di consapevolezza su un processo, pare dirci la mostra, difficilmente arginabile, viene offerta la possibilità di capire in quale punto del percorso decidere di rimanere, verso dove spostarsi, se tornare indietro o proseguire. Se il figlio, come ne “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene” di Roy Lewis, finirà per eliminare il padre e percorrere la propria strada, o se ne diventerà definitivamente l’erede.  

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