Una mostra a Camera / I paesaggi sovraesposti Walter Niedermayr
Il percorso proposto sui lavori di Walter Niedermayr – in mostra a Camera fino al 17 ottobre è uno sguardo vastissimo e al tempo stesso chirurgico sul paesaggio, in particolar modo sul paesaggio alpino. Il punto principale della ricerca del fotografo altoatesino classe '52 - che ha partecipato a mostre al MAXXI di Roma come al White Cube di Londra e al Centre Pompidou de Paris - è proprio lo spazio e la sua percezione, sia in ambienti aperti sia chiusi, e il contrasto tra il paesaggio naturale e l’intervento umano su di esso finalizzato al progresso dell’industria del turismo e degli sport alpini.
In mostra viene proposto un excursus di gran parte della produzione dell’autore, allestito in modo non cronologico, inclusi due video.
Tutti i progetti dell’artista sono “in progress”, senza una conclusione definitiva, bensì aperti all’evoluzione del percorso di ricerca.
L’operazione sottilissima di Niedermayr, nonché il primo elemento da cui si è attratti guardando i suoi lavori, è la frammentazione della scena rappresentata in due o tre parti, a formare dei dittici o dei trittici.
Le sue opere sono per la maggior parte di grande formato e a colori.
L’altra caratteristica, per procedere dal macroscopico al microscopico – come fa tacitamente l’autore stesso in ogni sua opera – è che tutte le immagini sono sovraesposte. Questo in termini fotografici vuol dire che prevalgono le luci sulle ombre, i bianchi sui neri, cioè sono molto molto chiare. Fino, appunto, a sfociare in bianchi cosiddetti “puri”, ovvero assoluti, e quasi mai, al contrario, in ombre chiuse fino al nero pieno.
Questo, sicuramente, sempre in una prima analisi generale, può portare a due rapide considerazioni: così facendo si ottiene un effetto più “grafico” dell’immagine, più astratto, in cui si evidenziano maggiormente le linee e le forme con meno dettagli di quanti se ne vedrebbero in una fotografia esposta perfettamente. La visione viene resa più abbagliata, e quindi alienante. La seconda considerazione è questa: in una fotografia di paesaggio sovraesposta, il cielo verrà quasi sempre bianco. Si avrà, così, una separazione netta da ciò che c’è sul piano terreno e dunque da ogni condizione metereologica, intuibile solo dalla luce che colpisce la colonna di cemento anziché le discese innevate. L’esposizione in questo caso vale come enunciazione del soggetto, come dichiarazione d’intenti. Si parla di ciò che l’uomo calpesta, di ciò che lo circonda, del luogo in cui si muove.
Così come l’ordine non cronologico con cui sono state allestite le opere, in modo tale da far dialogare nella stessa stanza, per esempio, opere dal 2001 al 2020, porta immediatamente il visitatore ad abbandonare una logica temporale, per immergersi nel pensiero più ampio e tematicamente costante di Niedermayr.
Per capire meglio quello che succede guardando la maggior parte delle opere in mostra, prendiamo ad esempio un lavoro come “Hintertuxergletscher 23/2004”, dittico, 131x211 cm, posto verso la fine del percorso di visita: come abbiamo già detto, il soggetto, anche se si tratta di un dittico, è uno solo. Qui abbiamo quello che sembra un impianto di risalita per le attività sciistiche, una pavimentazione piastrellata molto chiara in prospettiva frontale e transennata sui tre lati visibili; a sinistra dell’immagine di sinistra quattro persone di cui una praticamente fuori dall’inquadratura (elemento che torna spesso in più lavori), mentre a destra dell’immagine di destra si vede un gruppetto di persone stanziate davanti a una casupola di servizio e una persona in sedia a rotelle con l’accompagnatore. Dietro, un grande e compatto complesso roccioso con delle corde da arrampicata scontornato e sovrastato da un cielo bianco latte.
Abbiamo così una scena ferma (le persone, anche se sono intente a compiere azioni in movimento, non sono mosse, dunque lo scatto è stato eseguito con tempi rapidi) che scopriamo essere divisa sì in due immagini, ma non perfettamente combacianti. Infatti, se a una buona distanza l’immagine sembra coerente tra la prima e la seconda fotografia, avvicinandosi e ponendo l’attenzione proprio là dove l’immagine si interrompe, ci si rende conto che l’inquadratura è stata spostata da uno scatto all’altro. Quello in cui si viene trasportati è una lampante narrazione di uno scenario immobile. Dividendo l’immagine in due o in tre si porta lo sguardo del visitatore a un ordine di lettura di qualcosa che nella realtà si guarderebbe “a colpo d’occhio”, tutto insieme, creando mentalmente una visione uniforme. Non solo, l’operazione chirurgica prosegue facendo ricostruire alla nostra visione mentale il movimento che l’autore deve aver fatto per eseguire gli scatti, separati quindi anche temporalmente. E ancora, da questa prima immedesimazione, si raccoglieranno i dettagli, di solito quasi impercettibili, per ricostruire uno spazio esteso a 360 gradi.
Ciò che Niedermayr ci fa compiere, quindi, sono tre movimenti: uno orizzontale di lettura della scena rappresentata, uno di avvicinamento fisico alle immagini, e uno mentale di ricostruzione dei movimenti che ha fatto per catturarle.
Quest’opera si inserisce nel progetto “Alpine Landscapes” iniziato nel 1987 e che ben esemplifica l’approccio critico dell’autore nei confronti della deturpazione del paesaggio a favore del turismo e degli sport alpini. Niedermayr scrive a proposito di questo lavoro: “Il paesaggio alpino fa parte della mia vita sin dall’infanzia. [...] Ho scoperto che potevo usare la mia esperienza diretta essendo stato testimone di quanto il tempo libero e l’industria del turismo abbiano continuamente proposto nuove possibilità e trend sportivi, manifestando allo stesso tempo una crescente sconnessione dal contesto paesaggistico.”
Nell’ultima stanza e prima dell’ultima serie esposta ci sono i due video. Sono esplicite riflessioni sul tema sopracitato della scarsa attenzione verso il paesaggio alpino. Nel primo, per esempio, si vede infatti una transumanza di sciatori lanciati su una vasta discesa con più riprese sovrapposte che potenziano la cacofonia generale con la quale si intrecciano.
Quello che di nuovo colpisce nei lavori di Niedermayr è il duplice approccio alla tematica del paesaggio, ovvero etico ed estetico, intrecciati a sostegno di un’unica tesi. L’artista sembra dirci non solo che è necessario ricordarsi dell’essenza del mondo alpino (quella espressa da Vittorio Sella e Ansel Adams, citati a questo proposito nel testo di Walter Guadagnini, direttore di Camera e curatore della mostra, presente nel catalogo) evitando di sfruttarlo solo per lucro, ma che è anche necessario ricordarsi di guardarlo e di come guardarlo. Capire e riconoscere dove si è, anche se il luogo in cui si è non è mai fisso, immobile, come abbiamo già visto, ma subisce costantemente variazioni percettive.
Ad accogliere il visitatore sulla parete sinistra di ogni stanza c’è un’altra importante serie dell’autore dal titolo “Ritratti”. Iniziata nel 2012, consiste in fotografie formalmente molto simili tra loro che rappresentano cannoni sparaneve immortalati durante l’estate, quindi inattivi e coperti. Sono immagini più piccole delle altre descritte, con una composizione molto semplice che vede il soggetto al centro e contornato da una misurata porzione di paesaggio e di cielo. Quasi come a svolgere il ruolo di “basso continuo” della visita, queste presenze alienanti e opprimenti accompagnano il visitatore ricordandogli la tesi da dimostrare, quella da cui si parte e dove si arriverà alla fine della visita.
Se il percorso, infatti, inizia con “Felskinn 05/2005”, un dittico verticale che raffigura una veduta dall’alto di una distesa innevata su cui spuntano tante piccole figure di sciatori vista attraverso un dettaglio di un traliccio, nel lungo corridoio che costeggia a ritroso le stanze e porta poi verso l’uscita è stato allestito il lavoro “Coesistenze”.
La ricerca è rivolta verso la Val di Fiemme, valle dolomitica tra il Trentino e l’Alto Adige, e i mutamenti che col passare del tempo ha subito l’architettura e l’estetica urbana dei suoi comuni. Basandosi su un sistema rurale molto antico, salta subito all’occhio il contrasto con elementi voluti da un progresso economico e industriale per nulla in sintonia col retroscena architettonico e culturale di quei luoghi. Lo si percepisce come uno strappo brutale tra il prima e l’adesso, tanto che risulta difficile ricostruire mentalmente l’atmosfera dei paesi prima che questa drastica mutazione avvenisse. Formalmente, anche in questo caso le fotografie sono spesso verticali e più “anonime”. L’inquadratura semplice ma accurata rende bene l’idea negativa della “normalità” cui si è ormai abituati associare il paesaggio, e appiattendo così il pathos visivo si può considerare questo lavoro universale, esteso globalmente a quello che pare un processo inarrestabile quanto sempre meno percepito. Con la stessa logica interna alle opere di grande formato, ecco che dalle vedute ampie in cui si poteva osservare esternamente il muoversi di altre vite, ci si trova ora immersi nel luogo in prima persona, a camminare per spazi che si è chiamati a concepire diversamente. Robert Capa diceva che se una fotografia non è buona è perché non la si è scattata abbastanza da vicino: Niedermayr ci insegna che questo è vero, ma che per cogliere il dettaglio a un palmo dal naso è necessario partire da molto più distanti.
“Walter Niedermayr – Transformations” è la mostra ora in corso fino al 17 ottobre a Torino presso Camera - Centro Italiano per la Fotografia.