I Parnassius estinti
“...e i pastori vengono presi anch’essi dalla febbre ed alzano pietre su pietre minacciando col bastone gli altri ricercatori che vengono dalla città. Ora non esiste più: distrutta è la specie, estinta è la razza. Ora non c’è più pericolo di prendere una bastonata...”.
Queste parole, ironiche e sconsolate, sono di Mario Sturani, entomologo e artista torinese del novecento. Le scrisse, a proposito del Carabo d’Olimpia, nella sua opera “Caccia grossa tra le erbe”, un volumetto che pare fatto apposta per i ragazzini ma che in realtà è un’opera stupenda per tutti, un connubio tra poesia e scienza. Leggendo i suoi capitoli dedicati a insetti comuni o rari e sconosciuti, citando il Piemonte e le valli alpine, si penetra con lui nel racconto, nella sua caccia grossa tra le erbe, quella che, sin da bambino, ognuno di noi entomologi per diletto e per amore, ha imparato a conoscere. Infatti, noi entomologi per passione ci si sdraia nei prati, spesso tra le risatine dell’osservatore sciocco e stupito, a osservare il bruco che si divora una foglia di tarassaco, l’epeira che sugge i resti di qualche preda finita nella sua rete appiccicosa, o il cantaride molliccio che se la svigna al volo non appena ci percepisce vicini. Una sorta di caccia grossa tra le erbe è anche quella che mi appresto a raccontare ed ha lo stesso sconsolato finale del capitolo di Sturani: “Ora non c’è più pericolo di prendere una bastonata”. Infatti, qui parliamo di quelle farfalle che sono tra le più ambite tra giovani e meno giovani appassionati: i Parnassius. Sono specie di montagna che amano le praterie e i dossi asciutti o i fondovalle freschi ed umidi, e che, essendo “eliofile”, hanno un amore smisurato per il sole, senza il quale non riescono proprio a volare. Sono farfalle chiare, bianche e quasi trasparenti, con macchie opache nere e, in alcune specie, rosse, con una fine pelosità sul corpo che ricorda quella delle gemme di salice. Hanno anche un profumo tipico, di erbe alpine, che il naso esperto riconosce al volo. Vivono, con varie decine di specie, dalle nostre Alpi sino ai monti Urali e Altai della Siberia, dai Pirenei alla Scandinavia, dal Caucaso all’Himalaya, e poi sulle Montagne Rocciose e i grandi passi del nord America, in Giappone e Corea. Avrai ormai compreso, o lettore, che si tratta di specie affascinanti che volano anche fino a 5000 metri e forse oltre, veleggiando sugli infiniti dossi dei Tien Shan così come sulle belle praterie delle Alpi.
Ebbene, nelle valli biellesi in cui si cercavano farfalle in gioventù, ce n’erano ben due di Parnassius: lo mnemosine e l’apollo. Lo mnemosine è una farfalla di dimensioni grandi per gli standard europei, quasi interamente bianca nel maschio e semitrasparente nella femmina, con un paio di macchie nere su ogni ala e un bordo diafano. L’apollo è ancora più grande, bianco candido, con tre o quattro macchie nere all’ala anteriore e un paio di magnifici ocelli rosso carminio, spesso con una pupilla bianca al centro, in quella posteriore. Sono farfalle davvero belle e uniche, non paragonabili a nessun’altra in Europa.
Vidi per la prima volta un esemplare di mnemosine, all’età di dodici anni, a casa di una vicina il cui padre, pescatore, aveva raccolto varie farfalle, le aveva spillate e sistemate in un quadro che faceva bella mostra di sé nel salotto. Naturalmente, non riuscii a farmi dare l’esemplare, peraltro preparato maldestramente e senza cura. La ragazzina pretendeva di essere una collezionista. Ma riuscii se non altro a farmi dire da dove proveniva: dall’alta Valle Cervo. E si cominciò la ricerca, senza frutti per vari anni. Un bel giorno, Piscopo seppe dall’Avvocato, famoso collezionista di coleotteri ma anche conoscitore di farfalle, che lo mnemosine si trovava abbondante in valle Cervo; l’Avvocato lo invito’ a casa sua e gli mostrò due teche piene dei bianchi Parnassius. Il luogo, gli disse, non era difficile da trovare: bastava salire dopo il borgo di Rosazza verso Piedicavallo e perlustrare i grandi prati ad erbe alte che circondano la via alla fine della primavera. Lì si doveva attendere che la farfalla, con i raggi di sole, si alzasse in volo uscendo dai suoi nascondigli tra le alte erbe. E il posto giusto lo scoprimmo rischiando le bastonate del vaccaro del Pinchiolo. Infatti, con Piscopo, si camminava quel pomeriggio assolato di giugno lungo i prati che attorniano la via che sale da Rosazza a Piedicavallo. Le vacche facevano il loro mestiere, mangiavano erbe e ruminavano proprio là dove vedemmo una farfalla bianca, grande abbastanza da parere lo mnemosine, improvvisamente involarsi ai limiti del prato e della boscaglia che scende dalla ripa. Ignorando le vacche entrammo di corsa nel prato calpestando i settori ancora recintati e dall’erba alta e ordinata, pronta per il fieno. Il vaccaro che si trovava a pochi metri, vedendo il nostro scempio, si mise a urlare imprecando contro di noi e brandendo il suo bastone. Ci lanciò addosso il suo cane pastore, un bastardino rumoroso e saltellante. Miseri noi: lo mnemosine presunto era sparito verso il bosco, noi avevamo il cane abbaiante sui nostri stinchi e il vaccaro addosso imprecante con il bastone.
Ci fermammo e rientrammo mesti sui nostri passi raggiungendo la strada, mentre l’uomo, calmatosi smetteva di urlare. In effetti, quel rozzo individuo urlante, dal bel volto rubizzo e la barba incolta, era anche un tipo ragionevole e si poté intavolare un discorso in dialetto piemontese, poiché l’italiano lo masticava poco. Ci disse che eravamo dei maleducati e che potevamo pestare erba solo da un lato, che gli insetti li cercava anche il “Titon”, l’Avvocato famoso che lui conosceva bene e che forse lo prezzolava con una buona bottiglia di vino per poter accedere indisturbato ai prati che gli appartenevano. Ci indicò che si poteva restare, ma senza calpestare le parti cintate del prato. Intanto, tra una frase e l’altra aizzava il cane contro le vacche per farle rientrare nella stalla e urlava come un matto: “Trimenda ven”, “Va piè la Brun-a”, “Mora va dinta”. Eravamo in un altro mondo. E intanto lo mnemosine si alzava in volo e noi lo inseguivamo fino ai limiti del calpestabile per non attirare le ire del nostro margaro. Alla fine ne catturammo una manciata e fummo felicissimi quella sera. Il vaccaro ci guardò con curiosità certo domandandosi come potesse esistere gente bizzarra che cacciava farfalle quando invece lui doveva far entrare le vacche nella stalla per la mungitura serale. Un altro mondo. Scendemmo a Biella dopo averlo salutato con un “ca la staga ben!”, e lui a rispondere tra sé e sé “fevi furb”.
L’apollo biellese, invece, fu più difficile da scovare. Non stava lungo la via, ma occorreva marciare un po’. Piscopo ne aveva trovato un paio qualche anno prima durante una passeggiata ai monti di Piedicavallo, in alto, oltre il paese, seguendo la via che sale lungo il torrente Mologna verso le Piane. Ma non mi disse esattamente il luogo per qualche tempo malgrado le mie richieste, come si fa tra rivali entomologi da ragazzini: guai svelare un segreto del genere. Poi, un giorno di luglio, finalmente salimmo insieme verso quei luoghi. Giunti a Piedicavallo, si parcheggiò il motorino nei pressi della vecchia chiesa. Sulla destra stava una scalinata che saliva tra le prime case in pietra lungo strette calli. C’era allora (e forse ancora oggi) una fontana di acqua fresca e rumorosa che si gettava nella vasca ricavata dalla pietra dura di quei monti. Qui riempimmo le borracce, poiché ci attendevano alcune ore al sole ed una buona marcia tra boschi e torrente. E si salì oltre le case, dove compaiono i prati e le prime boscaglie. Lungo il sentiero, sulle rocce e sui margini pietrosi ora si osservava il Sedum in piena fioritura che formava dei folti cespi allungati dai fiorellini bianchi e dalle foglie rosse. Questa è la pianta della quale si ciba il bruco discreto e scuro dell’apollo, ci dicevamo, e di certo siamo vicini alla mitica bestia. Ne avevamo visti parecchi di apollo, ma in altre vallate vicine, in Val Sesia o in Val d’Aosta, e non qui a pochi chilometri da casa nostra. Questa farfalla riesce davvero ad affascinare l’entomologo. Anche il grande scrittore Hermann Hesse lo descrisse con parole appassionate: “oggetto degli avidi desideri dei fanciulli, bianca come la neve e con macchie rosse, l’immagine della regina delle farfalle era sospesa davanti a lui nell’azzurro.”
Ma qui, nella valle del torrente Mologna, l’ansia cresceva come sempre avviene quando si sa di essere vicini alla desiderata preda e ancora non la si vede volare. I nostri occhi erano fissi, come spiritati, sulle ripe e i dossi erbosi che ora contornavano il sentiero. Chi si occupa di insetti sa cosa significhi avere la visione concentrata sulle piccole bestie che volano: è un occhio che rotea instancabile come un radar che permette di vedere ciò che nessun altro vede. Le case di Piedicavallo erano ormai scomparse alla vista e si era su di un terreno molto scosceso, con frassini e faggi sopra di noi, e con la ripida costa scavata dal torrentello rumoroso in basso, sotto di noi. Piscopo disse che eravamo arrivati, infine rivelandomi così il luogo segreto. Indico’ alcuni cardi che crescevano liberi nel mezzo del prato sui dossi verso il limitare del bosco. Lì, sugli spinosi fiori color lilla, vedemmo alcune farfalle aranciate volare e suggere avidamente: erano vanesse dell’ortica e qualche bella pafia. Ci avvicinammo senza accorgerci che ai nostri piedi stavano delle “moje”, come vengono qui chiamate le zone fangose e umide, dei pantani veri e propri, una sorta di sgradevole trappola per chi non sta attento e ci finisce dentro con i piedi inzuppandosi almeno sino alla caviglia. E infatti, tra le mie risate a crepapelle, Piscopo ci finì dentro con un piede. Ma ecco che, subito dopo, la nostra attenzione si rivolse a una grande farfalla bianca che scendeva calma lungo il dosso veleggiando con piacere e eleganza. Le fummo addosso in una frazione di secondo non appena toccò il cardo e fu una grave delusione. Non era l’apollo, ma la sua banale e comune imitatrice, la candida aporia che si trova un po’ ovunque dalla pianura ai monti e che sembra progettata apposta per confondere l’appassionato. Ma il vero apollo non tardò, quel giorno, a farsi vivo. Come già l’aporia, eccolo scendere dal bosco verso i cardi color lilla, ben più maestoso, come un vero re dei monti (stranamente, Hesse lo chiama “la regina dei monti” attribuendogli una connotazione femminile), veleggiando con grande sicurezza come pilota che dirigail proprio aliante per rotte sicure. Arrivò ai cardi in pochi secondi e lì si posò a suggerne con avidità gli spinosi fiori. Il mio retino esitò un poco per l’emozione ma in un battibaleno l’apollo era nostro. Era un bel maschio fresco e bianco-latte, dai grandi ocelli rossi con un punto chiaro al centro e dalle macchie nere che sembravano stampate in inchiostro di china tanto erano opache. Festante, lo presi fra le dita tenendolo per il corpo peloso mentre si dibatteva nella rete, provocando un rumore di ali simile a quello della carta con cui si costruiscono certi aeromodelli, tanto erano robuste e fruscianti. Era un insetto solido, infatti, in cui le scaglie che adornano le ali non si staccano facilmente come in quasi tutte le altre specie. Ne avvertii il profumo come di erbe di montagna, unico e aromatico a ricordare vagamente l’aroma di artemisia. Che fare ora? Trattenerlo e quindi ucciderlo o liberarlo dopo tanta attesa? In effetti, l’apollo non è come un altro insetto, non è neppure come le altre farfalle: è qualcosa di più, una sorta di monarca di questi luoghi alti e luminosi, pare ti parli con quel suo corpo flessibile e peloso come uno yeti, con gli ocelli e la clava delle antenne nere, con quelle ali poderose e robuste. Non si poteva ucciderlo e dopo qualche minuto lo liberai felice di vederlo ancora in volo come un aliante, e lui se ne andò planando e sfruttando la brezza per allontanarsi verso il torrente e poi, da lì, più oltre verso il bosco del lato opposto.
Quel giorno se ne videro altri sui cardi e poi più oltre, sui dossi erbosi, finché il sentiero entrava nel bosco per uscirne solo in alto, alle Piane, un gruppo di baite in pietra che erano lì da secoli forse. Le raggiungemmo per riposarci un po’ all’ombra dei verdi frassini che le attorniavano e per cercare dell’acqua fresca in una delle crude sorgenti lì vicino. Parlammo di questa popolazione di apollo che chissà cosa era: forse una nuova sottospecie? Ora, e qui apro una lunga ma necessaria parentesi che tornerà utile al lettore scrupoloso e voglioso di saperne di più, va subito chiarito che questo concetto di sottospecie per le varie razze di apollo è molto contenzioso. E’ un fatto, a Piscopo assai gradito in quanto amava questa specie più di ogni altra e godeva della presunta diversità, che alcuni entomologi del passato, a volte seri, altre volte veri fanatici, avevano stabilito battezzando con nomi latini diversi le due centinaia di popolazioni delle varie vallate alpine, dei Pirenei, degli Appennini, della Scandinavia, della Siberia. In pratica, per ogni colonia di apollo che si ritrova tra penisola iberica e Asia esiste un nome latino di sottospecie diverso. I criteri per tali distinzioni sono un poco ridicoli, in effetti: macchie più grandi rosse, macchie più piccole nere, colore di fondo bianco-ghiaccio oppure più cremoso, dimensioni grandi o più ridotte, e così via. Un “parnassiologo” olandese del secolo scorso, un vero esempio, a mio avviso, di parnassiofilia si ingegnò a classificare per la prima volta o a ri-classificare all’occorrenza le sottospecie di apollo che altri prima di lui avevano già designato – chissà come - quali razze differenziate, riportando a volte nomi di località molto prossime tra di loro per due razze diverse. Ad esempio, secondo il Parnassiologo batavo in Val Sesia si ritroverebbe la sottospecie nobilis, che non può essere diversa dalle sottospecie redivivus della vicina valle di Macugnaga e pedemontanus della vicina valle d’Aosta: in effetti tutte queste farfalle, pur nelle loro magnifiche variazioni individuali, sono identiche. Ma non per l’olandese. E che dire poi del fatto che la sottospecie redivivus data per la valle di Macugnaga e anche per la valle Devero sia interrotta, in quanto a distribuzione, dalla sottospecie caloriferus che abiterebbe la bassa vallata del Sempione che se ne sta nel mezzo, ovvero quasi negli stessi luoghi attribuiti dal batavo a quell’altra sottospecie? Insomma, un vero pastrocchio a volte senza molto senso. Ma chissà che il nostro apollo biellese non sia davvero una sottospecie, si diceva lo stesso, ironizzando sulla fantasia con cui le cose erano gestite dagli esperti parnassiologi.
Alcuni anni erano trascorsi, e noi salimmo ancora nella vallata, a cercare lo mnemosine, più in basso, e l’apollo, in alto. Dopo una decina d’anni nessuna delle due specie fu più osservata in quei luoghi e ora sono quasi trent’anni che di Parnassius nei nostri monti del Biellese non se ne vedono, né in quei luoghi né in altri dove potrebbero esserci. Il timore è che si siano estinti, come già temeva Sturani a proposito del carabo. E la speranza è che ci si sbagli, proprio come nel caso del carabo. Ma, a dire il vero, i grandi alianti mnemosine e apollo sono ben più visibili dei carabi che stanno sotto le pietre e il fatto di non averne osservati per anni lascia poco spazio alla speranza che ne sopravvivano ancora. Difficile a dirsi, ma i danni all’ambiente, ora più umanizzato, la razzia di erba e di piantine su cui vivono le larve delle nostre farfalle e la creazione di un recinto per cavalli e asini che divorano ogni angolo di pascolo, rendono molto limitate le possibilità di trovarne ancora: “Ora non c’è più pericolo di prendere una bastonata”, potremmo concludere con ironia, tristi nel sapere che i miei figli, e i figli dei loro figli, non avranno più questa soddisfazione che per me fu tra le più grandi della gioventù.